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RECENSIONI

NIETZSCHE

FRIEDRICH NIETZSCHE, POESIE – FELTRINELLI, MILANO 2019

Le poesie di Friedrich Nietzsche (Röcken, 1844-Weimar, 1900) pubblicate da Feltrinelli in edizione economica nel 2019, con l’approfondito commento della curatrice Susanna Mati, sono presentate in ordine cronologico di composizione, seguendo l’edizione critica di Colli-Montanari del 1967.

Straordinario filosofo che ha rivoluzionato il pensiero politico e morale del secolo scorso, raffinato e originale scrittore, Nietzsche non fu tuttavia un grande poeta: ma ai versi affidò per l’intera esistenza il compito di accompagnare, spesso ironicamente, la propria produzione teorica. Dopo le poesie dell’adolescenza, convenzionali e imitative dei modelli classici tedeschi (ripudiate nella maturità perché giustamente ritenute pateticamente devozionali), il giovane Friedrich si dedicò con spirito più genuino all’aforisma pungente, alla sentenziosità moralistica, per approdare verso i trent’anni a un compiaciuto autobiografismo, attraverso cui amava ritrarre se stesso come der Thor (lo stolto), il pensatore folle, il buffone. In Tra amici sembra insieme sia sbeffeggiare il conformismo di chi lo circonda, sia gloriarsi di una sua maschera provocatoria e sardonica:

“Se ho fatto bene, allora taciamone; / se ho fatto male –, allora ridiamone / e facciamo sempre peggio, fare peggio, rider peggio, / finché nella fossa scenderemo. // Amici! Sì! Così deve andare? / Amen! E arrivederci! //… Onorate in me l’arte dei giullari! / Imparate da questo libro giullaresco / Come la ragione è ricondotta – ‘alla ragione!’”. Dove il libro giullaresco è Umano, troppo umano, del 1878, che riporta questa composizione a conclusione della prima parte.

La prima raccolta autonoma di versi nietzschiani fu Gli Idilli di Messina (1882), i cui modelli formali erano non solo Goethe e Heine, ma soprattutto gli scrittori romantici più popolari, come Brentano e Mörike. Prevalgono, in questa prova d’esordio, bozzetti di figure femminili o fiabesche, immagini campestri, notturni elegiaci, spiritose descrizioni di volatili: temi ricorrenti nei Volkslieder in voga tra le classi più umili.

Al preludio del La Gaia Scienza (1882) appartengono poi un gruppo di rime, intitolate Scherzo, malizia e vendetta, di cui l’amica Lou Andreas-Salomé scrisse: “Su tutti i versi incombe qualcosa che commuove in modo singolare; sono infatti fiori che un solitario sparge sulla propria via crucis per suscitare l’impressione che sia una via della gioia”. Eccone alcuni esempi, da cui si evince l’intento violentemente polemico e derisorio, oltreché autocelebrativo: “Da quando fui stanco di cercare, / imparai a trovare. / Da quando un vento mi fu avverso, navigo con tutti i venti”, “Estraneo al popolo eppure utile ad esso, / seguo la via, ora al sole, ora alle nubi – / e sempre al di sopra di questo popolo”, “Tagliente e mite, rozzo e raffinato, / fidato e singolare, sporco e puro, / un convegno di saggi e di giullari: tutto questo io sono e voglio essere, / colomba e insieme serpente e porco!” Sempre nell’Appendice a La Gaia Scienza si trova poi una delle più ispirate poesie di Nietzsche, scritta tra le amate montagne di Sils-Maria nel 1882, in cui si avvertono accenni alle opere teoretiche successive: “Qui sedevo, attendendo, attendendo, – nulla attendendo, / al di là del bene e del male, ora della luce / godendo, ora dell’ombra, tutto solo gioco, / tutto lago, tutto meriggio, tutto tempo senza meta. // E all’improvviso, amica! L’Uno divenne Due – / – Zarathustra mi passò vicino…”.

