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RECENSIONI

NEMIROWSKY

IRÈNE  NÈMIROWSKY, L’INIZIO E LA FINE – VIA DEL VENTO, PISTOIA 2013

“Camille Deprez non avrebbe accettato di piegare il rigore delle leggi per piacere nelle alte sfere, ma aveva come massima meta l’arte comune agli ambiziosi di armonizzare le sue convinzioni con i suoi interessi. Nel mondo della giustizia aveva sempre goduto di un prestigio che si rifaceva meno alle sue funzioni che alla sua austerità, alla sua integrità. La sua giustizia era temibile. Tuttavia non era odiato, ma rispettato così come temuto. Nel senso del rigore soltanto. Lui si sentiva moralmente autorizzato a mettere d’accordo il proprio dovere con le proprie passioni”.

Il protagonista di questo bel racconto di Irène Nèmirowsky è un inflessibile procuratore di provincia, interessato tanto alla sua carriera quanto al trionfo delle legge, impermeabile a qualsiasi supplica o corruttela, e insensibile a ogni commozione. Condannato da un tumore in fase terminale, si trova a riesaminare la propria vita con la stessa severità con cui ha sempre giudicato le esistenze altrui, senza fare sconti né a se stesso né a chi si trova di fronte a lui in qualità di imputato. In questo caso, il figlio di un importante e contestato uomo politico: accusato di aver ucciso la moglie per gelosia, il giovane sarà in realtà oggetto di diverse valutazioni morali proprio in conseguenza del potere paterno. Procuratore e assassino si fronteggiano davanti al tribunale definitivo della morte, entrambi colpevoli in modi diversi. L’autrice spinge il lettore a interrogarsi sul mistero insondabile del male, sulla sua inevitabilità esistenziale, sulla sofferenza che provoca sia nelle vittime sia nei suoi artefici, sull’impossibilità del perdono legale, e sulla difficoltà della clemenza. Irène Nèmirowsky scrisse questo racconto (finora inedito in Italia) nel 1935, contemporaneamente al romanzo Jezabel, che pure tratteggia una figura femminile condannata per omicidio, egocentrica e incapace di pietà, in cui l’autrice rifletteva forse il tormentato rapporto con sua madre.

 

«Leggere Donna» n. 166, gennaio 2015

RECENSIONI

NEMIROWSKY

IRÉNE NÉMIROWSKY, JEZABEL – GARZANTI, MILANO 2014

Garzanti ripropone il romanzo di Iréne Némirowsky pubblicato nel 1936, di cui il traduttore e prefatore Lanfranco Binni sottolinea «l’epicità quasi brechtiana», capace di tratteggiare «un ritratto indimenticabile di donna, antico e moderno, archetipico e storico, crudele e vero, che affronta con dolore e con rabbia le dinamiche della complessità femminile e della sua prigione sociale». La protagonista del racconto è la gelida e bellissima aristocratica Gladys Eysenach, reincarnazione della spietata regina biblica Jezabel: smaniosa di asservire persone, sentimenti e situazioni esistenziali ai suoi personali ed egocentrici capricci, incurante delle sofferenze ed umiliazioni altrui, ed ossessionata esclusivamente dalla cura del suo aspetto fisico. Il romanzo si apre con queste parole:«Una donna entrò nella gabbia degli imputati». E’ appunto Gladys, accusata di aver ucciso un giovane penetrato nella sua camera da letto. Forse il suo amante, forse un ladro o un ricattatore: la donna viene condannata a una pena mite, e il sipario si chiude sulla sua vita inquieta e tutto sommato infelice. Ma la gabbia del tribunale in realtà è metafora di ben altra e più feroce costrizione: Gladys non accetta di invecchiare, è terrorizzata dall’idea di non venire più amata dagli uomini, di perdere il suo fascino seduttivo. «Com’era dolce vedere un uomo ai suoi piedi…Detestava la sofferenza; come i bambini, si aspettava ed esigeva la felicità». Passando da un amante all’altro, aspirando solo a suscitare invidia e ammirazione, arriva a falsificare il suo atto di nascita per celare i suoi anni, a frequentare squallide case d’appuntamento pur di godere della sua insaziabile sessualità: ma soprattutto proibisce all’unica figlia di realizzarsi nell’amore e nella maternità, lasciandola morire con indifferenza. La sorpresa finale riguardante l’identità del giovane ucciso riscatta la narrazione, con l’incalzare degli avvenimenti, da qualche indulgenza a toni da feuilleton.

 

«Leggendaria» n.111, maggio 2015

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NENCINI

RICCARDO NENCINI, IL MAGNIFICO RIBELLE – POLISTAMPA, FIRENZE 2017

Riccardo Nencini, Segretario Nazionale del Partito Socialista Italiano, «mugellano di nascita e fiorentino d’adozione» (come viene definito dal medievalista Franco Cardini nella sua affettuosa introduzione), ha pubblicato per Polistampa un saggio illustrato sulla vita e l’opera di Giotto: una settantina di appassionate e animose pagine che l’autore dichiara «figlie di una lunga ricerca d’archivio e di almeno una decina di conversazioni» con autorevoli storici e critici d’arte. In uno stile discorsivo e spigliato, Nencini si rivolge al lettore con un reiterato intercalare che sembra sollecitare non solo partecipazione e condivisione, ma addirittura consenso e solidarietà con le sue tesi («Immagina gli effetti», «Intendiamoci bene», «Giudica tu», «Veniamo al dunque». «Ora ascoltami bene» …).

