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RECENSIONI

MORAVIA

ALBERTO MORAVIA, LA VITA INTERIORE – BOMPIANI, MILANO 1978

La vita interiore merita un dibattito che superi l’interesse letterario e diventi momento di verifica ideologica, perché questo libro si presenta già da adesso come best-seller, come terreno di scontro tra varie ipotesi interpretative e critiche. Inoltre, dovrebbe essere l’ultimo romanzo di Alberto Moravia (stando alle dichiarazioni dell’autore), cioè di colui che viene considerato il più importante scrittore d’Italia, il narratore per eccellenza della crisi borghese, l’intellettuale che “fa” opinione, che interviene sempre e su tutte le fondamentali questioni del paese. Ebbene, questo suo ultimo libro, mi sembra essere un omaggio che Moravia rende a se stesso e una omaggio reso alla protagonista di tutta la sua opera: la borghesia. Spiegherò il perché. Ne La vita interiore esistono temi e personaggi che sono un po’ la sintesi, la “codificazione” di temi e personaggi moraviani precedenti. Desideria che spia la madre e l’amante di lei che contano i soldi con venerazione sacrale, e che cerca di dissacrare il denaro in maniera piuttosto infantile, è Luca de La disubbidienza, che scopre i genitori davanti alla cassaforte e decide di distruggere i suoi risparmi. Desideria-madre-amante della madre, è quello che esisteva ne Gli indifferenti tra Carla-la madre-Leo. Il rapporto incestuoso con la madre, anche se più larvato, era già in Agostino. Ma tutto ciò, la ripetizione di cose più o meno già dette, è certamente un’operazione legittima in qualsiasi scrittore, e possiamo presumere che Moravia abbia inteso offrirci appunto una “summa” dei suoi argomenti, una carrellata riassuntiva di personaggi e situazioni. Operazione legittima, anche se non particolarmente originale. Criticabile mi sembra invece l’omaggio alla borghesia, sia come protagonista sia come interlocutore (pubblico). Moravia infatti costruisce il suo libro usando tutti gli ingredienti che oggi rendono: c’è perciò molta psicanalisi, c’è un pizzico di marxismo, c’è il femminismo, c’è il rapporto scrittore-testo scritto. Analizziamoli, allora, questi ingredienti. La psicanalisi è strumento essenziale attraverso cui si compone il rapporto tra l’Io dell’autore e la protagonista intervistata: ma gli schemi sono talmente tipici, talmente freudiani da risultare manualistici, e tutto il racconto-intervista ha in realtà il sapore di una confessione cattolicamente intesa, con quel tanto di morbosità insistita che spunta nelle domande provocatorie e quel tanto di masochismo autoflagellante di chi si confessa. Il marxismo c’entra, nel libro, tirato in ballo dalla rivolta studentesca (intuita più attraverso i blue-jeans e le scarpe da tennis che altro) e da sedicenti gruppi rivoluzionari armati. Ma l’immersione nella borghesia è tale che anche il personaggio proletario che dovrebbe contrapporsi a essa, ne risulta (come ha già scritto Pierrot sul QdL) una brutta copia. Al di fuori della classe borghese quindi non esiste nulla, se il proletariato non ha valori che non siano parodie di quelli borghesi, se anche il femminismo sembra non saper dare risposte o indicazioni valide: la protagonista è una donna giovane, Desideria, con un nome che è un augurio e un programma, con un’origine bastarda che potrebbe aiutarla a uscire dalle sue contraddizioni. Eppure del femminismo Desideria non recepisce nulla: non la gioia del sesso che per lei è tormento e ossessione, non la ribellione agli stereotipi in cui è consciamente immersa, non la solidarietà con le altre donne. L’erotismo che è uno dei caratteri dominanti del romanzo, sembra anch’esso rispondere a esigenze extra-testuali: è forse simbolico che non si sia un rapporto amoroso “normale” in tutto il libro. Desideria odia il suo corpo, perciò la continua masturbazione non è mai carezza, bensì violenza, negazione; Desideria tenta a più riprese di prostituirsi, subisce con soddisfazione maniacale lo stupro “liberatorio”; sua madre oscilla tra lesbismo (un lesbismo cattivo, padronale) e ansie di sodomizzazioni; dei tre uomini, uno sodomizza al grido di «Dammi l’America», l’altro -il proletario- è un puttaniere, il terzo è un prostituto. E’ evidente che tutto ciò cerca volutamente di rappresentare la distruzione e la negatività di un mondo, di una cultura in sfacelo; ma le situazioni sono a tal punto esasperate da sembrare false, fittizie, a volte ridicole. Una borghesia, insomma, talmente negativa (stupida, rivoltante, volgare) da risultare banale, non credibile. Infine, l’ultima novità del romanzo, il rapporto con cui lo scrittore si pone davanti al testo, alla narrazione, al personaggio: Desideria gli concede un’intervista che l’autore trascrive con fedeltà oggettiva e neutrale, e dopo 400 pagine lo abbandona reclamando il suo diritto a tornare nel nulla dell’esistenza solo scritta: «La tua immaginazione mi ha bruciata, consumata. Alla fine non esisterò più, se non nella tua scrittura, come impronta, come personaggio».

