Mostra: 81 - 90 of 1.317 RISULTATI
RECENSIONI

ATTANASIO

DANIELA ATTANASIO, IL RITORNO ALL’ISOLA – NINO ARAGNO, TORINO 2010

Si apre con una poesia intitolata  Risveglio, questo bel libro della poetessa romana Daniela Attanasio: quasi un augurio di nuova vita, che penetra nei versi con la luce dell’alba. E «luce», infatti, è forse il vocabolo che più si rincorre attraverso i quattro capitoli che compongono il volume, come una costante di apertura, di desiderio chiaro, di energica vitalità modulata in versi che hanno la solida positività di una narrazione che si vuole condividere. Così nella prima sezione, intitolata luminosamente  aQualche scintilla, è la metropoli di oggi, brulicante di esistenze e razze differenti, di colori profumi rumori e lingue diverse, che si impone nelle descrizioni stupite e grate dell’autrice. La sua «Roma di rosa pallido di azzurro sporco», si spalanca con disordinata allegria su «un secchio di fiori una panca la metropolitana / la croce della farmacia, odori molli dolci / di pelle indiana»: per cui, quasi pasolinianamente «a snodare la passione del giorno / è un disperante bisogno di vita». Ma è soprattutto la seconda sezione, che dà il titolo al volume, ad aprirsi al miracolo dello sguardo ricreante, in una vertiginosa identificazione con la natura e l’esplosione dei suoi colori. L’isola di cui si parla nel poemetto («quest’isola / piccola e selvaggia») è Ginostra («felicità infantile / come un giro di / giostra»): esplode nella sua concreta e paganeggiante rigogliosità fatta di “roccia nera / vulcanica sulfurea / raspi di capperi… terrazze accovacciate… teli di bucato… gigli di mare… corpi scivolati nel / sudore… gabbiani reali appollaiati… spiaggia trascolorata… intonaci /increspati come petali di / un fiore… livide raffiche di vento… rosso dei pomodori / rimasti a seccare sotto il sole». Una fisicità di cielo e mare, odori e suoni che si fa pura, esaltata visione, e insieme volontà di comunione, non solo con l’amato con cui si condividono i gesti più quotidiani e attenti, bensì con il tutto che respira intorno, fino alla riconoscente resa in poesia: «Vera ragione di esistere / è questo guardare la vita / patendola fino al raschio / delicato della poesia», «cerco un verso che / sanguini fedeltà alla vita», «il mio modo / di guardare l’isola / è una forma del / pensare, qualcosa di / molto umano, una cosa / pura, un inizio // come cercare Dio nella bocca del vulcano». Proprio la forza incombente del vulcano, guardiano del suolo, testimone sedimentato da millenarie età geologiche, rappresenta più una sicurezza che una minaccia: «il vulcano è ancora lì / con la sua mappa di rughe ctonie- / solo lui resiste»: ed è una promessa di solida e fedele permanenza nel fluttuare incostante delle vicende umane. Il ritorno alla banalità urbana, la fine della vacanza e dell’immersione in un’innocenza primordiale, si concretizza in un  Dopo che corrisponde al terzo capitolo del libro, e a una separazione, alla fine di un rapporto d’amore: «circondata dal buio e dal / silenzio, posso iniziare a ricordare», «poi è accaduto qualcosa che non so capire», «siamo corpi separati dentro una cassa di gesti morti». Eppure, anche nella malinconia del distacco, non sono davvero buio e silenzio a prevalere. La poetessa sembra voler chiedere ancora una volta soccorso alla natura, alla bellezza del creato per una consolazione che non sia fittizia: «vieni luna gentile, lava le pietre della mia memoria / attraversa con i tuoi raggi bianchi cuore e cervello / chiudimi dentro una suadente amnesia», «amo anche te vela nera d’agosto / e amando te amerò il dopo del buio e della pioggia». Sono versi che indicano sempre e comunque una salvezza, una gioiosa accettazione e adesione all’esistente. Persino la visione della morte futura non ha nulla di spaventoso e di tragicamente definitivo: «soccombere alla luce- un modo di morire contenta / scivolando nella materia che amo». La scrittura poetica di Daniela Attanasio («un nome ebraico e un cognome greco») sembra rifiutare i moduli tradizionali di rima o metrica, ma si avvale spessissimo di metafore e di enjambements che aspirano a creare nel lettore effetti di straniamento e sospensione, di sorpresa e meravigliata interrogazione, in linea con la convinzione etica espressa dai suoi contenuti: un inno alla vita, una partecipazione convinta alla bellezza . Così anche l’ultima parte del libro, con le tragiche epigrafi tratte da Amelia Rosselli, e allusive alle «sue disarmate visioni», alla malattia, alla fine, termina con un «cordoglio d’allegria», con la constatazione che «da tutti i tuoi mali d’amore nasce sempre qualcosa, / tocca la primavera di aprile scolpita sulle foglie / i voli frastagliati degli uccelli, le rondinelle…».

 

«Atelier» n. 67, settembre 2012

RECENSIONI

ATTANASIO

MARIA ATTANASIO, LO SPLENDORE DEL NIENTE – SELLERIO, PALERMO 2020

Pubblicati singolarmente nell’arco di un ventennio, tra il 1994 e il 2014, questi sette racconti di Maria Attanasio rivedono la luce nel volume edito da Sellerio con il titolo Lo splendore del niente, dove quel “niente” si riferisce al fatto che le protagoniste (tutte donne, vissute nella Sicilia dominata dai Borboni, dagli Asburgo, dai Savoia tra ’700 e ’800) sono figure nate e cresciute ai margini della storia ufficiale, escluse dal linguaggio del potere maschile. Ma “splendide”, vive di un’identità forte e mai rassegnata, protagoniste di una loro storia minima che ha saputo incidere e ribaltare un destino già prefissato, squarciando “l’oscurata genealogia” che le ha prodotte.