Nel riscostruire l’ambiente in cui Giotto si formò e visse, propone una lettura non asetticamente specialistica dei suoi dati biografici e del suo percorso artistico, delineando così le caratteristiche principali di colui che rivoluzionò i canoni pittorici dell’epoca. Il volume illustra inizialmente il ruolo di faro intellettuale che tra 1200 e 1500 rivestiva Firenze, città che pur essendo svantaggiata quanto a posizione geografica (nessuno sbocco al mare, e lontana dalle grandi vie di comunicazione) seppe diventare il fulcro culturale della nostra penisola, culla di letteratura e arte, di commerci e prezioso artigianato: «fucina della conoscenza e del benessere». Quindi passa a indagare il paesaggio, aspro e seduttivo insieme, del Mugello, supponendolo verosimile scenografia degli affreschi giotteschi. In particolare, Nencini teorizza una corrispondenza geografica tra l’affresco dipinto ad Assisi “Il Miracolo della sorgente” e la cascata del torrente Rovigo, stretta tra gole rocciose che ricordano lo sfondo del quadro, fornendo testimonianze iconografiche della sua ipotesi. Da qui prende avvio la convinzione, suggestiva e polemica, che pretende Giotto nato non a Firenze, come vorrebbe la tradizione, ma proprio nel Mugello. E per precisione a Colle, allora frazione di Vespignano, nel 1267: non da una famiglia di contadini o lanaioli, bensì da un fabbro di nome Bondone di Angiolino. Giotto avrebbe ereditato dal nonno il nome, poi storpiato in Angiolotto; sarebbe stato battezzato nella pieve di Colle, e nel corso di tutta la sua esistenza avrebbe avuto in quelle campagne consistenti interessi fondiari, effettuandovi numerose compravendite di terreni e fabbricati, e affrontando diverse controversie giudiziarie.

Riccardo Nencini basa questa sua tesi su numerosi dati d’archivio, fonti letterarie, ricostruzioni genealogiche, atti notarili e certificazioni degli investimenti immobiliari. Un’accurata ricerca, la sua, a cui non è estranea forse una punta di orgoglio campanilistico, oltre al legittimo desiderio di ripristinare la verità storica. Giotto mugellano, quindi, e non fiorentino: come Riccardo Nencini. Il saggio, con prefazione della Professoressa Cristina Acidini, è completato da una cronologia delle attività economiche del pittore, e da una bibliografia.

 

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www.sololibri.net/Il-magnifico-ribelle-Nencini.html      7 settembre 2017

 

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NERI

GIAMPIERO NERI, VIA PROVINCIALE – GARZANTI, MILANO 2017

Giampiero Neri (Erba, 1927) è arrivato a pubblicare il primo libro di poesia piuttosto tardi, nel 1976, dopo essersi dedicato a studi scientifici e filosofici, e al suo lavoro di bancario, esercitato per tutta la vita. I critici gli hanno generalmente riconosciuto una tenace professionalità nell’accostarsi alla parola scritta, fatta di impegno nell’osservazione della realtà e di fedeltà alla sua memoria personale: caratteristiche che si sono coerentemente espresse nella ricerca puntuale di uno stile colloquiale, quasi prosastico, e nella discrezione con cui ha interpretato il suo ruolo di intellettuale.

Oggi, novantenne, firma per Garzanti un volume di versi, Via Provinciale: nome della strada che da Erba conduce verso Como, attraversando i luoghi d’infanzia, abbandonati dopo l’assassinio politico del padre nel 1943. Quest’ultima opera di Neri è contrassegnata, anche graficamente, dalla scelta formale di esibire prose poetiche occupanti orizzontalmente l’intera riga, senza spaziature bianche, con scarsi a capo indicanti le troncature. Raccontini, illuminazioni, brani narrativi, squarci diaristici che mantengono però della poesia il ritmo e una sorta di musicalità interna, determinata dall’essenzialità espressiva del contenuto, dalla sua sobria necessità. Sull’esempio di Francis Ponge o di Dino Campana (ai cui Canti Orfici rende così omaggio: «uno dei grandi libri di poesia del Novecento italiano, testimonianza e riscatto della povera vita del suo autore»), Giampiero Neri nega qualsiasi aura lirica dell’espressione poetica, rivendicandone invece una scarna drammaticità di valore etico.

I temi di questa raccolta rimangono quelli tipici della sua scrittura precedente: la storia collettiva, raccontata nella sua inescusabile violenza, soprattutto relativa agli anni della seconda guerra mondiale che più hanno segnato la vita del poeta: qui però la sofferenza sociale si parcellizza nei ricordi infantili e giovanili del poeta (i vicini che si mangiavano il gatto, gli insegnanti con la divisa fascista, i compagni di giochi inventati con niente, le prime rivendicazioni salariali).La crudele indifferenza delle azioni umane trova un suo tragico riflesso anche nella durezza della natura, mai descritta idilliacamente, ma sempre con disincantato realismo, pur scevro da ogni volontà di condanna o di giudizio. Neri elenca animali domestici e selvatici che hanno marginalmente o profondamente segnato il suo immaginario: cani, vespe, caprioli, cavallette, bisce, aquile, leopardi, maiali.