Ciò farebbe supporre (e neppure tanto improvvisamente, se si riflette ai moduli narrativi che Desideria impiega nella sua pretesa “intervista” raccontata a voce: contrasto che rimane la cosa più interessante del romanzo) che scrittore e Desideria siano la stessa persona, che le conclusioni cui lei approda (non tanto i due omicidi che restano immotivati, non convincenti) siano quelle che Moravia le detta: non c’è soluzione o risposta al negativo, alla crisi della borghesia, che è crisi totale, di tutti. Ho scritto che il romanzo è un omaggio a questa classe (perché nulla esiste all’infuori di essa, e perché per soddisfare precise indicazioni di gusto della borghesia è stato scritto, con minuzia fredda e distaccata) e un omaggio di Moravia a se stesso. Si può concludere che Moravia poteva trattarsi meglio, che speriamo in un altro libro, quello sì «più terribile e necessario».

 

«Quotidiano dei Lavoratori», 30 agosto 1978

RECENSIONI

MORAVIA

ALBERTO MORAVIA, RACCONTI ROMANI – BOMPIANI, MILANO 2001, p. 408

 Tra le tante ingiustizie di cui si macchia il mondo letterario ed editoriale italiano nei riguardi dei suoi protagonisti, una delle più eclatanti è secondo me la sottovalutazione e il conseguente oblio dell’opera di Alberto Moravia, la cui narrativa viene ormai riproposta solo in ebook, decretandone così la sostanziale irrilevanza. Invece, a chi volesse riscoprirne originalità, intelligenza e maestria di scrittura, basterebbe rileggere la prima produzione, a partire da quella di impianto neorealista, e in particolare dai Racconti romani.

Pubblicata nel 1954, la raccolta di settanta novelle – uscite negli anni precedenti sul Corriere della Sera -, narrano le vicende di singoli individui e di famiglie romane, appartenenti a diversi ceti sociali, ma per lo più alla piccola borghesia, al proletariato e al sottoproletariato della capitale. In un linguaggio colloquiale, dimesso e reso più immediato da frequenti dialettalismi, Moravia offriva ai lettori un quadro disincantato delle vicissitudini occorse ai vari personaggi, nel periodo di storia che segnava il trapasso tra la fine del secondo conflitto mondiale e la ricostruzione del paese, quindi tra depressione, umiliazione, senso di sconfitta da un lato e speranza, volontà di ripresa, ottimismo dall’altro.

Il palcoscenico su cui si recita questa commedia umana è sia la Roma delle periferie, delle baracche e delle campagne, sia quella del centro trafficato e vivace, dei monumenti famosi, delle abitazioni e dei negozi dal decoro dignitoso, benché privo di sfarzo. Le voci narranti appartengono nella quasi totalità a giovani uomini, scapoli o maritati con prole, travolti da difficoltà economiche, malattie, tragedie o dissidi tra parenti, desiderosi di riscatto sociale ma contemporaneamente rassegnati al loro fallimento lavorativo ed esistenziale: affidano sé stessi alla sorte, sperando in improbabili colpi di fortuna in grado di mutare in meglio il loro destino.

Operai inquieti e rabbiosi (La rovina dell’umanità), figli e padri insofferenti degli impegni parentali (Scherzi del caldo), negozianti afflitti dai capricci delle mogli (Sciupone), ragazze desiderose di sfondare nel mondo del cinema (Il provino), piccoli truffatori che tentano di arricchirsi con ingenui sotterfugi (Impataccato), sposi in miseria ridotti a rubare oggetti sacri (Ladri in chiesa), ex commilitoni affamati pronti a spolparsi a vicenda (Romolo e Remo). Un piccolo capolavoro, formalmente calibrato in un crescendo irresistibile di comicità e irritazione, risulta essere il monologo di Non approfondire, in cui un marito devotissimo ma assillante e prevaricatore nei confronti della moglie, si tormenta chiedendosi il motivo dell’abbandono di lei.

Moravia descrive le situazioni mortificanti patite dai suoi personaggi con uno sguardo lucido, privo di qualsiasi retorica o falso pietismo, e semmai con amara ironia, rimanendo essenziale e oggettivo nell’illustrare le cause degli avvenimenti, e gli effetti fallimentari e controproducenti delle azioni messe in campo.

