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RECENSIONI

MUELLER

HERTA MÜLLER, IL RE S’INCHINA E UCCIDE – KELLER, ROVERETO 2011

Dopo Il paese delle prugne verdi esce da Keller questo secondo testo di Herta Müller, premio Nobel 2009. Il volume dal titolo allusivo comprende due scritti: racconti o meditazioni, autobiografia e critica letteraria e sociale insieme. Herta Mueller, nata nel 53 in Romania, ma in un villaggio di lingua tedesca, cresce tra umili lavori dei campi, dolorosa vita familiare – con una madre succube del padre alcolizzato-, macabre visite ai morti del paese, profondi silenzi e più profonde riflessioni. Sul mondo che la circonda e quello a cui aspira, ma soprattutto sul rapporto che unisce il pensiero alla parola, nella sua vita di bambina e di adolescente costretta al bilinguismo: “Finora ho pensato molte cose senza ricorrere alla parole, non ne ho trovate nel tedesco del villaggio, e neppure nel tedesco di città, nel rumeno… e in nessun libro… Cosa può fare il parlare? Quando gran parte della vita non quadra più, anche le parole vanno a fondo”. Trasferitasi dalla campagna in città nella Romania di Ceausescu, conosce la violenza della polizia comunista quando inizia a scrivere e a opporre al potere una tenace e silenziosa resistenza. Allora il Re del gioco degli scacchi di suo nonno diventa metafora di violenza e sopraffazione, incubo e terrore, inquisizione e assolutismo. La scrittrice ne fa un simbolo di morte, a cui opporsi con dignità:”E’ un re di stato…mette in scena la morte inflitta come fosse un suicidio…lo si sa, ma quel che succede ogni giorno non lo si può provare…Quando barcolla si pensa che s’inchini, ma lui s’inchina e uccide.” Questo Re dell’ingiustizia e della persecuzione segue la scrittrice ovunque, assume la dimensione di tutte le cose incomprensibili e terrificanti con cui ha a che fare, anche quando riesce a trasferirsi in Germania. La letteratura,allora, la parola scritta e letta,sua o di amici intellettuali, può diventare un’ancora di salvezza, cui aggrapparsi per dissentire e resistere, per proclamare la propria dignità di essere umano assetato di libertà.

IBS, 29 maggio 2011

RECENSIONI

MULLER-COLARD

MARION MULLER-COLARD, COME FUNAMBOLI – QIQAJON, BOSE 2025

Una lunga lettera d’amore (inteso non come passione, ma nel senso più esteso – di benevolenza, premura e delicatezza –, che i greci definivano filìa o agàpe) quella che Marion Muller-Colard indirizza a Jeanne, la figlia neonata di un’amica carissima morta di cancro pochi mesi dopo il parto. Una lettera che si rivela testimonianza di fede, non solo in termini cristiani, bensì di fiducia e apertura verso l’esistenza, così come può venire esperita anche dai laici, dagli agnostici, dagli atei. Marion Muller-Colard (Marsiglia 1978) è teologa protestante e scrittrice. Autrice di numerosi saggi e romanzi, ha fatto parte della Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella chiesa e dal 2017 è membro del Comitato consultivo nazionale di etica.

Come funamboli è il titolo con cui le edizioni Qiqajon presentano il testo, a indicare la particolare e vertiginosa condizione umana, in equilibrio perenne tra i due momenti basilari e imprescindibili della vita e della morte. La fune su cui gli acrobati volteggiano, lontani dall’appoggio sicuro del terreno e sospesi nell’alto, privi di una rete di protezione, diventa evidente metafora dello stare umano, costantemente in bilico nei momenti decisivi di ogni scelta, azione, pensiero, sentimento. L’epigrafe di Friedrich Hölderlin, “Dove è il pericolo, cresce /anche ciò che dà salvezza”, bene esprime l’ambivalenza della corda tesa tra minaccia e riparo, rischio e difesa, su cui ciascuno di noi si muove.

A Jeanne, bambina che non avrà vicino la propria madre, che non potrà nemmeno ricordarne il viso e la voce, Muller-Colard non rivolge parole di retorica consolazione, né di impietosita compassione, ma di forza e incoraggiamento, addirittura di composta serenità.

Osservando la foto della puerpera e della piccola appena nata, l’autrice intuisce “il segno d’una vulnerabilità piena e raccolta”, su cui aleggia la luminosità dell’evento miracoloso che le ha viste protagoniste, insieme all’ombra che oscura l’inizio e la fine del loro rapporto.

Nell’arco di un anno, la vita della sua giovane amica era stata attraversata da avvenimenti turbinosi, felici e tragici: un matrimonio intensamente desiderato e festoso, seguito subito dopo dalla diagnosi di un tumore incurabile, e infine la nascita di Jeanne. Dodici mesi in cui il tempo è stato misurato da tutti i protagonisti nella sua profondità, più che nella lunghezza, vissuto e percepito come un susseguirsi di attimi nel presente, mentre il futuro assumeva contorni bui. “Tua madre ha il coraggio di rivolgere la parola all’ignoto. E l’ignoto le risponde”, scrive alla bimba, augurandole la stessa generosa fierezza materna.