Due anni dopo, all’allieva e amante Lou dedicò la canzone da ballo Al Mistral, invito esaltato al superamento di ogni limitante mediocrità: “Chi non sa danzar coi venti, / chi si invischia in mille lacci, / incatenato, vecchio storto, / chi è come gli scemi ipocriti, / i balordi onorati, le oche virtuose, / vada fuori dal nostro paradiso! // Muliniamo la polvere delle strade / sotto i nasi di tutti i malati, / impauriamo la nidiata dei malati! / Liberiamo l’intera costa / dall’ansito dei petti rinsecchiti, / dagli occhi senza coraggio! // Cacciamo i perturba-cielo, / gli oscura-mondo e spingi-nubi, / rendiamo limpido il regno dei cieli! / Soffiamo… oh spirito di tutti gli spiriti / liberi, essere in due con te fa / soffiare la mia gioia come una tempesta – // …  – Affinché eterna sia la memoria / di questa felicità, prendi il suo lascito, / prendi con te e solleva questa corona! / Lanciala in alto, più lontano, più oltre, / assalta la scala del cielo, / e appendila – alle stelle!”

Nei Frammenti postumi del 1884 apparivano temi che saranno tipici di molta letteratura novecentesca: quelli del viandante che vaga senza meta, dell’uomo senza patria orgoglioso di rispondere solo al proprio spirito indipendente, dell’inesistenza di Dio, della follia del poeta unico detentore della verità (“Il poeta, che può mentire / coscientemente, volontariamente, / lui solo può anche dire la verità”).

Così parlò Zarathustra (1883-1885) contiene molte poesie, riprese più volte prima e dopo la sua composizione: è però esso stesso un poema sinfonico, puntellato da liriche con metrica regolare, e sostenuto nella sua interezza da toni declamatori, oracolari. Particolarmente rappresentativa delle tematiche nietzschiane è senz’altro la complessa Il canto della melanconia, severo e compiaciuto autoritratto del filosofo: “Il pretendente della verità? Tu? – così ti beffavano – / No! Solo un poeta! / Una bestia, furba, rapace, strisciante, / che deve mentire, / che deve mentire con scienza e volontà: avido di preda, / mascherato con mille colori, / a se stesso maschera, / a se stesso preda – / questo – il pretendente della verità? / No! Solo giullare! Solo poeta! / Uno che parla con mille colori, / che grida con mille colori da maschere di giullare, / che s’inerpica pe ponti di parole menzognere, / per arcobaleni multicolori, / tra falsi cieli / e false terre, / che vaga in giro e si libra attorno, – / solo giullare! Solo poeta!”. Con sembianze di aquila e pantera, “predatore, strisciante, mentitore”, “bandito / da ogni verità”, Nietzsche offre di sé un’immagine di commediante e falsario, di mago che giostra con concetti e figure, maschera capace di creare solamente illusioni, esiliato dal mondo civile, come poeta e come filosofo.

Anche in Aldilà del bene e del male (1886) sono presenti dei versi: le misogine Sette sentenzine di femmina (“Giovane: una grotta fiorita. Vecchia: un drago ne esce fuori”), il malinconico Da alti monti, in cui si esprime tutta la tristezza di una vita solitaria, e altri aforismi dedicati all’amico-nemico di sempre, Richard Wagner.

Infine, i Ditirambi di Dioniso furono l’ultimo lavoro composto nel 1888, prima del crollo psicofisico che lo condusse all’ottenebramento totale. Parzialmente già pubblicate, nella sezione inedita mostrano i segni di una dissociazione mentale e di una perdita di controllo sul proprio materiale: si tratta di monologhi scritti in uno stile declamatorio, con costruzioni sintattiche oscure, con libere associazioni ritmiche che riprendono argomenti mitologici o misticheggianti.

Susanna Mati nella sua intensa postfazione afferma che le poesie di Friedrich Nietzsche, prive di reale validità artistica benché dotate di notevole arguzia, vanno collocate nel “territorio dell’affetto e dell’effetto”, essendo soprattutto sintomatiche dei moventi psicologici e teorici del filosofo. Svolgono tuttavia molteplici funzioni: di rilassamento della tensione intellettuale, di satira-parodia-imitazione, di caratterizzazione del personaggio Zarathustra, di sfogo emotivo. Lo stesso Nietzsche considerava la poesia arte menzognera e fraudolenta, attribuendole il compito secondario di distrarre, consolare, edificare, senza alcuna pretesa di profezia o rivelazione. I suoi versi vanno quindi letti a integrazione contingente e occasionale da affiancare alla ricerca delle verità ultime.