Il critico Emilio Cecchi diede di questi racconti un giudizio memorabile: “Una quantità di personaggi che se ne stanno chiusi e saldati in una elementare, inarticolata realtà; in una sfera, in una categoria premorale, che crocianamente si direbbe la categoria dell’utile, dell’economico, della nuda e cruda vitalità”. Anche il nostro cinema seppe abilmente sfruttare gli spunti offerti dalla penna moraviana, attraverso le pellicole di Monicelli, Bolognini, Blasetti, Franciolini.

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 19 agosto 2022

 

 

 

 

 

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MORETTO

LUCIANA MORETTO, LA MEMORIA NON HA PALPEBRE – LA VITA FELICE, MILANO 2012

Da un frammento di Emily Dickinson, il titolo di questa raccolta di poesie di Luciana Moretto sembra suggerire che chi ricorda non chiude mai gli occhi, continua a tenerli ostinatamente e nostalgicamente aperti su volti, voci, gesti delle persone che abbiamo amato e che ci hanno lasciato. «Che cos’è la poesia se non il perpetuo racconto di un’assenza, di qualcosa che continuamente manca e che paradossalmente e sempre ci insegue con la sua presenza?», scrive nella sua partecipe prefazione Piero Marelli. Una poesia che si propone di annullare la distanza, recuperando tempi e spazi messi in ombra, ma mai definitivamente cancellati, dalla morte di chi ci è stato caro. In questo caso, del fratello dell’autrice, che lei è certa di poter ritrovare in un’altra, più generosa e perenne dimensione: «sicura dell’eterna compresenza / del tutto nella vita, nella morte», «certo prosegue di là, oltre il confine / d’ombra il patto di alleanza che un’anima / tiene accostata all’altra», «non arresa presenza, / garanzia di vita che continua» nella metafora di un asfodelo giallo reciso che persiste inspiegabilmente a rifiorire. Il fratello amato, le cui ceneri sono conservate in un’urna lontana, «nel continente estremo in vista / del mare», torna vivo nella foto dell’infanzia, sollevato in braccio dalla madre orgogliosa dell’unico figlio maschio. O nel quaderno ritrovato, con i riassunti dell’Iliade, e nei suoi inquieti vagabondaggi intorno al mondo, di cui la sorella poetessa si faceva rassicurante tramite presso i familiari «perplessi». O ancora nell’eco di una telefonata gentile, nelle immagini allegre del giorno del matrimonio. Ma soprattutto nella poesia più delicata del volume, che raffigura il fratello «smagrito e stanco» intento a curare le rose del suo giardino: «Spesso la morte è gentile / e ha buoni modi. Non toglie / qualcosa di vistoso, le basta / che muoia una cosa / una sola, diversa ogni volta. // E così piano piano / dalle tue mani ha tolto la rosa».

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

RECENSIONI

MORMINO

GIANFRANCO MORMINO, PER UNA TEORIA DELL’IMITAZIONE

RAFFAELLO CORTINA, MILANO 2016

Il professor Gianfranco Mormino, docente di Filosofia Morale all’Università degli Studi di Milano, ha pubblicato un saggio rilevante che, spaziando dall’etologia alla psicologia sperimentale, e basandosi soprattutto sulle scoperte più recenti delle neuroscienze, arriva a conclusioni filosofiche e scientifiche che potrebbero avere senz’altro importanti implicazioni etiche e pedagogiche in futuro. La sua indagine riguarda la teoria dell’imitazione, che pur interessando i comportamenti basici sia dell’uomo sia degli animali, è sempre stata disconosciuta o apertamente snobbata dal pensiero occidentale, con le uniche eccezioni di Spinoza nel passato e di René Girard tra i contemporanei.

«Ci riesce difficile pensare a comportamenti che non siano influenzati da modelli… nulla sembra   sottrarsi alla forza degli esempi esterni, dai quali siamo invincibilmente attratti verso azioni standard che ripetiamo senza nemmeno esserne più consapevoli e che, per questo, attribuiamo ingenuamente alla nostra natura o ai nostri istinti».