Nell’approfondita presentazione l’autrice indica motivazioni e linee-guida che l’hanno condotta alla scrittura dei racconti: “Si nasce per caso in un luogo, che può diventare scelta, destino. E destino di scrittura è stato per me Caltagirone, l’immaginaria Calacte della maggior parte di questi
racconti, le cui storie risalgono dall’anonima verticalità di tempi ed esistenze oscuramente pulsanti
tra le statiche quinte di piazze e conventi, di carruggi e palazzi. Storie soprattutto di donne – ribelli non rassegnate – di cui spesso resta solo un gesto, un dettaglio, impigliato in vecchi libri o nelle scritture di cronisti locali: frammenti dell’immemore genealogia delle madri, che arrivano a me, si insediano in me, fino a quando – con uno spostamento di prospettiva storica, e una forte compenetrazione empatica – non restituisco loro parola e identità”.

Attanasio si è messa in ascolto del “respiro polveroso dei secoli” (secondo la poetica epigrafe di Anna Banti), recuperandone le tracce documentali negli archivi e nell’immaginario di leggende diffuse sul territorio, e tramandate oralmente di generazione in generazione. Storie di donne che hanno saputo coraggiosamente resistere alle discriminazioni, alla violenza e all’ingiustizia.

Il primo racconto, Delle fiamme, dell’amore, narra la vicenda di eroismo e dedizione di Catarina, che durante il terremoto del 1693 (“quel generale sovvertimento della terra, del cielo e di ogni umana costumanza”), appena partorita la primogenita Salvatora, si lancia tra le fiamme di un incendio improvvisamente scoppiato per salvare il marito immobilizzato a letto dopo un incidente, e muore arsa viva mentre la fantasia popolare le attribuisce un ultimo grido d’amore in realtà mai pronunciato: “Senza vossia, non ce n’è mondo!”

Sulle macerie dello stesso tragico terremoto è ambientata la seconda novella, quasi un romanzo breve, Correva l’anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile, che recupera la drammatica storia di Francisca,  “masculu fora e fimmina intra”, ambientata a Calacte, città di vasai, nobili, conventi, querceti e di aggrovigliate migrazioni (arabi, normanni, genovesi, ebrei, francesi, aragonesi, spagnoli), città già falcidiata da carestie, rivolte, epidemie, congiure. Francisca, “un’indefinibile creatura”, dai modi riservati e dall’andatura provocatoria, ondeggiante sui fianchi rotondi camuffati sotto abiti virili, fino alla morte del marito aveva lavorato duramente nei campi, robusta e resistente come un uomo. Rimasta sola, indifferente alle convenzioni e ai pregiudizi sociali, aveva scelto di lavorare come bracciante a giornata, provocando derisione e sconcerto nei compaesani, e scandalo nelle gerarchie ecclesiastiche. Accusata di atteggiamenti lussuriosi, traffici col demonio e stregoneria, processata dall’Inquisizione per aver infranto un millenario codice di rigida divisione di ruoli e sessi, era stata poi assolta e addirittura pubblicamente legittimata nella sua doppia identità, grazie all’inaspettata solidarietà del paese.

Tra gli altri racconti – animati da un descrittivismo elegante e concreto, attento al paesaggio nei suoi colori e nelle varietà della vegetazione, acutamente analitici nell’indagare sacro e profano, superstizione ed empietà di una Sicilia eternamente arcaica – risulta oltremodo intenso quello che dà il titolo al volume, Lo splendore del niente, in cui la giovane Ignazia, ultima nata dopo sei fratelli maschi nella nobile famiglia Perremuto, non risponde alle elevate aspettative della casata. Ai corteggiamenti, al lusso, alla futilità salottiera del suo rango sociale preferisce infatti la riflessione, la preghiera, l’applicazione intellettuale e uno stile di vita sobrio e raccolto, anticipando una sensibilità femminile ribelle ai modelli tradizionali.

Donne diverse dall’usuale, sia della nostra contemporaneità, e tanto più dei secoli in cui ebbero a vivere, costrette in tempi e spazi impreparati a comprenderle, talvolta stupidamente vessatori e persecutori. Figure femminili (una badessa che si ribella al re, un’avvelenatrice seriale, una pittora mistica ed epilettica…) scisse “tra microstoria e grande storia, coazione sociale e bisogno di libertà”, fisicità animalesca e castità oppressa, che grazie a una minima devianza di pensiero o atteggiamento hanno potuto trovare in Maria Attanasio chi ha saputo sottrarle all’oblio del tempo.

 

© Riproduzione riservata                  «SoloLibri», 1 luglio 2020

https://www.sololibri.net/Lo-splendore-del-niente-altre-storie-Attanasio.html

 

 

 

 

RECENSIONI

ATTANASIO

CLELIA ATTANASIO, LA STRADA DEGLI ULIVI – ERETICA, BUCCINO (SA) 2023

Un romanzo scritto con eleganza e profondità speculativa, questa prima prova narrativa a lungo respiro di Clelia Attanasio (1995) che, ottenuto il dottorato in Teologia a Cambridge, oggi è ricercatrice presso l’Università di Strasburgo. Finalista del Premio Campiello Giovani nel 2015, Clelia è autrice di racconti e dal 2020 dirige la rivista Quaerere.