 

© Riproduzione riservata         «Il Pickwick», 15 febbraio 2022

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

NOOTEBOOM

CEES NOOTEBOOM, LUCE OVUNQUE – EINAUDI, TORINO 2016

Cees Nooteboom (L’Aja, 1933) è uno dei maggiori scrittori contemporanei, autore di numerosi romanzi e libri di viaggio, pubblicati in Italia da Iperborea. Ha scritto anche una decina di volumi di poesia, che ora Einaudi ha scelto di antologizzare “a ritroso”, dall’ultimo uscito nel 2012, al primo del 1964. Leggendo i suoi versi appunto dai più antichi ai più recenti, dalla conclusione del volume all’inizio, ci si avvedrà della progressiva illuminazione che si riflette nei contenuti e nella forma, fino ad approdare al consapevole schiarimento di Luce ovunque.
Le raccolte del primo ventennio esprimono infatti, già dai titoli, una sorta di cautela, quasi un timoroso sospetto nei confronti del mondo circostante, e dei sentimenti che lo animano: “Poesie chiuse”, “Presente, assente”, “Aperto come un guscio, chiuso come una pietra”, “Esca”. Anche le singole composizioni alludono a una recinzione timorosa, a un’asprezza inibita e sofferta che cerca un suo sfogo e uno scampo nell’assoluzione della scrittura:  Golden Fiction, Niente, Ultima lettera, Nessuno, Empty Quarter, Pietre rotolanti.
Le poesie giovanili di Nooteboom sono ancorate a un’idea costante di dissolvenza, dei corpi e della storia, rassegnate all’inevitabile sparire delle persone, e all’inconsistente testimonianza del loro agire e scrivere: «Sono sepolti, i miei amici. / Sotto gli alberi continuano i corpi il loro cammino. // …Perché sono così triste / se altro non aspetto che guardare i fuochi / e la partenza di una nave?», «Gli immortali sono morti e dimenticati, / loro casa è una tomba», «È rimasto tanto poco di te / ora che sei stata bruciata, / un pugno di cenere che sembra cenere / e ancora quest’anno volevi un mio bacio», «Ieri torna a ripetersi. // … No, qui non è mai cambiato nulla», «Niente assume forma. I giornali si sciolgono, / le foto si dissolvono. La pietra è di cera, / la scrittura di cenere, il tempo afferra se stesso / e ripete l’apparizione», «Mi trascino dietro questa vita sconvolta / come un pescatore la sua rete lungo la riva // … Il dolore non mi evita».

Privato e pubblico si equivalgono nel loro vano nullificarsi, nell’imperturbabile sovrapporsi di stagioni e anni, a cui nemmeno gli affetti familiari, o la passione degli amanti, riescono a opporre resistenza. La natura, descritta nella varietà dei paesaggi visitati (Mediterraneo e Oriente, oceani e deserti, metropoli e villaggi sperduti) mantiene nei confronti dell’osservatore un’impenetrabile ostilità: fiumi morti, tempeste di sabbia, montagne sonnacchiose, canneti torturati, agavi pungenti… Anche lo stile, nella sua limpida perentorietà, non manifesta nessuna clemenza, nessuna titubanza espressiva, o ansia di originalità.
Più indulgenti verso se stesse e la vita sono le poesie mature, dagli anni ’90 in poi. C’è in primo luogo la volontà di ancorarsi culturalmente e ideologicamente a un passato riconosciuto come “classico” e fondante, tuttora vitale e formativo. Perciò si susseguono gli omaggi alla scrittura dei grandi, da Omero a Esiodo, da Lucrezio a Virgilio, da Cartesio e Wittgenstein, da Ungaretti a Borges. Persino i titoli delle raccolte si aprono a una più luminosa accettazione del reale (Vista, Così poteva essere, Incontri, Luce ovunque), con un richiamo costante allo sguardo verso l’esterno (una sezione intera è dedicata all’occhio), e alla sospensione positiva dell’attesa (la figura del postino, foriero di novità, emerge qua e là come un alato mercurio contemporaneo). Quindi anche la poesia ritrova un suo ruolo di scoperta e testimonianza, di guida e salvezza: «Di tutto è rimasta poca cosa, / scrittura che si oppone al decadere. // Taci e ascolta l’ultimo nostro marittimo dolore, / con chi posso godere del profumo rimasto? // Di qui tutto si genera: / in un luogo senza importanza // un’ombra / senza un sasso. // Sii, tu».