La filosofia occidentale, «autoreferenziale e gerarchizzante… funzionale a una politica fondata su un sistema di obbedienza, ricompense e punizioni stabilite in ambito sociale», centrata «essenzialmente su un soggetto europeo, maschio, adulto e sano di mente», ha per duemilacinquecento anni trascurato di interessarsi ai processi psichici e all’agire sia degli animali sia degli esseri umani ritenuti intellettualmente o moralmente più deboli, non dominanti e non produttivi (bambini, razze considerate inferiori, minorati psichici, … donne), focalizzandosi soprattutto sui comportamenti razionali, maturi, spontanei e “liberi” da influenze esterne. L’imitazione, fondamentale nell’apprendimento e in qualsiasi processo cognitivo ma ritenuta attività gregaria, “scimmiottante”, è stata quindi presa in considerazione solo in un periodo recente, a partire dalla scoperta dei neuroni a specchio: mentre in precedenza essa veniva studiata esclusivamente nei suoi livelli elementari – fisiologici e neurologici – relativi al periodo neonatale e della prima infanzia, e nelle azioni più semplici di tutti gli esseri viventi. Oggi la ricerca si occupa dei comportamenti imitativi anche nei suo aspetti sociali, con le ovvie implicanze antropologiche e addirittura economiche.

Riguardo alle motivazioni profonde dei processi imitativi, sussistono ancora negli studiosi forti differenze interpretative. Gianfranco Mormino propone in questo volume una sua suggestiva e originale ipotesi, postulante «l’esistenza di un unico meccanismo mimetico, rimanendo all’interno di una visione unitaria e continuista della logica della vita, passibile di essere applicata tanto agli uomini quanto agli animali». Contestando la presenza di una capacità innata di imitare gli altri, Mormino si interroga (da un punto di vista materialistico e antiteleologico) sulle cause che hanno determinato il successo della funzione della mimesi a livello evoluzionistico (perché e come un essere vivente imita, seguendo quali modelli e per raggiungere quali scopi?). Ed è convinto che ogni singolo animale – umano e non – imiti per meglio adattarsi all’ambiente, stabilizzando «atti motori trovati accidentalmente e rivelatisi favorevoli», e li replichi “autoimitandosi”, con l’obbiettivo di soddisfare i suoi bisogni e di procurarsi piacere. Esplorando l’ambiente circostante per meglio adattarvisi, l’essere vivente apprende in maniera fortuita i movimenti che favoriscono il suo sviluppo, passando poi dall’autoimitazione più elementare e fisiologica ad abilità più raffinate, acquisite nell’interazione con gli altri individui. Il volume si occupa anche delle implicazioni etiche e pedagogiche dell’autoimitazione, cioè di come il soggetto che imita si relazioni con l’interesse comune, di come il suo comportamento venga modificato dai divieti e dalle esortazioni educative della famiglia e della società, di come patisca le identificazioni e le rivalità con gli altri modelli: e lo fa coniugando metodi di indagine multidisciplinari, scientifici e filosofici, nell’intento di proporre un’ipotesi di ricerca scevra da qualsiasi forma di finalismo e intenzionalismo.

 

© Riproduzione riservata    

www.sololibri.net/Per-una-teoria-imitazione-Mormino.html        31 dicembre 2016

 

 

 

 

RECENSIONI

MORONCINI

BRUNO MORONCINI, MONDO E SENSO – CRONOPIO, NAPOLI 1998

Questo piccolo libro del filosofo Bruno Moroncini, pubblicato nel 1998 ma ancora acquistabile online, è dedicato alle parole e ai silenzi di due grandi figure del pensiero e della poesia novecentesca: Heidegger e Celan, accomunati non solo dall’uso della lingua tedesca, ma soprattutto dalla presenza testimoniale alla tragedia del nazismo e dell’olocausto.
Viviamo in un mondo e in un’epoca storica in cui (come citato dall’esergo di Elie Wiesel) «tacere è proibito, parlare è impossibile»»: tacere e parlare, cioè, del senso e del non senso della nostra esistenza.

«La mondializzazione, la formazione del mercato mondiale e la globalizzazione dell’economia, che vanno di pari passo con l’unificazione mediatica e digitalizzata del mondo, comportano esattamente la scomparsa del mondo e del senso, la scomparsa del senso del mondo e del mondo del senso».

Un mondo che ingloba tutto, che non ha più un fuori cui rapportarsi, vive in una sorta di regime del senso, di perdita di significazione, in una chiusura conservativa che esclude rischio e libertà, in cui l’azione stessa «finisce per fabbricare cenere».
Heidegger (riletto qui anche attraverso Nancy, Arendt e Lacan) non è ancora stato riabilitato moralmente a causa della sua adesione al nazismo e del suo silenzio sui campi di sterminio: davanti al non-senso della follia hitleriana, il filosofo che pure aveva saputo coniugare nei suoi testi teorici la dignità umana con l’assoluta libertà, regredisce a una complicità effettiva con l’orrore, con il potere e la tutela di un senso “insensato”, optando per una distaccata apatia.
Diversamente da lui, Celan sceglie di parlare, pur consapevole che i suoi versi «devono dismettere il senso per farsi puri significanti del nulla di senso, della sparizione del mondo».