Quando non si riesce a fornire una giustificazione a una condanna immeritata, si dovrebbe rinunciare a porsi domande, e accontentarsi di rimanere al livello delle sensazioni, imparare a godere di ogni istante di bellezza, riconoscendo nel proprio essere vulnerabili la possibilità di una risorsa. Rinunciare ai “perché”, preferendo i “come”.

La teologa Isabella Guanzini nella prefazione al volume afferma: “Chi deve presto morire mostra ai vivi come si può vivere: ossia come funamboli amanti della propria incertezza, con lo sguardo dritto, la percezione del proprio corpo fino alle punte delle dita e moltissimo affetto per i vivi che ci sono dati, di tutte le generazioni”.

L’imprevedibilità della sorte che ci aspetta provoca ovviamente timore, ma indica anche una possibilità: l’ignoto presuppone sempre un “forse”, un “poter-essere”, e il confronto con la nostra finitudine apre  tuttavia alla grazia di una nascita, di “un’irruzione pugnace e inaspettata della vita”.

Quando Marion Muller-Colard chiedeva all’amica malata come stesse, lei rispondeva “In trasformazione”, oppure “Così è”, riferendosi alla realtà del momento presente che dura senza durata, del kairós (istante) che vince sul chrónos (tempo). E scrivendo alla bambina che avrebbe letto la lettera una volta cresciuta, così conclude: “Tua madre è morta quattro settimane dopo il tuo battesimo, Jeanne… La sua vita è passata nelle nostre, per dirla con le parole di Rilke. È passata nella tua. Questo, lungi dall’incatenarti, ti renda infinitamente libera, Jeanne”.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 29 marzo 2025

 

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MURAKAMI

RYU MURAKAMI, BLU QUASI TRASPARENTE – RIZZOLI, MILANO 1993

Ciò che sappiamo dei giapponesi si riduce forse a una serie di luoghi comuni che fanno il paio con quanto si dice nel mondo di noi italiani. Piccoli, dai capelli lisci e neri, dalle gambe storte; lavoratori fanatici, propensi allo spionaggio industriale e al turismo intruppato, potenzialmente inclini al suicidio. Sospettiamo in loro faziosi accanimenti e tragiche esaltazioni, di cui ci riconosciamo, noi latini, paciosamente incapaci; li reputiamo più accaniti di noi in tutto, nella finanza, nella tecnica, persino nell’arte. Chi ama Jukio Mishima sa quali livelli di drammatica morbosità, mescolata a meditata epicità, sappia arrivare la loro letteratura. Spietati nell’autoanalisi (e cosa ci si potrebbe aspettare da un popolo che usa cinque sillabe per scrivere il pronome “io”? Wa-ta-ku-shi-wa!), paiono altrettanto inesorabili nella rigidezza verso l’altro. Ma ecco che può bastare un romanzo – provocatorio, inatteso e veloce come un pugno a tradimento – a ribaltare tutti i nostri pregiudizi, a metterci di fronte a un universo sconosciuto e insospettabile, in qualche modo addirittura temibile. Blu quasi trasparente  è l’opera prima di Ryu Murakami, tradotta e pubblicata da Rizzoli a vent’anni dalla sua contestata apparizione, quando il giovanissimo e trasgressivo autore era stato insignito del prestigioso premio Akutagawa, inneggiante al romanzo nuovo e scandaloso, polemicamente ostile all’immagine ufficiale e patinata dell’Impero Nipponico.
Protagonista del libro è un gruppo di giovani di cui si sa poco o niente: li si può supporre studenti, impiegati o artisti, anche se nella vicenda non si parla né di università, né di uffici, né di mostre. I giovani – tra i quali il narratore ha lo stesso nome dell’autore, Ryu, quasi ad autorizzare a ritenere il racconto autobiografico-, sembrano dediti a poche, ripetitive, ossessive attività: droga, sesso, musica. Droga a fiumi, in siringhe passate di vena in vena, o in pillole sciolte in misture micidiali, incubi e allucinazioni percorsi dall’autore in uno stravolto delirio di abbagli visivi e sonori. Sesso meccanico e violento, per lo più di gruppo e angoscioso, descritto con analitica asetticità e un’attenzione maniacale a umori, sudori e liquami vari, con una particolare predilezione per il vomito, in ogni sua forma e variante. Musica sparata a tutto volume da stereo o stadi, sottofondo indispensabile a qualsiasi vicenda riguardi la generazione viziata e incolpevole del «rock and fuck»: J.Hendrix, Led Zeppelin, Door, Rolling Stones costituiscono il leit motiv di queste pagine, e forse il solo riferimento temporale, l’unico ancoraggio ai corrosivi anni ’70 in cui sono ambientate. Il romanzo è infatti abissalmente lontano da ogni storicizzazione, da ogni ambientazione geografica. E’ un Giappone privo di qualsiasi eredità orientale – di pensiero, di immagine o di civiltà – e invece inaspettatamente vicino ai sobborghi delle grandi metropoli occidentali. I suoi protagonisti appartengono a una realtà multietnica (coreani e africani, americani e irlandesi convivono senza differenziarsi in niente) di auto-emarginazione, di polemica e disperata contrapposizione a una cultura non più riconosciuta come tale. Avevamo, vent’anni fa, visto film sullo stesso argomento (Trash, ad esempio, che aveva fatto epoca), letto libri underground di cui ci è rimasto poco, se non vaghe sensazioni di malessere, e la constatazione che oggi tutto questo è stato spazzato via, non è approdato a nulla. E ora, Blu quasi trasparente arriva a insinuarci il sospetto che se il nuovo Oriente è così, se la giovane letteratura giapponese si è tanto e tristemente omogeneizzata, meglio Mishima, Tanizaki, Kawabata: sono più immaginosi, più sensuali, più lirici del documentarista Murakami e dei suoi spietati reportages.