Si avverte maggiormente (nei versi più franti e complessi, nelle ellissi e nelle metafore più azzardate, negli apporti prosastici…) l’influenza della poesia contemporanea: l’eco della lettura di Celan – per esempio –, o l’approccio ironico totalmente assente nella produzione giovanile.
Il contagio della modernità – anche nei suoi aspetti violenti, alienanti, enigmatici – genera nell’ultimo Nooteboom la disposizione a esporsi in una tensione, magari risentita e amara, verso il magma del reale, dove anche la dimensione metafisica diventa proposta e azzardo: «un portone, sempre chiuso, / ora socchiuso, il pericolo di un’altra / vita, una poesia / di un’esistenza capovolta, / in cui la morte non ha falce», «l’inizio di qualcosa, dialogo / in una lingua ancora inesistente».

Su questa novità, il poeta ha il dovere (eticamente, linguisticamente) di fare ovunque luce.

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/Luce-ovunque-Cees-Nooteboom.html     22 settembre 2016

RECENSIONI

NOOTEBOOM

CEES NOOTEBOOM, L’OCCHIO DEL MONACO – EINAUDI, TORINO 2019

Nel 2016 Einaudi ha pubblicato un’antologia delle raccolte poetiche di Cees Nooteboom, scrittore olandese (L’Aja, 1933) di cui sono stati tradotti in Italia diversi romanzi, racconti e reportage di viaggio. Quest’anno è uscito un suo nuovo volume di versi, L’occhio del monaco, sempre per l’editore torinese, con l’attenta versione di Fulvio Ferrari. Si tratta di 33 composizioni in forma chiusa, di tre quartine caudate, in cui la coda è costituita da un emistichio reso perlopiù in italiano in settenario o in quinario. Secondo la nota conclusiva dell’autore, le poesie – scritte tra il dicembre 2015 e l’aprile 2016 – traggono ispirazione da esperienze oniriche o visionarie vissute nell’isola frisona di Schiermonnikoog, letteralmente “isola del monaci grigi”, nome derivatole dall’abbazia cistercense lì edificata nel medioevo.

Sono versi sospesi in una fredda atmosfera nordica, pregna di silenzio e solitudine, sullo sfondo di bianche sabbie sottili, correnti marine agitate, venti gelidi, pioggia sferzante. Nelle sere illuminate dalla luce del faro, o nelle albe gelide, uniche presenze di vita sono i gabbiani lamentosi, le funeree cornacchie, le martore zampettanti tra le dune.  Altrimenti, sono i fantasmi del passato che tornano ad assediare, benevoli o minacciosi, la memoria del poeta, rinfocolando rimpianti, sensi di colpa, nostalgie: i genitori, i fratelli, la prima donna amata: «Qui incontro chiunque, demoni di altre / vite, animali d’un blasone dimenticato, / donne in forma di leone, unicorni, / maiali in maschera… // Così tutto ritorna», «lo stridio d’un primo desiderio, / disperso e frantumato contro una quantità / di anni, il cardo del non voler dimenticare, / portami con te, portami con te, // ma dove?», «Perché non ci lasciano in pace, i morti?».