Con la stessa leggera nonchalance cita i nomi di letterati classici e moderni che hanno nutrito la sua scrittura: da Ennio a Cicerone, da Collodi a Fenoglio, da Tolstoj a Grossman. O racconta episodi minimi della sua vita lavorativa in banca, di colloqui con conoscenti e conferenze cui ha assistito, di riflessioni sull’architettura e la toponomastica della sua città. E questi bozzetti tracciati con pennellate impressionistiche si concludono per lo più in sordina, con qualcuno o qualcosa che sparisce, si eclissa, rivelando amaramente la sua amara inconsistenza, non importanza, inadeguatezza. Tale quasi anglosassone understatement di Giampiero Neri si esemplifica chiaramente in alcune sentenze dal sapore proverbiale, di antica sapienza orientale: «Si dice di un maestro zen che, prossimo a morire, aveva invitato i discepoli nel suo giardino e rivolto a loro, sentendo gli uccelli cinguettare sui rami, aveva detto: “È tutto questo e nient’altro”».

Possiamo definire poesie i piccoli brani narrativi di Via Principale? Secondo me, alcuni di essi potrebbero venire letti come fossero versi, decasillabi o settenari, sullo stile discorsivo di un Giudici e di un Raboni. Per esempio: «Ben altro teneva l’attualità, / la guerra stava volgendo al termine». E ancora: «”Ci sarà il tempo” mi diceva il custode / “per capire anche gli altri”». Perché in fondo, cos’è la poesia? «La poesia, come il soffio del vento, va dove vuole e la si può trovare dove capita, anche in una stretta di mano, come è stato detto».

 

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www.sololibri.net/Via-provinciale-Giampiero-Neri.html;  15 marzo 2017

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

NESSI

ALBERTO NESSI, TUTTI DISCENDONO – CASAGRANDE, BELLINZONA 1989

Alberto Nessi è poeta e scrittore ticinese tra i più noti per le frequenti collaborazioni a giornali trans- e cisalpini (dal Tages Anzeiger, al Quotidiano, a Cooperazione) e per il suo lavoro assiduo, attento, di sensibile cronista di un’età e di una regione in stridente conflitto tra loro e in se stesse. Zona di confine quella che fa da sfondo all’esistenza di Nessi (insegnante alle scuole medie in congedo) e nutre la sua scrittura: zona circoscritta – Chiasso, Mendrisio, Coldrerio – ma nello stesso tempo proiettata al di là di concreti e invisibili dogane dell’anima, scissa tra immobilismi e frenetiche rincorse al futuro. Luogo dove non è facile vivere, dove e di cui deve essere difficile scrivere. Alberto Nessi ne scrive con amore, con la dedizione che si offre a una causa che si teme persa ma si vuole fortemente salvare; ne ha scritto anche nell’ultimo volume pubblicato da Casagrande, Tutti discendono. Sono dieci storie corali, narrate dall’autore per gente che non scrive e che non legge, per i più che vivono “in discesa”, senza accorgersene e senza lasciare traccia di sé, se non nella memoria locale di chi li ha conosciuti. Sono storie scritte forse anche per esorcizzare la morte, «il moscone nero che un giorno discende sui nostri volti». Nessi è nato nel ’40, all’inizio della guerra: «Venni al mondo a fatica: sfido io, con quel testone! Appena mi vide mia madre si spaventò: – Oh Madonna, c’è qua il Lisandro! – Il Lisandro era un macrocefalo che abitava vicino a casa nostra e diceva sempre “universo pecora” e passava ogni giorno con il secchiello del latte appeso al mignolo. Mia madre pensava che i nati in tempo di guerra fossero difettati».