La vicenda narrata ne La strada degli ulivi – ambientata in un soffocante paesino del Cilento -, si sviluppa all’interno di conflittuali rapporti familiari, che si riverberano non solo nel tempo (dal passato al presente, proiettandosi anche in un futuro avvertito come problematico), ma anche negli spazi circostanti, contagiati dalla stessa inquietudine respirata entro le mura domestiche.

L’esergo al libro riporta una citazione di J. Derrida, “Il mio lutto ha il volto di mia madre”, prodromo all’avvenimento iniziale, la morte dell’ottantenne Rachele Mele, vedova del medico Antonio Chirichella e madre di due figli, Angela e Ciro.  Quest’ultimo, voce narrante del romanzo, comunica telefonicamente alla sorella giorno e ora del funerale: da subito si intuisce la distanza, non solo fisica, esistente tra i due: Angela è docente universitaria a Napoli, dove si era trasferita anni prima per motivi di studio e per allontanarsi dalla famiglia. Ciro è rimasto a casa, accanto alla mamma cui è morbosamente legato, rinunciando a qualsiasi affermazione professionale e culturale. Considera sua sorella “una donna artificiale, costruita su sé stessa”, e non lo sorprende l’indifferenza con cui accoglie la notizia del lutto, quasi sbadigliando. Ciro e sua moglie Marisa si occupano di tutte le incombenze relative alle esequie, Angela risentita e rabbiosa farebbe volentieri a meno di partecipare alla cerimonia.

Da questo contrasto iniziale si dipana la storia del piccolo nucleo familiare, segnata da incomprensioni, torti, gelosie, segreti. Ciro alterna le sue riflessioni private a considerazioni più generali sull’ambiente in cui vive, freddo e ostile con i giovani, incurante verso gli anziani, desolato nell’abbandono paesaggistico e architettonico, spietato nei rapporti umani. Ma è soprattutto nell’esplorazione di sé e del proprio vissuto che esercita una severa e rancorosa analisi: consapevole di essere “uno dei pochi superstiti di una generazione fuggi tiva” sacrificata al nulla, “fratello santo che avrebbe potuto fare tantissime cose, se solo non ci fosse stata questa sciagurata sorella a prendersi tutto lo spazio del mondo”. Della propria scontrosa riservatezza dà una lettura sincera: “Dietro le psicosi si celano spesso solo piccole paure. L’estraneo mi spaventa, mi inibisce, negli occhi degli altri c’è qualcosa che mi fa temere d’essere visto”.

I due fratelli (tra di loro si chiamano ‘Ngelì e Cirù, unico segno di affettuosa tenerezza) avevano con i genitori rapporti antitetici: Ciro si sentiva inadeguato e imbarazzato di fronte al padre, e dipendente in maniera nevrotica e devota dalla madre; Angela cercava protezione e sostegno nella figura paterna, ed esibiva sadicamente il proprio odio per la mamma provocandola, insultandola, o ignorandola con crudeltà. Se la figlia mantiene negli anni la propria autonomia lontana da casa, dedicandosi con successo alla carriera accademica, Ciro si rassegna al lavoro modesto di insegnante in un paese vicino, e a “un rapporto matrimoniale monco – fatto di svogliato sesso e poche parole” con una coetanea comprensiva, mai realmente amata.

La morte della madre suscita nei due fratelli domande e curiosità prima represse, principalmente riguardo al passato dei genitori, con il desiderio di ricostruire le loro scelte di vita, e di indagarne i silenzi. La madre Rachele era “donna dall’amore lontano, percepibile ma mai concreto. Un amore raffreddato” persino agli occhi del figlio maschio, adorato e adorante. Figura algida ed egoista, era tuttavia donna intelligente, colta, con ambizioni personali non conformiste. Il padre medico, di vent’anni più anziano della moglie, sembrava desideroso di mantenere una serenità di facciata all’interno della famiglia, cercando di attutire i contrasti, di smussare ogni animosità.

“Non credo di poter dire di aver conosciuto i miei genitori per quelli che furono prima di me, forse nemmeno dopo di me: es sere genitore vuol dire conservare un segreto inconfessabile”, afferma Ciro. E casualmente alcuni segreti mai sospettati vengono alla luce con il ritrovamento delle lettere che Rachele e Antonio si erano scambiati durante il loro lungo fidanzamento. In primo luogo il precedente matrimonio del padre di cui non erano mai stati a conoscenza, ma soprattutto la natura sfrontata e dominatrice di Rachele: “La rivelazione, la scoperta di mia madre – nuda, provocante, sensuale – è scesa su di noi come una tenda incandescente”. A sorpresa viene poi svelata, mentre i due fratelli discutono sull’eredità di un uliveto da spartire tra loro, un’ultima intuizione materna, taciuta a tutti e affidata a un foglio nascosto in bagno, riguardante proprio l’amatissimo figlio maschio.