«Parla anche tu, / parla per ultimo, / dì la tua sentenza. / Parla – / Ma non dividere il sì dal no. / Dà alla tua sentenza anche il senso; / dalle l’ombra». La parola poetica «apre un mondo, instaura un abitare…è creatrice, inumana, altra, terribile»: nella sua luce deve tenere conto dell’oscurità, senza la quale nulla risulterebbe. Celan scrive poesie dopo Auschwitz, contravvenendo all’interrogativo adorniano. Ma le scrive inabissandosi nell’oscurità, nell’indicibilità, nel quasi mutismo dell’angoscia.
Bruno Moroncini rilegge il poeta romeno con un’adesione empatica e riconoscente, sulle orme di altri due grandi interpreti celaniani, Szondi e Blanchot: perché al di là dello strazio, della morte, dell’incenerimento, Celan tenta comunque di recuperare un rapporto con l’Altro, con l’Oltre: «Scese, scese / scese una parola, scese / scese attraverso la notte, / volle risplendere, volle risplendere», «Nessuno ci impasta più di terra e argilla, / nessuno alita sulla nostra polvere. / Nessuno. / Lodato sii tu, Nessuno. / Per amor tuo vogliamo / fiorire. / Incontro / a te. / Un niente eravamo, siamo, rimar / remo, fiorendo: / la rosa di Niente, di Nessuno».

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/Mondo-e-senso-Bruno-Moroncini.html     12 gennaio 2016

RECENSIONI

MORRESI

RENATA MORRESI, BAGNANTI – PERRONE, ROMA 2013

“Niente di finito – siamo nell’indefinito”, chiosa Adelelmo Ruggieri, commentando nella sua postfazione il titolo della raccolta poetica di Renata Morresi (Recanati, 1972), probabilmente volendo indicare però il carattere dominante del libro nella sua interezza. Bagnanti è insieme participio presente, sostantivo e aggettivo, ma nella prima sezione omonima identifica soggetti particolari, che popolano un’isola particolare: non più meta estiva di turismi selezionati o di massa, ma ormai soprattutto approdo di disperati: “scendono caldi sulla sabbia / i corpi lenti molli / dischiusi tutti storti e / terra, /rinati tutti a caso / uomo, donna – // scendono gli uccelli”; “dalle rocce dai picchi sulle acque gli iddii / vedrebbero popoli morbidi lentissimi / fondersi agli anemoni polipi i tanti / piedi avvinghiati agli scogli / staccarsi”.

Il linguaggio smozzicato, frantumato, privo di nessi connettivi, accosta immagini naturali luminose (“acqua oro-azzurra / in piena luce”) alle tracce drammatiche dei corpi annegati e resi deformi dalle onde sulla battigia, insieme a documenti inutilizzabili, a ossa spolpate, falangi, denti, che non sono solo quelli dei migranti africani dell’oggi, ma anche residui di antichi naufragi, di invasioni piratesche, di assalti alleati: catalogati da un implacabile “ufficio degli scomparsi / ampio mar mediterraneo”.

A questa desolante spiaggia isolana, assediata dalla calura e dal disfacimento dei corpi, si contrappone nella seconda sezione del volume l’ambiente borghese ma ugualmente disumano di un aeroporto invaso da vacanzieri intruppati in fila con le loro valigie, accaldati nei bar, stizziti dalle attese davanti alla toilette, persi tra i saluti ai parenti, dialetti e lingue straniere, controllo passaporti e assalti pubblicitari.
Altrettanto alienanti sono gli scenari in cui Renata Morresi ambienta i due ultimi capitoli della sua raccolta: il primo (Vendesi), narrante l’odissea di chi si affida a un’agenzia immobiliare per la ricerca di un appartamento, ed è costretto a una deambulazione frastornata tra quartieri, ambienti, condomini, stanze diverse: “rifinito con cura / funzionale servitissimo adiacente / su due livelli su tre livelli su / struttura ristrutturata di recente”.

Infine, Trenitalia è un malinconico omaggio al mondo composito dei passeggeri che anima le varie frecce bianche e rosse circolanti sui binari della nostra penisola: “«acqua, aranciata, caffè» // ognuno ti tocca del tutto / d’una piena mancanza / ognuno da un’unica polla / di aria ti invita / nella sua stella nana”.

Tutti soli, tutti insieme – migranti, turisti, inquilini, pendolari: l’affollata solitudine in cui siamo immersi.