 

«L’Arena», 12 agosto 1993

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MURGIA

MICHELA MURGIA, L’INCONTRO – EINAUDI, TORINO 2012

Michela Murgia torna con questo romanzo alla sua Cabras natale, qui anagrammata in Crabas, «cittadina di novemila anime», che vive «di un respiro comune ritmato dal suono delle campane», in cui l’esistenza, continua «con balsamica noncuranza», in equilibrio tra tradizioni millenarie e ansie di modernità, animata da «una fede popolare in cui malocchio e rosario convivevano senza contraddizione». Qui passa le sue estati il bambino Maurizio, ospite dei nonni che lo accolgono con rustica amorevolezza: alla fine della scuola i genitori, operai in città, confondono il loro unico figlio tra i «ragazzini ossuti e bruni con qualcosa di rapace negli occhi», a giocare sulla strada partecipando di «una comunità infantile sbilenca e provvisoria». «È così’ che si diventa davvero fratelli a Crabas»: condividendo avventure nei campi e in battaglie navali sullo stagno, partecipando alle feste parrocchiali e alle sagre, ascoltando le storie di fantasmi raccontate dai vecchi seduti di sera all’esterno delle case. In paese bisogna fare i conti con il “noi”, poiché «tutti parlavano di sé al plurale con la ronzante fluidità di uno sciame d’api intorno all’alveare». Maurizio impara a intessere relazioni con gli altri, soprattutto vivendo in simbiosi con due amici, Giulio e Franco: con loro scopre il significato della solidarietà, della complicità e poi improvvisamente del tradimento e della separazione, per ritrovare infine il gusto della riconciliazione e della fraternità recuperata. Giochi, scontri, monellerie ruotano intorno alla vecchia chiesa di Santa Maria guidata da Monsignor Marras, cui i tre ragazzi incendiano il cortile e una palma centenaria nel tentativo di eliminare col fuoco una colonia di aggressive pantegane. Qui si anima anche il dissidio con il nuovo, evoluto parroco che inaugura una concorrente chiesa di periferia: polemica che sfocia in una dissacrante e divertente processione tra le due comunità che si fronteggiano a colpi di invocazioni, giaculatorie e rosari pochissimo devoti. Il racconto scorre veloce e pulito, senza particolari originalità lessicali o sintattiche: e lo stile appare addirittura qua e là un po’ inamidato, con i dialoghi tra i ragazzi spesso ingessati in un italiano molto letterario e irreale. Soprattutto la trama, piuttosto debole, non riesce a elevare la narrazione al livello di altre precedenti prove della Murgia.

 

«Leggendaria» n. 97/98, gennaio 2013

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NABOKOV

VLADIMIR NABOKOV, L’OCCHIO ‒ ADELPHI, MILANO 2014

Ritenuto uno dei più importanti testi di critica letteraria del ’900, è recentemente uscito da Adelphi in una nuova edizione Lezioni di letteratura, che Vladimir Nabokov aveva dato alle stampe negli Usa a partire dagli anni ’40: sette splendidi ritratti di capolavori delle letterature occidentali, da Mansfield Park di Jane Austen all’Ulisse di Joyce, raccontati esplorando non solo i moduli narrativi, gli artifici stilistici, i tic linguistici dei narratori, ma anche ricostruendo i luoghi interni ed esterni in cui i vari romanzi sono ambientati, con un’appassionata attenzione ai dettagli, e alla magia che si sprigiona dalla descrizione del particolare: sapendo che l’opera d’arte deriva dall’unione di esattezza e incanto,  che collega «la precisione della poesia e l’intuizione della scienza», secondo le parole dello stesso autore.