Il romanzo di Clelia Attanasio dimostra grande abilità nello scavo psicologico, e un’attenzione introspettiva severa, espressa senza condiscendenza nella forma letteraria puntuale e curata, capace di adeguarsi alle particolarità caratteriali di ognuno dei quattro protagonisti.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net         3 agosto 2023

 

RECENSIONI

ATWOOD

MARGARET ATWOOD, ESERCIZI DI POTERE – NOTTETEMPO, MILANO 2020

Margaret Atwood (Ottawa 1939), oltre a essere famosa nel mondo come autrice di bestseller, è anche ragguardevole poeta, e proprio come tale ha esordito negli anni ’60 con la raccolta Double Persephone. Temi principali della sua produzione sono l’identità culturale canadese, l’interesse per l’ambiente e l’impegno femminista. Ma nel volume del 1971 oggi riproposto da Nottetempo, Esercizi di potere, il nucleo fondante intorno a cui ruotano i versi è il rapporto dinamico e tormentato che si instaura nella coppia, in una sorta di duello quotidiano in cui vincitore e vinto, vittima e carnefice si scambiano costantemente i ruoli.

Con testo inglese a fronte, nella limpida traduzione di Silvia Bre, queste poesie della Atwood raccontano (in una forma tranquillamente discorsiva, e con trame narrative che si esauriscono all’interno di un’unica composizione) approcci, esperienze di vita quotidiana, illusioni e tradimenti all’interno di una convivenza, indagata con disinibita sincerità, “con meticolosa crudeltà”, come recita la quarta di copertina. L’autrice non risparmia nulla a se stessa e al suo compagno, analizzando spietatamente il loro rapporto, dalle lusinghe del corteggiamento alla delusione del disamore: ribellioni e tentazioni di fuga, gelosie e rancori, timori e sospetti. Il lettore ha l’impressione di assistere a una rappresentazione teatrale, in cui lo sfondo cambia di continuo (un cinema, un ristorante, la cucina o la stanza da letto, la stazione, l’aeroporto), mentre i protagonisti rimangono sempre due, la moglie e il marito.

La donna ritrae con severità i propri difetti (“Posso cambiare me / stessa più facilmente / di quanto io possa cambiarti”, “prendo pillole, bevo acqua, m’inginocchio”, “ Fatemi uscire da questa trappola, / questo corpo, fatemi essere / come voi, chiusa e utile”), anche alla luce impietosa della sua attività e fama di scrittrice: “Al ristorante discutiamo / su chi di noi pagherà il tuo funerale // sebbene la reale questione sia / se io ti renderò si o no immortale”, “Ti prego muori ho detto / così posso scriverne”.

L’osservazione diventa ancora più feroce e sarcastica quando si focalizza sull’uomo che le è accanto, “alquanto ordinario”, con cui ha in comune solo “silenzi elettrici”: “Io voglio domande e tu / solo risposte”, “Inutile: cammini all’indietro, / rimirandoti le orme”, “Come uova e lumache hai un guscio // Sei diffuso / e nocivo al giardino, / arduo da estirpare // Saprofago, ti nutri solo di carne morta”, “Sei finto come il listello di marmo / intorno al camino, non c’è niente / che non farei per essere via / da qui”, “Quando ti cerco trovo / acqua o ombra mobile // Non c’è verso che io possa perderti / quando sei già perso”, “Sarebbe così bello se solo / rimanessi là / dove ti ho messo”.

In questo canzoniere d’amore sfibrato e ostile, è proprio il rapporto a due che non funziona più, e Margaret Atwood ne è la consapevole e talvolta compiaciuta anatomopatologa: “Mi accosto a questo amore / come una biologa / infilandomi guanti / di gomma & camice bianco”, “Il mio amore per te è l’amore / di una statua per un’altra: in tensione // e statico”, “non c’è nulla / che io voglia fare riguardo al fatto / che sei infelice & malato”, “Siamo duri l’uno con l’altra / e la chiamiamo onestà”. Persino molti titoli delle composizioni esibiscono una voluta impersonalità e freddezza rispetto ai testi poetici: Lui riappare, Lei medita di sfuggirgli, Mangiano fuori, Lui è uno strano fenomeno biologico, Le loro attitudini differiscono, Viaggiano via aria, Lui si sposta da est a ovest, Ci sono modi migliori per far questo, Piccole tattiche, Sono nazioni ostili, Lui viene avvistato per l’ultima volta…

Ed è con malinconia che, in conclusione al volume, l’autrice ammette la propria incapacità di rapportarsi all’altro da sé in maniera comprensiva e solidale: “Considerando gli animali in sparizione / il proliferare di fogne e di paure / l’addensarsi del mare, l’aria / prossima a estinguersi // dovremmo essere gentili, dovremmo / sentire l’allarme, dovremmo perdonarci”.

 

© Riproduzione riservata       «L’Indice dei Libri del Mese» n. 3, marzo 2021

 

RECENSIONI

AU

JESSICA AU, TEMPO DI NEVE – IL SAGGIATORE, MILANO 2022

Con Tempo di neve (Il Saggiatore, 2022, traduzione di Federica Merati), suo romanzo d’esordio, la scrittrice australiana Jessica Au ha vinto il Novel Prize e riscosso un notevole successo di critica e di pubblico.
Tradotto in una quindicina di lingue, più racconto lungo che romanzo vero e proprio, il testo indaga il rapporto non facile che lega una figlia a sua madre, separate da tempo perché residenti in paesi diversi.