Di questa atmosfera bellica è impregnato il primo racconto, Vampate, che si apre con un bombardamento avvenuto per sbaglio su Chiasso e Balerna, mentre i cittadini si sbracciano per far capire ai piloti dei caccia che «alt, qui comincia la Svizzera». La storia non si ferma ai confini, e anche il Ticino più limitrofo all’Italia è coinvolto nella diaspora del fascismo, e poi nelle vendette dopo la liberazione… «Qui da noi arriva solo l’eco della storia, qualche bossolo disperso, e per vedere qualcosa bisogna aguzzare la vista». A Chiasso la storia non si fa, la si subisce: la subisce la gente semplice che non sa darsi una ragione di tanti incomprensibili sconvolgimenti. Il padre, il nonno, lo zio anarchico dell’autore sono figure a tutto tondo, caratteri forti, meno banali delle figurine patetiche e conformiste in cui ci siamo trasformati tutti, oggi. Anche i matti del paese hanno una loro individualità, i balordi fanno parte del paesaggio, sono membri del coro, trattati con bonomia e non rinchiusi in funzionalissimi e tristissimi istituti («Il Cecchino raccoglieva le belle cacche rotonde dei cavalli per le strade…Il Tano ha una malattia: quando vede le donne in costume da bagno si mette a urlare…»). A rifletterci, c’è un evidente restringimento dell’orizzonte sociale cui corrisponde una fittizia dilatazione dell’individualità man mano che si passa dagli anni della guerra ad oggi: alla coralità di allora si oppone l’isolamento attuale, al pubblico il privato, alla solidarietà l’egoismo, alla storia la psicanalisi. E questo percorso è ben rappresentato dal susseguirsi dei racconti, che si focalizzano sempre più sulla figura dell’individuo-autore. Le tragedie di una cittadina sono sostituite dai turbamenti di un adolescente e dei suoi pochi amici; lo sfasamento materiale, concreto della vita tra due dogane («donne spiavano i burlandi e si nascondevano dadi nel reggipetto per passare la dogana»; «mio padre…la sera nascondeva venti pacchetti di sigarette nelle calze agiose che arrivavano al ginocchio e passava la dogana col Virginia tra le labbra») diventa malessere individuale, conflitto morale («Essere ombre lungo piste prestabilite o cercare un punto di fuga verso territori inesplorati? Essere guardia o contrabbandiere?»). Il ragazzo si trasforma in un uomo in crisi, non più in sintonia con il mondo che lo circonda: «Così imparai anch’io a vivere un po’ in disparte, come un insetto che attraversi un vecchio mobile nelle crepe del legno e arresti il suo zampettare, in ascolto, al primo colpo sull’impiantito». E ancora: «Sono tornato con il treno delle dieci. Alla stazione dove tutti discendono mi sono fermato un momento sotto l’affresco dell’emigrante. Stare nascosto, mi sono detto. Spiare la vita degli altri. Cercare le tracce del Ragazzo nella Piccola Città. Vivere negli interstizi. Dire di no. Squarciare il nebbione dietro il quale si nascondono i morti».

A Chiasso scendono tutti, il viaggio è finito (l’immagine è ripresa da una bella poesia di Nessi: Le donne). Ci si lascia alle spalle un paese, un percorso di vita, un tempo diverso: le osterie dove il nonno giocava alla morra e quando buttava il tre gridava: -Trema Dio!- . Quale Dio trema più nei nostri bar, tra flipper e video games?

 

«Agorà» (Svizzera), 21 febbraio 1990

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NGUYEN CHI TRUNG

NGUYEN CHÍ TRUNG, ELEGIE AL FUTURO POETA  – INTERNO POESIA, LATIANO (BR) 2019

Le tre sezioni di Elegie al futuro poeta sono state composte da Nguyen Chí Trung tra il 1990 e il 1996, e oggi vengono offerte ai lettori italiani dalle edizioni Interno Poesia. L’autore è nato nel 1948 in una città sulla costa del Vietnam del sud: cresciuto a Saigon, si è poi trasferito per motivi di studio in Germania, dove è rimasto lavorando come ingegnere. Attualmente vive a Stoccarda, scrive in tedesco e vietnamita e traduce poesia nelle due lingue. Nel 2013 è uscita a Saigon una raccolta dei suoi versi in sette volumi.

Il libro di cui ci occupiamo presenta una cinquantina di poesie in quartine, tutte rivolte a un “tu” in forma di invito, augurio o preghiera conformemente alla struttura del Sutra, secondo la tradizione vedica indiana. Versi sapienziali, quindi, indicazioni etiche miranti a conseguire la purezza e la pace interiore attraverso una condotta consapevole, e sentimenti di accoglienza nei riguardi di ciò che accade. Ma anche considerazioni malinconiche sulla fugacità del tempo, sulla corruzione della società contemporanea, sulla fragilità di ogni sentimento umano, sulla consolazione offerta dalla bellezza intuita in rare, miracolose epifanie. Ogni quartina si apre con le stesse parole “You come”, che la curatrice Filomena Ciavarella traduce con “Tu che vieni”: un appello che è insieme sollecitazione e consiglio, implorazione e avvertimento, rivolto a una presenza amicale, filiale o fraterna, o al destinatario immaginato nel titolo, il poeta di un domani ipotetico, più minaccioso che benevolo.

Com’è infatti il secolo futuro ipotizzato da Nguyen Chí Trung? Di arroganza, di vagabondaggio, caotico, traboccante di Sesso, senz’Anima, senza Padre, di Niente, degli inganni e dei disastri, abbandonato. “Tu che vieni in un secolo dove non c’è Gioia / Non portare con te tutto ciò che è sepolto / Anche se vecchie voci riecheggiano / Non sono abbastanza per compensare il futuro”; “Tu che vieni in una distesa di cadaveri / La vita in sé contiene la sua fine / Sulla strada dietro di noi i nostri lamenti lasciamo / E quelli che sono stati perduti nei tempi passati”. I “versi dolenti” dello scrittore vietnamita, “tristi per il nulla”, diffidano anche dell’amore (“Amare, che vuol dire? Amare è uccidere / È suicidarsi notte dopo notte / È distrugger di sé l’anima e il corpo”), per cui l’unica raccomandazione da seguire consiste nel vivere il momento presente, senza pretendere risposte ai quesiti eterni e tormentanti: “Parlare del futuro, cosa importa! / Affidare sé stesso a qualcuno? Non consegnarti a nessuno”. Poiché “Vivere è mantenere il proprio cuore”, nemmeno la poesia, oggi praticata da una cricca di versificatori “concentrata solo sulla fama”, e nemmeno la natura, con la luna pietrificata e una vegetazione sconfitta dall’incuria e dall’abuso, possono assicurare salvezza.