Nabokov (San Pietroburgo,1899Montreux, 1977) proveniva da un ambiente nobile e benestante, ebbe un’educazione raffinata, oltreché in russo, anche in inglese e francese, e dopo il trasferimento della famiglia in Gran Bretagna per sfuggire alla persecuzione comunista, si laureò a Cambridge in letteratura slava. Spostatosi poi a Berlino (dove suo padre venne assassinato probabilmente da sicari leninisti), quindi a Parigi, si inserì, frequentandola assiduamente, nella cerchia degli emigrati russi. Nel 1940 con la moglie Vera e il figlio Dmitri espatriò negli Usa, ottenendo la cittadinanza americana, e insegnando in diverse università. Visse gli ultimi anni in Svizzera, morendovi nel 1977. La sua ricca produzione letteraria, in russo e in inglese, affrontava temi diversi, dalle problematiche sociali alle ossessioni psichiche, dalla sessualità alla fantascienza, nutrita di stimoli e competenze scientifiche ad alto livello, soprattutto per ciò che riguardava l’entomologia e la teoria scacchistica. La fama internazionale gli arrise soprattutto con la pubblicazione di Lolita ‒ avvenuta negli Usa nel 1955 ‒, che suscitò reazioni sia scandalizzate sia entusiastiche, anche nelle successive trasposizioni cinematografiche (Kubrik 1962, Lyne 1997).

L’occhio, scritto nel 1930 e poi riscritto in inglese nel 1965, è un romanzo breve ambientato tra gli émigrés russi in una vivace Berlino che allora si presentava come un centro culturale di attrazione per l’intera intellettualità europea. Intorno all’enigmatico personaggio principale, Smurov, ruotano infatti una quantità di figure eterogenee, ognuna delle quali conferisce al protagonista doti e caratteristiche particolari, in una singolare proiezione e sovrapposizione di desideri e aspirazioni. Nella prefazione, Nabokov scrive provocatoriamente: «Sono sempre stato indifferente ai problemi sociali, mi sono semplicemente servito del materiale che avevo a portata di mano, così come un commensale spensierato può disegnare a matita un angolo di strada sulla tovaglia o disporre una mollica e due olive in posizione diagrammatica tra menu e saliera». I commentatori più impegnati hanno rimproverato allo scrittore russo «questa indifferenza per la vita di gruppo e per l’irrompere della storia», accusando i suoi libri «di una totale mancanza di rilievo sociale». In realtà, anche in questo «ghirigoro di racconto», come l’autore definisce L’occhio, l’attenzione alla società e ai suoi ruoli codificati esiste, eccome! sebbene l’ottica privilegiata sia quella più strettamente psicologica e della critica di costume, spesso polemica e beffarda.

I personaggi che animano il romanzo hanno origini e caratteri disparati. A partire dal narratore, che nelle pagine iniziali (di sapore intensamente cechoviano) si presenta in prima persona come un giovane precettore vulnerabile e impacciato, che improvvisamente e per taedium vitae decide di spararsi dopo essere stato selvaggiamente picchiato da uno sconosciuto. Il suo risveglio in ospedale rimane fluttuante in uno stato di semi-veglia, sospeso tra morte apparente e sogno, svincolato dal corpo ma in una condizione di lucido sonnambulismo. E in tale stato di coscienza-incoscienza riprende a vivere in una casa abitata o frequentata saltuariamente da molte altre persone. Tra di loro, due raffinate e sensibili sorelle, Evgenija e Vanja, danno vita a un salotto in cui si incontrano banchieri e industriali, militari vanagloriosi e aspiranti intellettuali, una dottoressa pacifista e sfaccendati dal passato misterioso, come appunto il protagonista Smurov. Il quale si dichiara a volte eroe di guerra, altre volte avventuriero, artista, combattente rivoluzionario: timido, aggressivo, bugiardo, imbroglione, cleptomane, seduttore, delicato, eccitabile, a seconda dell’interlocutore con cui si intrattiene in conversazione. Innamorato della gentile Vanja, si trastulla nottetempo con una cameriera dalle abitudini furfantesche e disinibite, nello stesso tempo rivelandosi sessualmente inibito e volubile.

Il narratore, reduce da un maldestro tentativo di suicidio, definisce sé stesso «freddo, insistente, instancabile occhio», che tutto vede e registra, senza sprecarsi in troppi commenti: il titolo russo del racconto di Nabokov suonava infatti Sogljadataj, termine militaresco per indicare “l’osservatore, la spia”. La vicenda si dipana con tranquilla agilità (tra rivelazioni a sorpresa, scambi di persona, riconoscimenti a incastro) fino all’epilogo, imprevedibile e illuminante, che dovrebbe sperabilmente svelare la reale natura di Smurov. Ma «l’inferno di specchi» in cui si riflettono i vari personaggi in realtà non è che la moltiplicazione del medesimo tipo umano, una proiezione dello stesso occhio narrativo, una fantasia post mortem che già negli anni ’30 presupponeva l’esistenza di avatar ingannevoli. Chi è il narratore e chi il narrato? Il suicidio si è realizzato concretamente, oppure è stata una messinscena, l’illusione di un cervello malato? E infine, l’occhio che guarda sarà quello di Smurov, dell’io narrante, o di Nabakov stesso? Come a dire che la vita è sogno, inganno, miraggio.