Nel tentativo di riscoprire quanto ancora le unisce, e quanto invece le divide irriducibilmente, la figlia invita la madre a compiere insieme una vacanza in Giappone, rivitalizzando così l’antica e affettuosa complicità di anni lontani.
La descrizione diaristica del viaggio scorre fluida e lieve, priva di scansioni in capitoli e di discorsi diretti, minuziosa nella descrizione dei luoghi percorsi, delle persone incontrate, delle impressioni ricavate.
Il primo incontro tra le due donne (l’una nata e vissuta in un villaggio nei pressi di Hong Kong, l’altra trasferitasi in Australia dopo il matrimonio) avviene in aeroporto, subito all’insegna di una sofferta estraneità: “Assomigliava a una donna ben vestita in un film di venti o trent’anni fa, datata ma elegante”.

La giovane, forte di una precedente esperienza a Tokyo con il marito Laurie, ha programmato meticolosamente ogni percorso da seguire, e l’anziana si abbandona alla sua guida esperta con docilità e timore: “Per tutto il tempo mia madre restò al mio fianco, quasi temesse che se ci fossimo separate il flusso della folla, come una corrente, ci avrebbe impedito di tornare l’una all’altra, mandandoci sempre più alla deriva e allontanandoci ancora e ancora”.

Ben presto la donna si mostra, però, stanca e disinteressata nei riguardi di tutto ciò che la circonda: esce dai musei e dalle gallerie d’arte prima di concluderne la visita, forse vergognandosi della propria scarsa cultura, non si sofferma davanti alle vetrine, assaggia appena e senza curiosità i piatti tipici nei ristoranti, si mette in posa con rassegnata pazienza davanti alla Nikon di sua figlia. La pioggia leggera di un ottobre nebbioso intanto accompagna le due donne, quasi volesse stendere un velo sull’incomunicabilità difficile da scalfire che si intensifica tra loro di ora in ora. Parlando con la sorella rimasta a Hong Kong, la figlia confida il suo imbarazzo: “Non riuscivo a capire se nostra madre era lì perché lo voleva, o se lo stava facendo solo per me”.

La voce narrante si rifugia quindi nei ricordi comuni a entrambe, ricostruendo episodi dell’infanzia, tratteggiando le figure di parenti defunti o non più rivisti, tentando di suscitare qualche emozione nella mente della mamma: “Forse, pensai, io e mia sorella eravamo cresciute in un modo che doveva sembrare altrettanto estraneo a mia madre. Forse, col passare del tempo, le era diventato sempre più difficile evocare il passato, soprattutto non avendo nessuno con cui ricordarlo”.

I frequenti flashback offrono lo spunto alla narratrice di introdurre temi di riflessione più radicali: il valore della maternità, la fugacità del tempo, l’inconsistenza di alcuni rapporti parentali imposti, la finzione di un ruolo che tutte le persone si trovano a ricoprire. Questi sprazzi di memoria permettono alla protagonista di ricostruire vicende importanti della giovinezza, che descrive dilungandosi dettagliatamente: le prime esperienze sentimentali, lo sport, le lezioni universitarie di letteratura, l’incontro con una straordinaria docente di studi classici, l’insofferenza per l’ambiente familiare inadeguato, l’amore e l’affiatamento con il marito e i parenti di lui. Ma quando ritorna ai momenti cruciali trascorsi con la madre, deve affrontare la dura realtà di un’insormontabile reciproca indifferenza che le tiene lontane.

Gli splendidi parchi attraversati, i cimiteri esotici, i bagni pubblici, treni e stazioni, Kyoto e altre città visitate: nulla riscuote l’anziana dal suo torpore, e quello che doveva essere un riavvicinamento tra madre e figlia finisce per concludersi con un definitivo e malinconico addio.

© Riproduzione riservata       21 ottobre 2022

SoloLibri.net › Recensioni di libri › Tempo di neve di Jessica Au

RECENSIONI

AUDEN

WYSTAN H. AUDEN, LETTERE DALL’ISLANDA – ARCHINTO, MILANO 2016

Nel 1937 il poeta inglese Wystan Hugh Auden (1907-1973) fu incaricato dalle case editrici Faber and Faber e Random House di redigere un libro sull’Islanda, che coniugasse elementi di cronaca, storia e cultura alle descrizioni paesaggistiche dell’isola nordica, allora non ancora inflazionata come meta turistica. In compagnia dell’amico poeta Louis MacNiece, Auden si proclamò subito ben disposto ad accettare l’incarico, discretamente retribuito e coperto di tutte le spese. Entrò tuttavia presto in crisi riguardo alla forma letteraria da dare al suo resoconto di viaggio, decidendo con un intelligente escamotage, dopo un mese di incertezze, di servirsi di una struttura epistolare. L’editrice Archinto ha quindi pubblicato una scelta di queste Lettere dall’Islanda, indirizzate ad alcuni amici e al fratello. Si tratta di documenti in versi e prosa, dettagliati e ironici, in cui Auden esprime i suoi giudizi sull’ambiente naturale del paese («Un ghiacciaio brillante sulle cime estive / alimenta un fiume dal color di stucco», «piatti campi di lava color ruggine »), sul carattere dei suoi abitanti («molto inclini alla satira», «in genere realisti, in qualche modo piccoli borghesi, senza romanticismi né idealismi», «sono cordiali, tolleranti ed equilibrati… genuinamente orgogliosi del loro paese e della sua storia, ma senza la minima traccia di isterismo nazionalistico»), sulla loro cultura e letteratura, sulle idee religiose e politiche, sulle abitudini sessuali, e sui malanni fisici di cui muoiono. In generale, trapela dal tono delle sue comunicazioni una persistente noia, un mal dissimulato senso di superiorità e il desiderio intenso di tornare a vivere nella più civile Inghilterra.