Nella postfazione, Giulia Basile accomuna Chí Trung a Leopardi, per la sua consapevolezza priva di illusioni sulla realtà onnipresente del dolore, della solitudine, della vanità dell’esistenza, destinata a perdersi “nell’infinita notte”. Forse solo nella quartina in esergo si intuisce uno spiraglio di fede: “Apro sinceramente questo cuore, / Le mie mani si alzano, implorando il cielo e la terra. / Lasciatemi continuare a essere un piccolo essere umano, / Non fatemi somigliare ad un altro”; altrimenti rimane solo il rimpianto per essersi spinti troppo oltre, in un territorio di nebbia, lontano da casa.

 

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https://www.sololibri.net/Elegie-al-futuro-poeta-Chi-Trung.html    13 settembre 2019

L’Indice dei libri del mese, n. XI, 2019

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NICOLA VACCA

NICOLA VACCA, MUSE NASCOSTE – GALAAD, ROMA 2021

“Se la poesia è espressione dell’indicibile, celato oltre le pieghe dell’esistenza, se è indagine del reale per oltrepassarne traumi e sofferenze, esprimendo ideale e bellezza, se è tensione verso un linguaggio che non si lascia addomesticare, se – in una parola – la poesia è una rivolta contro le imposizioni e le costrizioni dell’esistente per ambire a un sogno di libertà e di assoluto, allora il presente volume costituisce lo strumento per porsi in ascolto di quell’indicibile, attraverso la vita e la voce di ventiquattro poetesse, molte di loro ancora ignote al vasto pubblico, figure esemplari di un assalto ai limiti dell’esistenza individuale e sociale, ai segreti inesplicabili del mondo fisico e metafisico, alla resistenza della parola e del suo mistero”. Così Luigi Beneduci nella prefazione al bel libro di Nicola Vacca, Muse nascoste.

Le poete presenti in questa antologia occupano un raggio cronologico e geografico molto vasto: dall’America dell’800 alla pianura Padana di fine ’900, dalla Russia bolscevica all’Argentina degli anni ’70. Nicola Vacca (Gioia del Colle, 1963) – scrittore, critico letterario, opinionista – offre ai lettori un quadro sintetico ma incisivo delle loro personalità, introdotto da una breve nota biografica, e illustrato criticamente nell’aspetto formale, quindi attraverso la citazione sia dei versi più noti ed esemplificativi, sia di stringati giudizi di alcuni esegeti internazionali.

Volendo tentare una classificazione, per quanto arbitraria, che inquadri le autrici, potremmo suggerire di suddividerla in quattro ambiti di espressione: tra chi privilegia la riflessione spirituale e la ricerca metafisica, e chi affronta invece la complessità storica con le sue ingiustizie e persecuzioni, tra chi indaga la propria interiorità ferita, e chi invece è più interessata a sovvertire la tradizione linguistica. Ovviamente, nessuna delle poete antologizzate si limita a un unico settore di indagine; comune a tutte è, comunque e sempre, un forte disagio sociale, la drammatica disarmonia con il mondo in cui vivono, e una sofferenza che sembra immedicabile, particolarmente evidente nelle otto di loro che hanno scelto la morte volontaria (Cvetaeva, Pozzi, Rosselli, Pizarnik, Sexton, Plath, Campana, Ruggeri).

Icastiche, concise ma penetranti sono le definizioni con cui Nicola Vacca sintetizza le doti caratteriali e stilistiche delle varie autrici: “l’oscillazione continua tra l’abituale e l’eterno” di Emily Dickinson, “la voce deflagrante ed estrema” di Jolanda Insana, “il mondo senza speranza né redenzione” di Ágota Kristóf, la “straordinaria voce eretica che non ha mai rinunciato alla perfezione e alla bellezza” di Cristina Campo, “la rigorosa intransigenza di precisi principi morali” di Simone Weil, “il terribile deflagrare di una sensibilità acuta, lancinante e tragica” di Sylvia Plath.

Altrettanto coinvolgente ed empatica è la scelta dei versi che vengono proposti al lettore. Il classicismo composto di Lalla Romano ben si evince leggendo: “Non pensare se cerco parole / che voglia nutrirmi di vento / un dono di giuste parole / incorruttibile come la musica / dolce come la casa / triste come l’infanzia / paziente come il tempo”. L’amarezza del sentirsi ingiustamente esclusa risulta palese da quanto scrive Fernanda Romagnoli: “Io qui non mi trovo, io fra voi / sto come il tredicesimo invitato, per cui viene aggiunto un panchetto / e mangia nel piatto scompagnato”. La preghiera tormentata e controcorrente di Margherita Guidacci ne rivela l’inevitabile isolamento intellettuale e religioso: “Mio Dio salvami dalla parola condotta in parata come un vitello / nel giorno di fiera; … meglio scrivere un libro importante nel deserto / che diventare celebre per un equivoco”.