«C’è un gusto stuzzichevole nel chiedersi, guardando al passato: ‘Che cosa sarebbe successo se…’, sostituendo un avvenimento fortuito a un altro, osservando come, da un attimo grigio e sterile del proprio tran-tran quotidiano, germogli un evento meravigliosamente roseo, che nella realtà non era riuscito a sbocciare. È un mistero, questo ramificarsi della vita: avvertiamo, a ogni istante trascorso, strade che si dividono, un ‘quindi’ e un ‘altrimenti’, con innumerevoli, vertiginosi zigzag che si biforcano e si triforcano sul fondo oscuro del passato». Da un tempo trascorso e perduto lo sguardo contempla un presente fasullo, che si propaga per inerzia al di là dell’esistenza concreta, addirittura pevalicando la morte individuale, su un palcoscenico in cui si muovono inconsistenti e fragili comparse, «farfallio su uno schermo»: l’unica felicità possibile finché si è al mondo, sapendosi destinati a sparire nel nulla, «sta nell’osservare, spiare, sorvegliare, esaminare sé stessi e gli altri, nel non essere che un grande occhio fisso, un po’ vitreo, leggermente iniettato di sangue».

 

© Riproduzione riservata              «Il Pickwick», 12 marzo 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

NACCI

BRUNO NACCI, IL SILENZIO DELL’INFINITO. UN FRAMMENTO DI PASCAL

LA SCUOLA DI PITAGORA, NAPOLI 2015

“Le silence éternel de ces espaces infinis m’effraie”: del frammento n. 187 dei “Pensieri” di Blaise Pascal (compreso nel corpus canonico pascaliano solo nel 1844) si occupano queste documentatissime 37 pagine del francesista Bruno Nacci. Il frammento, che si esprime in una forma letteraria caratterizzata dal ritmo anapestico, quindi con una sua forte e struggente valenza poetica, ha sempre affascinato lettori e studiosi di tutte le epoche e latitudini, proprio per la sua drammatica e angosciosa visione di un universo muto, eterno e infinito, in cui l’uomo può solo riconoscersi nella sua fragile inessenzialità, e nella sua totale solitudine.

Il Professor Nacci inserisce questa fascinazione pascaliana per l’immenso all’interno della riflessione logico-matematica del filosofo francese per l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, con la dichiarata intenzione di abbassare l’orgoglio umano (“domare la sua presunzione”), usando tali temi con fini apologetici, nel tentativo di convertire il non credente. Davanti alla grandiosità del cosmo e alla piccolezza umana, Pascal si perde, esattamente come il “naufrago” Leopardi, e prima di lui i cosmologi greci, Giordano Bruno, Cartesio, Montaigne. “Dio parla nell’universo una lingua raccapricciante, quella inarticolata che getta l’uomo nel terrore mostrandogli la sua insensata marginalità”; ciò che spaventa “non è l’infinitezza dell’universo in quanto tale e la sua insondabilità, ma il fatto che questa inesauribile profondità manchi di parola (e di senso), in un capovolgimento straordinario dell’assunto ottimista di Galileo”. L’uomo inadeguato a giustificare la sua presenza nel mondo, si sente inghiottito “come un punto”: Nacci naviga con assoluta competenza all’interno di tutto il corpus dei Pensieri, sempre cercando analogie tra il frammento esaminato e gli altri. Quello che lo precede, il 186, notissimo, infatti recita: “L’uomo non è che un fuscello, il più debole della natura, ma è un fuscello che pensa”.

© Riproduzione riservata             IBS, 7 agosto 2015

 

RECENSIONI

NACCI

BRUNO NACCI, DESTINI. LA FATALITÀ DEL MALE – ARES, MILANO 2020

Bruno Nacci è un noto e stimato romanziere, saggista, traduttore, consulente editoriale: nel suo ultimo libro pubblicato da Ares (Destini. La fatalità del male) utilizza la forma del racconto per confrontarsi con temi di elevato spessore morale e di spinosa complessità. Indaga infatti l’origine, le motivazioni, le finalità dell’agire criminale attraverso la vita di cinque personaggi appartenuti a diverse epoche storiche, che si sono macchiati di gravi colpe nei confronti dell’umanità, cedendo a impulsi malvagi o al fascino della trasgressione. I destini di Hitler e Pol Pot, del generale vietnamita Nguyen Ngoc Loan, dell’architetto del Führer Albert Speer e di Seneca assurgono nella narrazione di Nacci a emblema del male, di cui non si sottolinea più la banalità ravvisata da Hannah Arendt, quanto invece la fatalità. Fatali infatti risultano le scelte dei protagonisti, che li hanno condotti in un vortice incontrollabile di eventi efferati, con conseguenze devastanti.