 

© Riproduzione riservata    

www.sololibri.net/Bagnanti-Renata-Morresi.html     2 settembre 2016

RECENSIONI

MOSES

EMMANUEL MOSES, OSCURO COME IL TEMPO – MOLESINI, VENEZIA 2022

Oscuro come il tempo, di Emmanuel Moses, è un libro-scrigno, ricco di tanti materiali diversi: oggetti, paesaggi, facce, voci, colori. Gode dell’atmosfera nordafricana e mediorientale, solare e speziata, da cui l’autore proviene, e insieme della sottile ironia e feroce abilità introspettiva della cultura francese che ha nutrito i suoi anni più maturi. Nato a Casablanca nel 1959 da una famiglia di intellettuali e artisti cosmopoliti e poliglotti (il padre era il filosofo franco-israeliano Stéfane Mosès, la madre la pittrice Liliane Klapisch, nipote dello scrittore tedesco Heinrich Kurtzig), a dieci anni si trasferì a Gerusalemme, dove si laureò in storia, e dal 1986 vive e lavora a Parigi. Ha pubblicato una trentina di pluripremiati volumi di poesia e narrativa, ed è ricercato traduttore dall’ebraico moderno.

Questa vivace duttilità di esperienze personali ben si rispecchia nella forma e nei contenuti dei suoi versi, che variano dalla struttura facile del motivo musicale ai toni più meditativi della riflessione filosofica, dalla saggezza dei proverbi arabi allo scherno contro ogni conformismo.

Sembra di intuire in Emmanuel Moses una predisposizione a giostrarsi tra gli opposti, tra l’adesione e il rifiuto dei sentimenti, delle ideologie, dei panorami in cui si immerge, attratto sia dalla realtà che dall’irrealtà, come suggerisce il titolo della prima composizione antologizzata. L’amore, ad esempio, che è uno dei temi più presenti nel libro, è raccontato nell’esaltazione del suo manifestarsi, nel fiero irrobustirsi della passione, per arrivare poi al disincanto amaro e fatalistico del tradimento, della stanchezza, dell’abbandono: “In cammino con gli uccelli migratori /  In viaggio con te, amore mio / Sulla strada verso di te / Sulla strada, mia fuggiasca con le guance rosa”, “La musica accompagna l’amore / Dio ama gli uomini / Io ti amo con grazia danzante”, “Il mio amore capisce così bene il mio silenzio / Che capirà anche queste parole autunnali”, “Il desiderio, l’amore, il sospetto, l’odio / Sono il linguaggio che parleranno sempre meglio // … Prima di spingere di nuovo la porta di casa / Devastati dal silenzio”. Alla stessa maniera il rapporto con la natura e l’ambiente urbano affascina e intimorisce, seduttivo e inquietante nel suo febbrile manifestarsi.

La scrittura risulta evocativa e rigogliosa, talvolta al limite della retorica, in un lirismo che può ricordare Prévert ma subito si corregge con una sterzata canzonatoria e pudica, scegliendo una cadenza narrativa e quietamente descrittiva. L’andamento colloquiale sfora inaspettatamente nella visionarietà più immaginosa, il sarcasmo nella devozione, la prosaicità nel sublime, mantenendo però una costante uniformità e coerenza formale, ed esibendo una particolare acutezza nelle spiazzanti metafore.

Nella nota finale, Moses afferma di aver composto la raccolta (uscita in Francia nel 2014) seguendo un percorso eccentrico, “al culmine della coscienza, evitando la coscienza”, in una lotta che ambisce a sottrarre al “Tempo-Caino” ricordi ed emozioni, oscillanti tra l’eternità e “il ritmo discontinuo, caotico, delle ore grigie” quotidiane. Solo la poesia può resistere al dissolvimento, con la sua forza mite che l’autore non riesce a definire, quando gli si chiede cosa sia: “Ma prima di tutto c’è la poesia, più misteriosa, più incandescente, più aspra ancora // La poesia continua là il suo viaggio / Galleggia / Hai mai visto una poesia fare naufragio?” Essa si oppone allo scorrere implacabile dell’esistenza, e alla morte odiosa (“Possa la luce respirare ancora / Possa il giorno continuare a riversarsi sui campi”).

La concretezza della vita viene celebrata attraverso la concretezza degli oggetti: una finestra, un muro, la cucina, un carciofo, la sigaretta (pantheon dei poeti!), a cui viene dedicata un’ode spiritosa e riconoscente. Eppure, anche nel glorificare l’esistente, il poeta è assillato da fosche previsioni sul futuro: “Quando non ci sarà più la banchisa dove nascondere gli orsi bianchi, loro cosa faranno? / Quando la metà delle isole sarà scomparsa, con le loro vecchie città costiere coloniali / Cosa faranno?”, “Cosa succede alle cassette postali delle case demolite?”