In questa galleria di ritratti femminili, “la voce possente e polifonica, straziante e al tempo stesso appartata” di Nadia Campana, il suo “esercizio di dolore che ha trovato lo schianto” nel gettarsi, appena trentunenne, da un ponte della tangenziale est di Milano, appaiono emblematici dell’angoscia che ha relegato la quasi totalità delle poete qui rappresentate all’emarginazione, a un rifiuto o a un’ingiusta sottovalutazione. La fragilità, la rabbia e la disperazione intuibili nelle loro tormentate biografie, ha cercato e trovato una possibile via di comunicazione, di resistenza e riscatto proprio nel dono gratuito della poesia, che, come ammoniva Simone Weil “deve ambire a esprimere qualcosa, e contemporaneamente nulla – il nulla che si manifesta dall’alto”.

 

© Riproduzione riservata        «L’indice dei Libri del Mese» n. I,  gennaio 2023

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NICOLA VACCA

NICOLA VACCA, LIBRO DELLE BESTEMMIE – MARCO SAYA, MILANO 2023

I quattro autori delle frasi poste a esergo dell’ultima raccolta di versi di Nicola Vacca (Nietzsche, Cioran, Bufalino, Pavese) vengono citati per suffragare le tesi che il poeta esprime – coraggiosamente, provocatoriamente – ne Il libro delle bestemmie. Tesi che attribuiscono alla bestemmia la funzione di cartina tornasole, in quanto anche qualora esistesse un essere supremo, benevolo e provvidenziale, creatore del cielo e della terra (“un Dio eventuale”, come lo definiva Pavese), essa ne indicherebbe sia la presenza sia l’assenza, esaltandone o distruggendone il concetto nel momento stesso in cui viene pronunciata. La parola, il nomen, anche quando è oltraggioso, offre sostanza all’idea: nomina sunt consequentia rerum.

Vincenzo Fiore nell’acuta postfazione afferma giustamente che “a dare più credito a Dio sono coloro che paradossalmente non riescono più a credere in Lui”. E infatti Nicola Vacca confessa il suo rovello, perché il pensiero di Dio lo assilla proprio nell’ansiosa volontà di cancellarlo: “Mi pongo domande mentre vaneggio / di bestemmia in bestemmia”.

Sulla scia del pensiero illuminista, razionale, irreligioso, Vacca considera la divinità un’invenzione dell’uomo creata per sfuggire alla propria paura di vivere e di morire: “il prodotto delle debolezze umane”, secondo Albert Einstein. E rivolge i suoi appuntiti strali contro l’istituzione ecclesiale e il gregge dei timorosi fedeli che se ne dichiarano seguaci (ma già Padre Turoldo ammoniva “Dio ci liberi dai carismatici”): “Barricati nelle chiese / sono tutti in fila / davanti al confessionale / per chiedere l’assoluzione / a un dio che non è mai sceso quaggiù”.

Il poeta professa a gran voce il suo risentito ateismo, sfiorando spesso l’eccesso blasfemo nell’irriverente litania degli attributi relativi a Dio: illusionista equivoco ciarlatano oscuro crudele indifferente disoccupato baro muto vigliacco bastardo malvagio funesto, “un boia / che non si sporca le mani”, “un imbroglio su cui sputare”.

Nemmeno Cristo si salva da tale iconoclastia verbale, perché – fragile e impotente –, non potrà mai risorgere dalla morte che il Padre gli ha imposto dopo averlo lasciato solo: “Cristo si copre gli occhi / perché non vuole vedere / gli orrori che ha creato suo padre”.

L’indignazione di Nicola Vacca, novello Savonarola eretico, accomuna creatore e creature: “Dio è il vuoto / che marcisce insieme a noi”, “Questo mondo è sporco / come dio che lo ha creato”, “se l’umano è marcio, il divino è lurido”. Disgustato ed esacerbato, implora l’estinzione del mondo, destinato ad auto-distruggersi a causa della sua stessa iniquità, dato che i tanto proclamati valori morali (amore, amicizia, famiglia, fede, gloria) servono solo a coprire il “tanfo” del sudiciume.

La copertina che il poeta ha scelto per la raccolta è esplicitamente rappresentativa della funerea tensione che la attraversa: lo spaventoso Inferno magistralmente dipinto da Hieronymus Bosch nel trittico de Il Giardino delle Delizie.

Nella visione totalmente negativa dell’umanità, ormai priva di qualsiasi futuro, l’autore chiama come testimoni e sodali altri poeti e scrittori (Majakovskij, Ritsos, Strand, Artaud), che tuttavia non sono riusciti con la severa purezza delle loro parole a risvegliare le coscienze degli uomini, e a salvarli.