I cinque racconti, frutto di immaginazione per quanto riguarda la descrizione accurata ed elegante di ambienti e personaggi, prendono spunto da dati storici concreti. L’episodio iniziale è ambientato a Burke, cittadina della Virginia, dove l’affabile e mite sessantenne asiatico Loan ha aperto da una decina d’anni un ristorante ben frequentato. La fortuita pubblicazione da parte di un quotidiano locale della storica foto che lo ritraeva nella feroce esecuzione di un prigioniero in una strada di Saigon, riporta a galla il suo passato di generale aguzzino al servizio dell’esercito vietnamita. Il reporter americano E.A., divenuto celebre e ricco come autore dell’istantanea premiata con il Pulitzer, pentito della risonanza mondiale avuta dallo scatto, raggiunge Nguyen Ngoc Loan nel suo locale per comunicargli di aver scritto un articolo sul Time nel vano tentativo di riabilitare la sua figura di militare, travolto dal tumulto di una guerra orribile e crudele. Il male, in questo caso, è ascrivibile sia all’assassino, sia all’ucciso che si era macchiato di truci violenze, sia allo spregiudicato giornalista, come pure al disumano teatro del conflitto e alla stessa fotografia, “perché non c’è niente di più ambiguo e più ingiusto che voler fermare il tempo illudendo chi non c’era di poter essere testimone di quanto non esiste più o non è mai esistito”.

Se il primo racconto del libro di Nacci ci riporta a un periodo tragico ancora abbastanza vicino a noi, l’ultimo tratteggia in maniera singolare e inaspettata la figura del filosofo Seneca, rivelandone aspetti caratteriali poco noti e insospettabili. Prima di suicidarsi, nelle ultime lettere in cui prende congedo da amici e nemici, ma soprattutto da se stesso, Seneca confessa i suoi molti peccati di ambizione, orgoglio, astuzia, lussuria, calcolo e codardia, assolvendosi tuttavia per il fatto di aver dovuto occupare una “posizione a un passo dal male assoluto, condividendone ogni responsabilità pur di alleviarne le conseguenze più gravi che ricadono su chi non ha armi o scudi con cui difendersi”. Riconosce di aver preferito “diventare ciò che detestava nel nome del bene comune, invece di detestare ciò che non era diventato”. Si era asservito a Nerone, “un buffone” di cui forse era stato, oltre che maestro e consigliere, addirittura il padre carnale.

Negli altri racconti che esplorano l’abisso dell’animo umano, Bruno Nacci indaga la propensione al male di tre personaggi “dannati”, in un periodo della loro esistenza lontana dall’esercizio effettivo del potere. Così il sanguinario despota cambogiano Pol Pot, durante gli anni universitari alla Sorbona era un promettente calciatore, “ingenuo, cordiale, gentile e simpatico… mite, giocoso e servizievole”, sensibile al fascino della poesia e della musica classica, prima di aderire agli ideali rivoluzionari che l’avrebbero trasformato in un mostro spietato. L’architetto nazista Albert Speer aveva percorso 31.940 chilometri in dodici anni di prigionia, camminando ossessivamente nel cortile del carcere di Spandau e immaginando di viaggiare da un continente all’altro, per distrarsi dal ricordo delle colpe commesse come ministro della guerra. Il più malefico dittatore del XX secolo, Adolf Hitler, da giovane dormiva in un rifugio per senzatetto, dipingendo e vendendo cartoline illustrate per poter assistere agli spettacoli dell’Opera: alla raffinatezza della passione per la lirica affiancava la rozza volgarità dei discorsi antisemiti con cui intratteneva gli ospiti del ricovero.

Vite di chi non ha saputo o voluto sottrarsi al male, che ci ricordano quanto ogni destino umano sia esposto alla tentazione di una scelta scellerata, gravida di effetti penosi e angoscianti per tutti.

 

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/Destini-fatalita-male-Nacci.html          

9 dicembre 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

NANCY

JEAN-LUC NANCY, L’EQUIVALENZA DELLE CATASTROFI – MIMESIS, MILANO 2016

Nel 2011 Jean-Luc Nancy (1940), uno dei più noti filosofi contemporanei, fu invitato dall’Università di Tokyo a tenere una video-conferenza sul tema Fare filosofia dopo Fukushima. Il volumetto recentemente dato alle stampe da Mimesis con il titolo L’equivalenza delle catastrofi riporta le tesi, provocatorie e inquietanti, da lui espresse in quell’occasione, prefate da un impegnativo saggio di Giovanbattista Tusa.