L’originalità del volume consiste tuttavia in un espediente ideato dall’autore per rendere meno monotoni i suoi reportage di viaggio. L’idea viene comunicata al fratello in questi termini: «Avevo portato con me un Byron, e improvvisamente ho pensato di scrivergli una lettera discorsiva in “light verse” su tutto quanto mi viene in mente… Questa lettera avrà di per sé poca attinenza con l’Islanda, ma sarà piuttosto la descrizione degli effetti di un viaggio in luoghi lontani, che porta un individuo a riflettere sul proprio passato e la propria cultura vista a distanza». L’impostazione che intende dare alla corrispondenza con Lord Byron viene ribadita da subito: «Ogni lettera eccitante contiene degli allegati, / e così li avrà questa – un mazzo di foto, / carte sfocate, altre sottoesposte, ritagli / di giornale, pettegolezzi, mappe, statistiche, grafici; / io non intendo far le cose a metà. // Conto di essere molto al corrente infatti. / Sia questo un collage che lascia soddisfatti. // Voglio una forma in cui possa nuotarci / e chiacchierare di tutto ciò che voglio, / dal paesaggio agli uomini e alle donne, / me stesso, l’arte, le notizie d’Europa; / ed essendo io in vacanza, la mia Musa / è fuori per piacere, per trovar tutto delizioso / e soltanto qua e là essere un po’ dispettosa». Questo proposito viene mantenuto in tutte le quattro missive indirizzate all’illustre fantasma, scritte in versi metricamente controllati: spiritose, di uno spirito british molto elegante e sottile. Auden racconta della sua famiglia, dell’infanzia e degli studi; polemizza sui traguardi economici e tecnici della contemporaneità, che per consolidare il benessere economico e la democrazia distrugge la natura, i buoni sentimenti e le usanze antiche («noi stiamo crescendo e crescendo e crescendo», «Ora, vedete, siamo più democratici, / e la scala della Fortuna è a disposizione di tutti»); esalta o demolisce causticamente i letterati inglesi, antichi e moderni; descrive le sue fatiche di viaggiatore controvoglia. E alla fine si scusa per la minuziosa prolissità della sua corrispondenza: «avete, per leggerla, tutta l’eternità».

 

© Riproduzione riservata

www.sololibri.net/Lettere-Islanda-Wystan-Hauden.html        4 settembre 2017

 

 

RECENSIONI

AUGE’

MARC AUGE’, UN ETNOLOGO AL BISTROT – RAFFAELLO CORTINA, MILANO 2015

L’etnologo e antropologo Marc Augé (1935) ha voluto rendere omaggio, con questo piccolo volume, a un’istituzione della società e della cultura francese: il bistrot. Cioè a quella particolare “bottega” che si colloca a mezza via tra il circolo operaio e il più raffinato dei caffè cittadini. E lo ha fatto descrivendo con garbo e nostalgia non solo un ambiente fisico, ma soprattutto un’atmosfera, e le abitudini che accompagnano la vita di ogni persona, rendendogliela più affettuosamente piacevole.
Soprattutto nella città d’elezione dell’autore, «i bistrot marcano il paesaggio cittadino. Sono la traccia della fedeltà che Parigi mantiene verso se stessa». E Augé ripercorre quindi tutti i bistrot della sua esistenza, da quelli sfiorati con frettoloso imbarazzo negli anni del liceo, ad altri frequentati durante l’università, quando con pochi amici vagheggiava l’utopia di crearvi un movimento letterario sulle orme dei surrealisti Breton e Aragon, e poi degli esistenzialisti Sartre e de Beauvoir.
Luoghi di ritrovo che hanno fatto da sfondo a musiche, film e romanzi, creando una moda ben presto diffusa in tutto il mondo, e che vedono rispettato e imitato ovunque anche un loro particolare arredamento: il bancone di zinco, «su cui appoggiano i gomiti i clienti abituali… a contatto della cucina, da cui lo separa una paratia e alla quale lo collega uno sportello»; le mensole alle spalle del barista, con le bottiglie allineate davanti a uno specchio; i tavolini vicini ai finestroni che danno sulla strada; il televisore acceso, in alto, con il volume basso per non disturbare le chiacchiere dei clienti; la saletta riservata col biliardo. Noi italiani non ritroviamo forse, in queste descrizioni, i versi malinconici di qualche canzone di Gaber, di Paoli, di Paolo Conte?
Essenziali sono i rapporti umani che si instaurano all’interno del bistrot, con il cameriere gentile e discreto che ogni mattina saluta l’avventore e ne anticipa le ordinazioni sempre uguali, i colleghi incontrati per caso o fedeli compagni di birre, gli sconosciuti con cui scambiare discorsi superficiali sul tempo, lo sport o la politica, i solitari infelici che si attardano la sera perché nessuno li aspetta a casa. Uno spazio, quindi, che si offre all’incontro, allo scambio di reciproco conforto e conoscenza, e che sa misurare il tempo con il suo «respiro quotidiano».
Marc Augé sembra temere che questi affascinanti luoghi di ritrovo siano destinati a scomparire, soppiantati da anonimi fast-food, da pub pretenziosi, da «catene alimentari globalizzate», privando Parigi e tutte le nostre città di un modo di vivere e di relazionarsi con gli altri amichevole e indulgente, ancora a misura d’uomo.