Le quattro sezioni in cui si suddivide il libro (Un dio contro, Dalla parte del cecchino, Lode all’Anticristo, Cattive notizie giungono dall’alto) esprimono un crescendo di ferocia rabbiosa, e il poeta ostenta consapevolmente l’immagine di sé come giustiziere e vendicatore, cucendosi addosso le sembianze del tiratore scelto, che implacabile prende la mira per annientare illusioni, false credenze e ipocrisie del senso comune: “Amo le parole che sbranano / adoro i concetti che dilaniano”. In questo “squartamento” di sé e degli altri, Vacca ha bene assorbito la lezione di Cioran, attribuendosi “il tentativo / di un estremo atto di rivolta / contro il vuoto che inghiotte tutto”.

Se la corrente della poesia civile, nelle sue accezioni politiche e sociali, ha attraversato tutta la storia letteraria italiana da Dante in poi, con particolare vigore nell’800 risorgimentale e poi durante e dopo le due guerre mondiali, spingendosi fino al dichiarato impegno antifascista e anticapitalista degli scrittori attivi tra il 1950 e il 1970 (Pasolini, Fortini, Pagliarani, Sanguineti, Sereni, Roversi, Porta, Balestrini ecc.), la poesia anticlericale non ha avuto altrettanta diffusione nelle patrie lettere. Dai canti carnascialeschi medievali, alla satira di Giusti, al demonismo carducciano, fino allo scherno beffardo dei sonetti romaneschi, forse è solo nella bruciante contestazione di due religiosi, Turoldo e Tartaglia, e nell’invettiva pasoliniana di “A un Papa” (“non c’è stato un peccatore più grande di te”) che possiamo trovare un antecedente allo sdegno profano e maledicente di Nicola Vacca.

Che tuttavia nel Finale della raccolta, ridotto a pochi versi, si dichiara sconfitto, ammettendo di aver cercato inutilmente “uno spiraglio / nella crepa dell’esistere”, battendosi per “un gesto urgente / in una rivolta senza senso”. Se è insensato vivere, se è insensato credere, altrettanto vano è ribellarsi al destino di morte stabilito per ciascuno, il più ingiusto sopruso patito dall’essere umano, non riscattabile da alcuna speranza in un aldilà riparatore: “verrà la morte e avrà i nostri occhi / questa è la verità / che dovremmo tenere a mente / mentre collezioniamo bugie per sopravvivere”.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 10 febbraio 2024

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

NIERO

ALESSANDRO NIERO, VERSIONI DI ME MEDESIMO – TRANSEUROPA, MASSA 2014

Il libro di Alessandro Niero (commentato da una partecipe postfazione di Andrea Afribo) rivela già dal titolo, Versioni di me medesimo, una disposizione ironica al gioco letterario, al camuffamento, non solo stilistico. Un’autobiografia in versi che conosce diversi registri formali, dal sonetto al monologo alla parodia, e che si esplicita nel corso di tutte le pagine, ma soprattutto nella prima sezione, in cui un alter ego del poeta (Il signor Czarny) gli presta voce e sembianze, in un ritratto sarcastico e impietoso. «Il signor Czarny ha ritenuto a lungo / di essere infinito, illimitato. / L’errore era gradito e terapeutico». Questo piccolo borghese disilluso, che pare uscito da uno dei racconti di Cechov, viene crocefisso ai suoi tic e alle sue nevrosi con implacabile e beffarda durezza, nelle inconcludenti e vanesie relazioni con le donne, nell’invidia verso i colleghi, nel suo «insistentemente» scrivere, «percepirsi sfrangiato», ingozzarsi di ansiolitici e osservare malinconicamente il tempo che scorre, scoprendosi costretto «dentro un ritmo esterno», non suo, perché «non ce la fa a essere sincrono / con quanto gira intorno». Un disadattamento al mondo, espresso nei riguardi della galassia accademica, dei rapporti familiari, della frenesia consumistica: Niero riesce a prendersi in giro, sbeffeggiando la sua stessa scrittura, che risente sì di influenze letterarie dei nostri maggiori poeti (da Giudici a De Angelis, addirittura con qualche gozzanismo e montalismo), ma scardinate e riutilizzate a proprio uso e consumo. Così l’osservazione di ciò che lo circonda (città e stazioni, supermercati e figure femminili – «faccette acconce oltremisura») rivela sempre uno sguardo privo di clemenza, severo quasi a sfiorare la satira, e nello stesso tempo include anche se stesso in una più universale pietà verso tutto ciò che vive e respira: ma, temendo l’abbandono e la retorica dei buoni sentimenti, nell’ultimo verso corregge con una sferzata di scherno, di rigore critico, qualsiasi tentazione di intenerimento. Contro «la geometria mondriana dei colori ammodo» si scaglia, novello savonarola, a rivendicare la lucidità di una coscienza poetica che sappia controllarsi anche negli affetti più intimi. Per cui persino la sezione dedicata al padre mantiene una sua nota di spietatezza, come scrive Afribo («Padre, trabocca in me la copia dei tuoi mali // … Se ti condanno, condanno me stesso», «Padre, ti schiaccia una fatica inarrivabile, / nemmeno sai qual è: / partorirmi più grande / di te»). E ben ne è consapevole l’autore stesso: «sempre / che il mio impancarmi a giudice non sia / pettegolezzo o fiele. O argilla. / O tracotanza da pagare. O bugia», che trova però inattesi barlumi di tenerezza nelle poesie dedicate alla figlia Beatrice: «Ed eccoti aspettata a lungo, / ora mio termine e mio cominciamento», «eco di mia eco», «riassunto dettagliato / di ogni mio dolore e gioia».