Di cosa parla Nancy in queste pagine? Sostanzialmente della nostra apocalisse prossima ventura, pressoché inevitabile se non si metterà mano a un cambio di rotta radicale nelle abitudini di vita, nella ricerca scientifica e tecnologia, nell’indirizzo economico e nelle scelte politiche dell’intero pianeta. Viviamo in un mondo disorientato e disordinato, assemblato in molteplici e confuse forme prive di una prospettiva comune e condivisa di sviluppo: un mondo capace solo «di moltiplicare l’immondo», in cui qualsiasi emergenza naturale (terremoti, inondazioni, siccità, eruzioni vulcaniche…) diventa catastrofe epocale e senza confini. Così è stato per Fukushima, il cui nome rievoca tragicamente nella rima il primo olocausto nucleare di Hiroshima: lì un sisma e lo tsunami che ne derivò provocarono una catastrofe tecnica, con ripercussioni sociali, ecologiche, sanitarie, economiche, politiche di cui è ancora oggi impossibile tracciare un limite, un perimetro nel tempo e nello spazio. Ciò avviene ogni qual volta nel mondo accada un incidente chimico o nucleare, un’improvvisa e imprevista epidemia, uno sconquasso della natura: tutto ciò produce «un’interconnessione, un intreccio e persino una simbiosi» degli effetti della catastrofe, che si riflette su ogni scambio culturale, politico ed economico globale.

Allora, se Adorno rifletteva sull’impossibilità di scrivere poesia dopo Auschwitz, c’è da chiedersi se sia ancora possibile oggi fare filosofia dopo Fukushima, dopo ogni devastante terremoto, dopo le stragi di guerra e gli atti di terrorismo, dopo i crolli finanziari che coinvolgono le economie nazionali. Nancy accusa l’intero occidente capitalistico di aver creato negli ultimi due secoli una complessità di sistemi interdipendenti, con l’unico fine del profitto economico e dell’accumulazione monetaria, per cui ogni avvenimento locale si ripercuote a livello universale, con conseguenze inarrestabili e imprevedibili. In questo senso, tutte le catastrofi sono equivalenti, e ad esse non si riesce più a opporre margini e a dare risposte in senso filosofico o religioso: l’energia atomica, anche ad uso civile, rimane un pericolo potenziale dagli effetti spaziali e temporali immisurabili, eccedenti le capacità di controllo tecnico e politico di qualsivoglia superpotenza. «La vita nelle sue forme, i suoi rapporti, le sue generazioni e le sue rappresentazioni, la vita umana nella sua capacità di pensare, creare, gioire o di tollerare è precipitata in una condizione peggiore dell’infelicità stessa: uno stordimento, uno smarrimento, un orrore, uno stupore senza appello».

Che fare, quindi? Come salvare noi stessi e le generazioni future da questo orizzonte apocalittico che ci sovrasta, se ogni catastrofe naturale può diventare una catastrofe di civiltà che si propaga illimitatamente? Ripensando tutto, suggerisce Nancy. A cominciare da un’idea utopistica di sviluppo inarrestabile, di crescita economica e tecnica proiettata in un domani sempre più ricco e perfetto. Pensare il presente, lavorare per il presente, migliorare il presente. Abituarci all’idea di rifondare una civiltà che, modificando le esasperazioni economicistiche attuali, aiuti a preparare un domani vivibile e sostenibile per tutti, nel quale «la produzione conti meno dell’attenzione al fatto stesso della nostra esistenza».

 

© Riproduzione riservata     

19 febbraio 2017   www.sololibri.net/equivalenza-catastrofi-Nancy.html

 

 

 

RECENSIONI

NANCY

JEAN-LUC NANCY, COSA RESTA DELLA GRATUITÀ? – MIMESIS, MILANO 2018

Nella sua appassionata introduzione, la filosofa Francesca Nodari, (direttore scientifico della rassegna Filosofi lungo l’Oglio e del festival Fare Memoria), si chiede se sia possibile investigare il concetto di gratuità al di fuori della sfera esclusivamente economicistica, in un’epoca come quella odierna dominata dal consumismo e dall’individualismo. Lo fa commentando un breve ma densissimo saggio di Jean-Luc Nancy (1940), voce prestigiosa dell’intellettualità internazionale, che ha a lungo indagato le problematiche politico-sociali e la funzione della corporalità nelle dinamiche intersoggettive e comunitarie della società moderna. La riflessione di Nancy si intreccia con quella espressa negli anni ’50 da Marcel Mauss nella sua fondamentale ricerca Saggio sul dono, e con le più recenti di Derrida in Donare il tempo, e di altri francesi come Blanchot e Levinas, tutte in qualche modo riferibili alle tesi heideggeriane sull’essere dell’uomo all’interno della comunità, per cui il donare è da considerarsi un’azione di rilievo non solo personale ma soprattutto sociale.