 

© Riproduzione riservata    www.sololibri.net/Un-etnologo-al-bistrot-Marc-Auge.html      19 novembre 2015
RECENSIONI

AUGE’

MARC AUGÉ, LE TRE PAROLE CHE CAMBIARONO IL MONDO

RAFFAELLO CORTINA, MILANO 2016

 

L’etnologo francese Marc Augé, raggiunta la veneranda età degli 81 anni, sembra scoprire la leggerezza accattivante della scrittura ironica e visionaria, che sa strizzare maliziosamente l’occhio a un pubblico amante più del divertissement letterario che della pubblicazione scientifica. Così aveva già fatto con altri due recenti libri (Il tempo senza età e Un etnologo al bistrot), sempre pubblicati da Raffaello Cortina. Così fa anche in quest’ultimo, spiazzante e divertito, saggio: Le tre parole che cambiarono il mondo. Augé immagina qui che il Sommo Pontefice, il giorno di Pasqua del 2018, affacciandosi al balcone di Piazza San Pietro prima della benedizione “urbi et orbi”, pronunci davanti alla marea di fedeli in trepido ascolto tre parole terrificanti: «Dio non esiste!»

«Un silenzio assoluto scese su Piazza San Pietro. Numerosi furono quelli che trattennero il fiato in attesa di ciò che sarebbe seguito: le parole decisive che avrebbero incenerito l’affermazione sacrilega che il papa avrebbe ovviamente condannato, rivelandone pure gli autori. Ma Francesco volse le spalle e se ne andò…».

Ovviamente tornano alla mente di noi tutti le prime immagini della serie televisiva The young Pope  di Sorrentino, o il Pontefice di Moretti: ma qui Augé parla proprio di Bergoglio, Papa Francesco, e di quella che definisce una sua «nuova stravaganza». E nomina anche puntualmente diversi cardinali, filosofi, giornalisti, uomini politici, descrivendo lo tsunami mediatico, l’affranta disperazione dei credenti, l’imbarazzo dei potenti del mondo all’ascolto delle tre incredibili parole pronunciate dal Vicario di Cristo: «Dio non esiste!», in pratica «il suicidio in diretta del cattolicesimo romano».

La settimana seguente alla Pasqua è descritta giorno per giorno nell’evolversi della situazione a livello globale. Papa Francesco viene ricoverato in una clinica privata, e sottoposto a visite mediche per verificarne la salute mentale; si ipotizzano intrighi interni al Vaticano, intromissioni della CIA, veleni sovietici o congiure islamiche. Ogni guida religiosa del pianeta grida al sacrilegio e invoca l’intervento divino, credenti laici e consacrati sembrano in preda a convulsioni nervose e a deliri millenaristici. Marc Augé, da ateo convinto e sarcastico anticlericale quale si definisce, sorride sornione di fronte a tale isterismo collettivo. Ma si augura che finalmente venga scongiurata la pericolosa tendenza, anti-razionalistica, superstiziosa e bigotta, che ottenebrando le menti delle masse, le spinge a comportamenti intolleranti e fratricidi in nome di qualsiasi divinità. E se per ottenere ciò, fosse necessario ricorrere all’invenzione di una particolare miscela chimica con cui liberare i fasci neuronali dell’umanità dall’oscurantismo religioso (un fantascientifico Progetto Panoramix cui sottoporre papi, imam, rabbini, presidenti e dittatori, nonché i popoli tutti), ben venga anche questo stratagemma. Ci troviamo con evidenza davanti a un pamphlet scritto con intento parodistico e sottilmente polemico. Quello che preme all’autore di dimostrare è quanto possano arrivare ad essere pericolose le religioni vissute con un’adesione esaltata, con fanatismo, senza rispettare il dubbio di alcuni o la diversa fede di altri.

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/tre-parole-cambiarono-mondo-Auge.html    23 dicembre 2016

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

AUSTER

PAUL AUSTER, ESPERIMENTO DI VERITÀ – EINAUDI, TORINO 2005

Quante cose succedono in Esperimento di verità , questa raccolta di ventiquattro raccontini di Paul Auster!
Scritti con uno stile leggero e veloce, divertiti e quasi stupefatti dalle vicende elementari ma incredibili che narrano, coprono tutta l’esistenza dell’autore, dall’infanzia alla sua maturità di celebre e premiato scrittore. E ruotano ciascuno intorno a un avvenimento minimo ma fondamentale, che ha inconsapevolmente o involontariamente avuto conseguenze basilari nelle vite dei protagonisti, dirottando il corso delle loro esistenze.

Auster ne è la vittima o il responsabile, oppure ancora il testimone diretto e il narratore privilegiato. Racconta di essere diventato scrittore per aver deciso a otto anni di portare sempre con sé una matita, dopo aver perso l’occasione di farsi firmare un autografo dal suo idolo del baseball. O di aver salvato con un balzo istintivo e imprevedibile la sua bambina piccola che stava per schiantarsi contro una vetrata. Sempre al posto giusto nel momento giusto, in più di un’occasione gli è capitato di sventare incidenti potenzialmente tragici per se stesso e per i suoi cari. Un attimo prima o dopo, un metro più in qua o in là, essi avrebbero potuto cambiare le sorti di qualsiasi esistenza
Pure coincidenze, quelle raccontate? Numeri di telefono sbagliati che aprono squarci rivelatori nel destino delle persone, desideri impossibili che si avverano, incontri inspiegabili che potrebbero far credere a qualche stregoneria di un demiurgo capriccioso…