Se il tempo si fa oscuro, Moses si aggrappa all’illusione di un dio vicino e benevolo, a cui rivolge una laicissima e panica Preghiera: “Dio della pioggerella e della terra sonora / Dacci la forza di attraversare i giorni infausti / Dio degli uccelli esotici e dei fiori stupefacenti / Dacci la gioia del sole che cola nel groviglio dei rami / Dio della linfa e della nebbia / Dacci la dolcezza sensuale e la malinconica dolcezza / Delle stagioni che passano”.

 

© Riproduzione riservata        «L’Indice dei Libri del Mese» n. VII, luglio 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MOTTA-PUSTERLA

ELISABETTA MOTTA-FABIO PUSTERLA, COLORI IN FUGA – LA VITA FELICE, MILANO 2011

Un modo decisamente particolare,e originale, di avvicinarsi alla poesia di Fabio Pusterla, attraversandola tutta, dalle origini agli esiti più recenti: Elisabetta Motta scandaglia la produzione del poeta ticinese attraverso le tracce lasciate nei suoi versi dai colori,dalla luce,dall’ombra e dal buio che, come afferma l’autore “non possono sottrarsi al significato simbolico e morale che si è su di loro cristallizzato nella storia umana”. Quindi l’azzurro e il verde richiamano la vitalità e il dinamismo della natura, il bianco la luminosità e il rigore dei paesaggi invernali elvetici, il rosso e il giallo il calore e la passionalità, il grigio nelle sue varie sfumature la trasparenza o l’oppressione, il nero ovviamente la morte e il lutto, il contrasto e il silenzio. “Colori in fuga” che si inseguono nel mondo cromatico di Pusterla, che li ritiene importanti per penetrare nella comprensione della sua scrittura: “Esistono nella loro complessità, talvolta nella loro lotta serrata; e forse manifestano ai miei occhi la sfuggente, bellissima e terribile contradditorietà del nostro esistere”. Attraverso l’individuazione e l’analisi dell’utilizzo dei colori nei versi del poeta, Elisabetta Motta enuclea i temi fondanti e ricorrenti del suo corpus letterario: aderenza alla poetica degli oggetti, conservazione della memoria, resistenza all’omologazione, accettazione del disagio del vivere, recupero del dialogo tra l’io e il mondo, attenzione all’aspetto psicologizzante o metaforico del paesaggio, riflessione sulla morte e sulla violenza della storia, partecipazione al reale nella sua quotidianità, denuncia ecologica. Una poesia degli affetti,inoltre, che sa farsi coscienza civile e partecipe al destino di ciascuno e di tutti, anche attraverso la frequentazione assidua di nomi fondamentali della letteratura e dell’arte, come testimoniano i sei saggi finali dello stesso Pusterla, che cita pittori, scrittori e fotografi rivisitati con percettiva e acuta sensibilità.

IBS, 17 luglio 2011

RECENSIONI

MOZZI

GIULIO MOZZI, LA STANZA DEGLI ANIMALI – :due punti, PALERMO 2010

La casa editrice Duepunti di Palermo pubblica questo libriccino, scarno e terribile, di Giulio Mozzi nelle sua collana “Zoo, scritture animali”. Ma gli animali di cui parla lo scrittore padovano sembrano in realtà un pretesto (mortifero, ossessionante, da incubo) perché in realtà perno vero del racconto è la stanza che li raccoglie e li conserva, li protegge e nasconde. Gli animali sono infatti piccoli pesci, granchi, meduse, spugne, vermi, conchiglie: quasi sfatti o putrefatti in vasi di vetro incrostati e colmi di formalina puzzolente, il cui odore asfissiante ammorba il giardino e la casa che ospita questa stanza. Un ripostiglio buio, senza finestre, arredato con scaffali di metallo sopra cui il padre del protagonista -scienziato e sommozzatore- allineava i suoi barattoli con le prede conquistate durante i suoi avventurosi viaggi in giro per il mondo. “Questi sono gli animali. Questi sono i miei ricordi”: memorie che si alterano in allucinazioni, si trasformano in tormentose angosce. Perchè “nella stanza degli animali, il 17 giugno del 1994, venerdì” avvenne la tragica violenza familiare, inspiegabile e volutamente non motivata, che arrivò a spezzare in due la vita del protagonista. La casa fu venduta a parenti, la stanza degli animali svuotata, ripulita e imbiancata. Non così si può fare con i ricordi, con l’anima: “io sono vivo data l’impossibilità di morire, tutto ciò che vive dentro la mia mente è morto, tutto ciò che è dentro la mia mente non può morire”. Il figlio va a trovare il padre in carcere, gli porta ogni volta qualcosa, elencando con puntigliosa tristezza i suoi fragili e non consolanti doni; il padre tace, o ripete una litania senza senso, come una giaculatoria: “C’era e non c’è la rosa”. Realtà e sogno, esistenza e morte, pazzia e speranza di salvezza (e di perdono) si confondono, nei versi malinconici e delicati che chiudono con un rondò questa alta prova di scrittura, asciutta e straziante.