“Cosa resta della gratuità?”, allora, nella società contemporanea dello scambio, in cui ogni individuo è inserito in rapporti di corrispondenza vicendevole con gli altri? Nancy sottolinea «È certo che nessuna forma di scambio può essere gratuita. Le due nozioni si escludono. Lo scambio implica una reciprocità». Se auguriamo “Buongiorno” incontrando qualcuno, ci aspettiamo di essere salutati allo stesso modo; usando il denaro («così desiderabile e così detestabile») ci attendiamo un profitto, sia in un acquisto sia in un investimento. La gratuità, quindi, per l’homo oeconomicus non ha senso: a un dono corrisponde un controdono, e forse solo nella natura esiste un dono senza ritorno (George Bataille diceva che «il sole dà senza mai ricevere»). Anche la generosità più disinteressata attende un beneficio perlomeno simbolico, cioè di essere ricambiata in termini di potere, distinzione, riuscita, identità: in termini di «riconoscimento del debito». Debito che non va circoscritto alla sola sfera finanziaria, ma presuppone comunque il rapporto che intercorre con l’altro in ogni campo dell’esistenza, compreso quello sessuale: un rapporto che è sempre di ostilità o accettazione, di rifiuto o desiderio.

Il do ut des degli antichi rimane pertanto basilare, perché credito e debito creano in primo luogo un legame, un vincolo tra «animali parlanti». Secondo Nancy «noi siamo» nel momento in cui «siamo-con», «co-esistiamo», pretendendo di essere riconosciuti dagli altri, non solo nei termini dell’avere (dell’appropriazione o dello sfruttamento) ma soprattutto in quelli dell’essere. Nessun gesto, in tale prospettiva, può quindi definirsi gratuito: tuttalpiù “grazioso”, nel senso etimologico latino (gratis da gradito, gradevole): «Noi lo diciamo di un gesto elegante, di un fascino, di una vena eroica così come di una tensione trascendente o sublime, di un perdono senza fondamento…». Che, in quanto donato, crea un debito, il quale può essere saldato o non onorato, ammesso o rifiutato, e necessariamente spalanca un baratro tra chi dà e chi riceve, tra chi desidera essere riconosciuto e chi riconosce (o no): «Anche ciò fa parte della strana grazia che ci è fatta di esistere», conclude Jean-Luc Nancy, e di esistere-con.

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/Cosa-resta-della-gratuita-Nancy.html                22 aprile 2018

 

RECENSIONI

NANCY

JEAN-LUC NANCY, M’AMA, NON M’AMA – UTET, TORINO 2009

Va sempre più di moda, anche tra gli editori maggiori, dare alle stampe conferenze o dibattiti tenuti in pubblico da scrittori, filosofi o personaggi di rilievo mediatico. Si pubblicano le trascrizioni della conversazione, praticamente senza nessuna revisione sostanziale da parte dell’autore, in modo che il lettore ricavi dalle pagine un’impressione immediata di spontaneità, di voluta semplificazione dei concetti. Questo ovviamente comporta per le case editrici un impegno meno pressante che la cura attenta richiesta da un saggio scritto, e per chi legge una facilità di apprendimento non sottovalutabile, anche se a scapito della profondità del messaggio.

È il caso di un volume ottimamente confezionato nel 2009 dalla Utet (copertina accattivante, rilegatura solida, caratteri grandi e spaziati, titolo indovinato), che ha conosciuto una decina di ristampe, e che tuttavia poco aggiunge sia al tema trattato, sia alla fama dell’autore, il notissimo filosofo francese Jean-Luc Nancy. M’ama, non m’ama è una breve conferenza tenuta da Nancy davanti a un pubblico di adolescenti dei due sessi, in cui l’autore si prova a circoscrivere il tema vastissimo dell’amore, attraverso definizioni abbastanza generiche sulla realtà di questo sentimento, decantato da ogni letteratura, arte, musica, di cui tutti abbiamo o abbiamo avuto esperienza: dolorosa o felice, faticosa o gratificante. L’autore lo descrivere nel suo nascere, crescere e spesso finire, tra esaltazioni reciproche e delusioni, rischi e contraddizioni, nella fedeltà e nei tradimenti: scoperta dell’intimità di noi stessi e dell’altro, impossibilità di definirne una misura. Ce ne offre una definizione molto toccante, quando afferma che l’amore è “la mia capacità di ricevere, di percepire e di lasciar venire a me una persona in quanto persona, per ciò che è e indipendentemente da ciò che ha”. Aggiungendo che il gesto in cui si esprime nella sua massima gratuità e tenerezza è la carezza, che “ci insegna che quel che conta nell’amore è la presenza dell’altro, il tocco dell’altro, e in certo modo, nient’altro”.

Il volume si conclude con un dibattito, in cui i giovani del pubblico porgono, quasi con pudore, domande incuriosite sulla reciprocità dei sentimenti, sulla difficoltà di esprimerli, sul tradimento, sul narcisismo: ad essere Jean-Luc Nancy, che abitualmente nei suoi saggi utilizza terminologie e concetti di non facile comprensione, risponde con la semplicità di un nonno affettuosamente complice.

 

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https://www.sololibri.net/M-ama-o-non-m-ama-Nancy.html     4 giugno 2017