È la costrizione della necessità che ci domina, quasi fossimo tutti programmati, costretti a percorrere un binario già definito in partenza, o l’imponderabilità del caso, che crudelmente colpisce un ragazzino con un fulmine salvando il compagno che gli sta accanto, e che fa ritrovare dopo anni persone che si erano amate, cercate e dimenticate?
Paul Auster si interroga e ci interroga con intelligenza, ironia o amarezza: disincantato e incantato insieme da ogni Esperimento di verità, da ciò che accade quotidianamente nel mondo.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Esperimento-di-verita-PaulAuster.html       11 ottobre 2016

 

 

 
RECENSIONI

BABEL’

ISAAC BABEL’, DUE RACCONTI FRANCESI – ENSEMBLE, ROMA 2019

Nella collana dedicata ai classici delle edizioni Ensemble, è uscito un libriccino di Isaac Babel’, Due racconti francesi, esemplare dello stile incisivo e arguto dello scrittore russo. Nato a Odessa nel 1894, Babel’ rispecchiava nella propria narrativa il clima leggendario delle tradizioni ebraiche della sua famiglia, il senso claustrofobico della persecuzione contro il suo popolo, corretto tuttavia dall’ironia e da una critica sarcastica contro l’ottusità del potere e del conformismo politico, caratteristiche che lo resero inviso al regime sovietico, e lo portarono all’arresto nel 1939, quindi alla fucilazione nel 1940. La sua produzione letteraria, giudicata estetizzante e provocatoriamente sensuale, era stata spesso sottoposta a censura.

Nella breve ma puntuale prefazione, la traduttrice del volume Sara Grosoli sottolinea la passione di Babel’ per la cultura francese (e in particolare per l’opera di Flaubert e Maupassant), che lo indusse addirittura a scrivere i primi racconti in quella lingua, aspirando a liberare la letteratura russa dalle atmosfere opprimenti di Dostoevskij e di Turgenev, e dal moralismo religioso troppo esibito di Tolstoj.  Nella maturità si recò più volte a Parigi, dove madre, moglie, sorella e figlia si erano trasferite per sfuggire alla persecuzione stalinista, tornando tuttavia sempre in patria, poiché “preferiva vivere parzialmente libero, ma confortato dal successo letterario nel paese natale”, piuttosto che da émigré appena tollerato nella libera Europa. Quando venne arrestato nella sua dacia mentre era al lavoro, proclamò la sua indignata protesta soprattutto perché non gli avevano permesso di concludere ciò che stava scrivendo.

I due racconti pubblicati da Ensemble si nutrono dunque di questa ammirazione per la Francia, per la sua libertà di pensiero e di costume, per la vivacità dell’espressione formale dei suoi grandi romanzieri, lontani dalla cappa di severa integrità degli scrittori russi. Nel primo, a uno squattrinato studente ventenne viene proposto di correggere la versione di alcuni racconti di Maupassant a cui si sta dedicando una matrona dell’alta borghesia pietroburghese, Raissa Benderskaja, in una forma corretta ma del tutto inespressiva. L’abilità del giovane nel volgere lo stile dello scrittore francese in un russo elegante e incisivo gli serve per conquistare le grazie della ricca signora, che non solo gli paga profumatamente le traduzioni, ma finisce per concedersi a lui con grande passione durante la lettura comune di uno dei brani più eccitanti de La confessione. “Si strinse al muro, allargando le braccia nude… Di tutte le divinità messe sulla croce questa era la più seducente”.

Il sogghigno canzonatorio e sensuale di Babel’ è ancora più evidente nel secondo racconto, Via Dante, ambientato nel quartiere latino di Parigi, dove due ospiti dell’Hotel Danton si confidano con complicità le loro imprese amorose, quasi spiandosi vicendevolmente attraverso le pareti divisorie delle loro camere, da cui provengono quotidianamente gemiti, gridolini e risate di piacere. La voce narrante è quella di uno spaesato esule russo, il cui vicino – un rivenditore di automobili usate di nome Jean Benal-, si incarica generosamente di introdurre alle gioie carnali della capitale, facendogli frequentare bettole, bordelli, caffè e gare sportive, e soprattutto spronandolo a seguire il suo esempio di tombeur de femmes. Ma quando una delle sue più procaci amanti lo scanna con un coltello scoprendosi tradita, al malinconico rifugiato non resta che meditare sugli strani esiti dell’amore: “«Dio … tu non perdoni quelli che non amano…». Nella logora rete del Quartiere Latino era calato il buio, sui suoi gradini la folla lillipuziana cominciava a correre di gran fretta, intense zaffate d’aglio si diffondevano per i cortili. Il crepuscolo aveva rivestito la casa di Madame Truffaut: la facciata gotica con due finestre, i resti delle torrette e delle volute, l’edera pietrificata. Qui aveva vissuto Danton un secolo e mezzo fa. Dalla sua finestra vedeva il palazzo della Conciergerie, i ponti lievemente gettati lungo la Senna, la fila di casette cieche strette al fiume. Quelle stesse zaffate risalivano fino a lui. Spinte dal vento, scricchiolavano le travi arrugginite e le insegne delle taverne”.

 

© Riproduzione riservata        

https://www.sololibri.net/Due-racconti-francesi-Babel.html         4 giugno 2019