NICOLA VACCA, LIBRO DELLE BESTEMMIE – MARCO SAYA, MILANO 2023
I quattro autori delle frasi poste a esergo dell’ultima raccolta di versi di Nicola Vacca (Nietzsche, Cioran, Bufalino, Pavese) vengono citati per suffragare le tesi che il poeta esprime – coraggiosamente, provocatoriamente – ne Il libro delle bestemmie. Tesi che attribuiscono alla bestemmia la funzione di cartina tornasole, in quanto anche qualora esistesse un essere supremo, benevolo e provvidenziale, creatore del cielo e della terra (“un Dio eventuale”, come lo definiva Pavese), essa ne indicherebbe sia la presenza sia l’assenza, esaltandone o distruggendone il concetto nel momento stesso in cui viene pronunciata. La parola, il nomen, anche quando è oltraggioso, offre sostanza all’idea: nomina sunt consequentia rerum.
Vincenzo Fiore nell’acuta postfazione afferma giustamente che “a dare più credito a Dio sono coloro che paradossalmente non riescono più a credere in Lui”. E infatti Nicola Vacca confessa il suo rovello, perché il pensiero di Dio lo assilla proprio nell’ansiosa volontà di cancellarlo: “Mi pongo domande mentre vaneggio / di bestemmia in bestemmia”.
Sulla scia del pensiero illuminista, razionale, irreligioso, Vacca considera la divinità un’invenzione dell’uomo creata per sfuggire alla propria paura di vivere e di morire: “il prodotto delle debolezze umane”, secondo Albert Einstein. E rivolge i suoi appuntiti strali contro l’istituzione ecclesiale e il gregge dei timorosi fedeli che se ne dichiarano seguaci (ma già Padre Turoldo ammoniva “Dio ci liberi dai carismatici”): “Barricati nelle chiese / sono tutti in fila / davanti al confessionale / per chiedere l’assoluzione / a un dio che non è mai sceso quaggiù”.
Il poeta professa a gran voce il suo risentito ateismo, sfiorando spesso l’eccesso blasfemo nell’irriverente litania degli attributi relativi a Dio: illusionista equivoco ciarlatano oscuro crudele indifferente disoccupato baro muto vigliacco bastardo malvagio funesto, “un boia / che non si sporca le mani”, “un imbroglio su cui sputare”.
Nemmeno Cristo si salva da tale iconoclastia verbale, perché – fragile e impotente –, non potrà mai risorgere dalla morte che il Padre gli ha imposto dopo averlo lasciato solo: “Cristo si copre gli occhi / perché non vuole vedere / gli orrori che ha creato suo padre”.
L’indignazione di Nicola Vacca, novello Savonarola eretico, accomuna creatore e creature: “Dio è il vuoto / che marcisce insieme a noi”, “Questo mondo è sporco / come dio che lo ha creato”, “se l’umano è marcio, il divino è lurido”. Disgustato ed esacerbato, implora l’estinzione del mondo, destinato ad auto-distruggersi a causa della sua stessa iniquità, dato che i tanto proclamati valori morali (amore, amicizia, famiglia, fede, gloria) servono solo a coprire il “tanfo” del sudiciume.
La copertina che il poeta ha scelto per la raccolta è esplicitamente rappresentativa della funerea tensione che la attraversa: lo spaventoso Inferno magistralmente dipinto da Hieronymus Bosch nel trittico de Il Giardino delle Delizie.
Nella visione totalmente negativa dell’umanità, ormai priva di qualsiasi futuro, l’autore chiama come testimoni e sodali altri poeti e scrittori (Majakovskij, Ritsos, Strand, Artaud), che tuttavia non sono riusciti con la severa purezza delle loro parole a risvegliare le coscienze degli uomini, e a salvarli.
Le quattro sezioni in cui si suddivide il libro (Un dio contro, Dalla parte del cecchino, Lode all’Anticristo, Cattive notizie giungono dall’alto) esprimono un crescendo di ferocia rabbiosa, e il poeta ostenta consapevolmente l’immagine di sé come giustiziere e vendicatore, cucendosi addosso le sembianze del tiratore scelto, che implacabile prende la mira per annientare illusioni, false credenze e ipocrisie del senso comune: “Amo le parole che sbranano / adoro i concetti che dilaniano”. In questo “squartamento” di sé e degli altri, Vacca ha bene assorbito la lezione di Cioran, attribuendosi “il tentativo / di un estremo atto di rivolta / contro il vuoto che inghiotte tutto”.
Se la corrente della poesia civile, nelle sue accezioni politiche e sociali, ha attraversato tutta la storia letteraria italiana da Dante in poi, con particolare vigore nell’800 risorgimentale e poi durante e dopo le due guerre mondiali, spingendosi fino al dichiarato impegno antifascista e anticapitalista degli scrittori attivi tra il 1950 e il 1970 (Pasolini, Fortini, Pagliarani, Sanguineti, Sereni, Roversi, Porta, Balestrini ecc.), la poesia anticlericale non ha avuto altrettanta diffusione nelle patrie lettere. Dai canti carnascialeschi medievali, alla satira di Giusti, al demonismo carducciano, fino allo scherno beffardo dei sonetti romaneschi, forse è solo nella bruciante contestazione di due religiosi, Turoldo e Tartaglia, e nell’invettiva pasoliniana di “A un Papa” (“non c’è stato un peccatore più grande di te”) che possiamo trovare un antecedente allo sdegno profano e maledicente di Nicola Vacca.
Che tuttavia nel Finale della raccolta, ridotto a pochi versi, si dichiara sconfitto, ammettendo di aver cercato inutilmente “uno spiraglio / nella crepa dell’esistere”, battendosi per “un gesto urgente / in una rivolta senza senso”. Se è insensato vivere, se è insensato credere, altrettanto vano è ribellarsi al destino di morte stabilito per ciascuno, il più ingiusto sopruso patito dall’essere umano, non riscattabile da alcuna speranza in un aldilà riparatore: “verrà la morte e avrà i nostri occhi / questa è la verità / che dovremmo tenere a mente / mentre collezioniamo bugie per sopravvivere”.
© Riproduzione riservata «Gli Stati Generali», 10 febbraio 2024