Il volume si conclude con una interessante campionatura di versioni da poeti slavi, essendo Alessandro Niero professore di letteratura russa all’Università di Bologna, e traduttore premiato con riconoscimenti nazionali e internazionali.

 

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www.sololibri.net/Versioni-di-me-medesimo-Niero.html          28 settembre 2017   

RECENSIONI

NIERO

ALESSANDRO NIERO, OLGA. UNA BADANTE PER AMICA

VALIGIE ROSSE, VECCHIANO (PI) 2022

 

La poesia è un’arte negletta, forse la meno considerata tra le forme letterarie praticate in Italia, non tanto nella produzione (addirittura sovrabbondante!) quanto nella fruizione. Pochissimi la leggono, e i volumi di versi rimangono tristemente invenduti sui due o tre scaffali che le librerie mettono loro a disposizione. I poeti appaiono creature in via d’estinzione, rassegnati a un soliloquio autoreferenziale che li riduce in spazi editoriali sempre più ristretti, e tuttavia ambiti a tal punto da creare nella categoria rivalità, guerre sotterranee, rancori perenni. Alcuni di loro, esasperati dal silenzio critico che li circonda, arrivano a recensirsi e intervistarsi da soli. Come scriveva Palazzeschi, sentendosi trascurati o addirittura scherniti dalla cultura che crea reddito, finiscono per riconoscere a sé stessi un ruolo giullaresco e innocuo, sostanzialmente consolatorio: “Tri tri tri, / fru fru fru, / ihu ihu ihu, / uhi uhi uhi. // Il poeta si diverte, / pazzamente, / smisuratamente! / Non lo state a insolentire, / lasciatelo divertire / poveretto, / queste piccole corbellerie / sono il suo diletto”.

Forse per questa malinconica consapevolezza della propria vanità e inconsistenza, molti poeti finiscono per frequentare settori più redditizi della letteratura: la memorialistica, il giallo, il noir, la satira, o l’unico davvero trainante nel mercato editoriale: quello dedicato all’infanzia.

Così ha scelto recentemente di fare Alessandro Niero, non solo elegante autore di apprezzate raccolte di versi, ma stimato docente universitario a Bologna, esperto slavista, ricercato traduttore dal russo, sottile interprete dell’arte traghettatrice tra lingue diverse. Il suo ultimo prodotto librario è appunto un testo rivolto ai lettori delle scuole elementari, Olga. Una badante per amica, che racconta in versi accattivanti e di facile comprensione una favola ambientata nell’oggi, dalla finalità pedagogica, con una morale positivamente educativa.

La voce recitante è quella di un bambino che chiede al padre chi sia la giovane donna incaricata di accudire il nonno novantenne, e in questa sua curiosa indagine sul ruolo della signora, lentamente si avvicina a una realtà culturale e umana prima ignorata. Olga è una badante moldava, arrivata da un paese lontano in cerca di un’occupazione: “E per trovare un qualsiasi lavoro / tanti laggiù hanno lasciato la famiglia / e, come cercatori d’oro, / hanno percorso miglia, miglia e miglia / per arrivare dalle nostre parti. / Non stanno certo con le mani in mano, / non c’è lavoro che scartino, / fanno ogni tipo di mestiere, anche il più stranio / o quello che nessuno vuole fare: devono guadagnare”.

Olga si fa volere bene; è attenta, coscienziosa, sensibile, colta; offre aiuto materiale e compagnia affettiva alle giornate faticose dell’anziano che le è stato affidato. Legge molto, si è addirittura iscritta all’università, e sta per portare a termine la sua tesi di laurea. Il nipotino narrante cerca di conoscerla meglio, si fa aiutare nei compiti e divide con il nonno le cure premurose della badante, diventata anche baby sitter part-time. Tutta la famiglia che ospita Olga le è riconoscente, festeggia orgogliosa la fine dei suoi studi come fosse una cara parente, e instaura con lei un rapporto di reciproca stima e amicizia.

Il volumetto di Alessandro Niero, attraverso un linguaggio semplice, lieve e musicalmente ritmato, ha il pregio di stimolare la sensibilità dei piccoli lettori verso sentimenti di solidarietà e apertura nei riguardi degli stranieri che lavorano nel nostro paese, invitandoli alla considerazione e all’apprezzamento che essi meritano. Le illustrazioni di Elena Miele, a partire dalla vivace e coloratissima copertina, arricchiscono le pagine di immagini fantasiosamente allusive al mondo infantile, popolato da gatti, topi, zucche, draghi, serpenti, stelline, cactus, pesci, uccelli, farfalle, occhi verdi, sotto lo sguardo meditabondo di una grassa regina distesa sul letto a pancia in giù. Olga, una badante per amica è un libro destinato a un pubblico di bambini, adulti e poeti, nella collana a loro dedicata dalla casa editrice toscana Valigie Rosse.

 

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15 marzo 2023