IBS, 27 settembre 2011

RECENSIONI

MUELLER

HERTA MÜLLER, ESSERE O NON ESSERE ION – TRANSEUROPA, MASSA 2012

Essere o non essere Ion è il primo libro di versi che Herta Müller ha scritto in romeno, lingua del suo paese natale, ma non lingua materna – che invece è stata il tedesco. Lingua dell’oppressione e della persecuzione, lingua del sistema poliziesco che la costrinse all’esilio nell’87, e che qui la scrittrice premio Nobel nel 2009 recupera con una intelligente e ironica operazione di straniamento, di destrutturazione, di burlesco mascheramento. Un volume spiazzante e giocoso, questo proposto da Transeuropa, in cui ad ogni poesia tradotta in italiano da Bruno Mazzoni fa da specchio una pagina coloratissima di collage originali della stessa Műller, ottenuti utilizzando ritagli di riviste e giornali, graficamente eterogenei, che ripropongono gli stessi versi in romeno. Poesie sospese tra un andamento narrativo e colloquiale, fiabesco o sarcastico: vaporose e insieme concretissime, che assumono di volta in volta l’inconsistenza o la vivacità delle associazioni estemporanee e inconsce, di automatismi-lapsus-collegamenti onirici, di dialoghi stralunati tra personaggi improbabili, inventati o reali. La voce poetante è a volte maschile a volte femminile, può essere o non essere Ion, o qualsiasi altro protagonista; si affastellano i nomi più diversi: Ernest, Oskar, Liliana, Grigore, Mircea, Otilia, Bogdan… E le figure più comiche, strampalate, tragiche, patetiche di un immaginario teatrino dell’assurdo che tanto ricorda Ionesco: «una zia che aveva il singhiozzo e un odore sgradevole», «una vedova / sorda e magnetica con un debole per le bietole», «un uomo pelato come una rapa, ha / una gamba grigia di legno, che scricchiola appena, e / caligine nella mente, ma oro nei denti», «una dama / (con bigodini nei capelli, il rossetto arancione)». Anche i numerosi animali sembrano balzare fuori da un inverosimile paese delle meraviglie: «i cani con / lo zufolo di cera», «anatre selvatiche con tatuaggi / da creatura umana», «una capra da trasporto / pelle e ossa», «mosche a decine… hanno problemi psichici», «due canarini / uno rapato e l’altro abbacchiato», «una pecora stregata che cantava un blues». E poi tarme, oche, topi, cuculi, zanzare, volpi, gatti: un vero zoo urbano, in un paesaggio fitto di treni e autobus, di dogane e fabbriche dismesse, dove le coordinate si intrecciano, le direzioni si confondono, mancano i punti di riferimento e ogni contorno appare sfumato, sballato, sconcentrato («all’angolo della bocca / molto in alto / o in terra», «non aveva la benché minima idea / dove fosse la macelleria»). Insomma, la poetessa ammette quasi gioiosamente la sua confusa percezione dell’esistente: «che una certa sensibilità al bailamme ce l’abbia», evidente nei dialoghi smozzicati e straniti: «Te l’ho detto / ahò, che mi fa male / persino un po’ / il basilico», «Oplà!, / la cosa si fa seria / cocco mio», «mi ha chiesto Mihai: / -ce l’hai? / Non ce l’ho, gli ho detto, / dai su, mangiamo». E nelle conclusioni che non concludono, che rimangono sospese e stupite a interrogarsi: «farei la stessa cosa / che semplicemente farei, / avete afferrato l’idea, non è così», «secondo me / ciò che si può / non è escluso». Eppure, al di là di questo ritmo narrativo veloce e quasi ansimante, assolutamente privo di punti fermi, e con scarsi segni di interpunzione, qua e là si intuiscono tremori non vinti, assilli di violenze subite e mai perdonate, ironie feroci contro il potere burocratico e militare più ottuso, che possono ricordare gli sbeffeggi di Shostakovich parodianti il sistema staliniano: «ciò che faccio è vietato», «Però quando lo sono, lo sono! Di- / ciamolo pure, colpevole», «anche questi pestati a sangue / domani avranno delle sigarette», «Il signor colonnello non è più ciò che è», «questi, oplà, come ben sappiamo poiché è scritto nel / rapporto sulla produzione, ti avrebbero pappata / tutta intera»: a ricordarci che anche sotto le sembianze del gioco, del sorriso, del sogno, la poesia può continuare ad essere qualcosa di tremendamente serio, e pericoloso.

 

«Leggendaria» n.99,  marzo 2013