I sogni, confusi con la realtà quotidiana di giornate vuote, nel paesaggio di un’isola concreta che diventa archetipica, conducono con sé messaggeri di un’aldilà irraggiungibile: un «dio faticoso» seduto sul bordo del letto, «sei angeli con ali stanche», un oscuro monaco cechoviano, filosofi greci dialoganti di argomenti etici, Paul Valery che interroga Leonardo da Vinci sull’esistenza dell’anima. Quesiti eterni su cui Nooteboom sembra accanirsi, in un’esplorazione assidua del perché dell’esistere, o nell’indagine tormentante sull’essenza della poesia, sul dovere testimoniale della parola («Quando comincia un mottetto, / una poesia, una luce che appare senza fonte? / Chi pensa un primo verso prima di pensare?»). Incubi e fantasie si alternano a riflessioni meditative, stimolate quasi dall’assenza di suoni e dal vuoto di figure umane dell’ambiente, di cui il poeta sa sottolineare con acuta sensibilità il fascino segreto e impalpabile: «Nubi di zinco, casematte d’acqua, grigie, / vaganti alla luce del pomeriggio, rumore d’onde», «non dune, ma rocce, / nere, piante con uncini e denti, capaci di bere la pietra aggrappate alla sabbia», «Vento, la prima luce, / il mattino pieno di chiacchiere di uccelli, cannaiole, / avocette, // svassi, una lingua che non parlo, che ascolto». Proprio alla quiete secolare dell’isola grigia, Cees Nooteboom pare voler chiedere il velo di nebbia clemente «che tutto nasconde», affinché ogni cosa torni «in ordine», «a posto», offrendo finalmente una risposta a chi da tanto tempo la sta cercando.

 

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«Il Pickwick», 3 aprile 2019, «L’Indice dei libri del mese» n.5, maggio 2019

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

NORI

PAOLO NORI, A BOLOGNA LE BICI ERANO COME I CANI – EDICICLO, PORTOGRUARO 2010

Uno “stream of consciousness”padano, anzi emilano, anzi: tutto bolognese. Ambientato in una città che sa di provincia antica, tra gente poco più che proletaria, e dove biciclette e treni sono più comuni delle auto di lusso. Dove stravince in umanità la periferia fatta di condomini modesti, con appartamenti acquistati col mutuo, e il genere umano è popolato di figure stralunate e ironiche, unite tra loro da una solidarietà pietosa e partecipe. Chi scrive in prima persona sembra fare il verso alla figura dell’intellettuale in voga oggi, diviso tra letture e conferenze in varie città, una vita solitaria da separato, con fidanzate che nemmeno sanno di esserlo, e una bambina piccola e graffiante (“la Battaglia”) che vede il padre due volte la settimana e lo segue in bici, regalandogli le sue perle di saggezza e ingenuità sarcastica. A questo stranito protagonista, che ricorda alcune figure felliniane, un vicino di casa consegna prima di morire (suicida? ammazzato? di dolore?) due cassette registrate, da sbobinare per farne un libro. Questo anziano, ex meccanico di biciclette, chiamato Benito, ha dei tic, delle nevrosi operaie molto particolari. Per esempio, la fissazione che i giapponesi lo odino senza motivo, per cui in tutti coloro che gli sono ostili vede dei nipponici. Benito nella registrazione rivela al figlio professore, che vive in un’altra città e lo trascura, di non essere il suo vero padre: e gli racconta con amaro umorismo la sua vita di pover’uomo, costretto in un matrimonio banale con la Germana, e poi minimi e colpevolizzanti tradimenti, divertentissime visite obbligate a noiosi e ridicoli parenti milanesi, amici del bar equivoci e ingannatori, la morte misteriosa della moglie censurata nella memoria per anni. I racconti del meccanico e quello dello scrittore si intrecciano confondendosi e riecheggiandosi. Ne risulta un libro spiritoso e malinconico insieme, fatto di riuscitissimi bozzetti e figure a tutto tondo, vivo di una sapienza disillusa, e pensierosa.

 

IBS, 16 dicembre 2010

RECENSIONI

NORI

PAOLO NORI, LA MERAVIGLIOSA UTILITA’ DEL FILO A PIOMBO – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2011

Paolo Nori scrive discorsi: non solo, ovviamente. Anche romanzi, articoli, interventi radiofonici. E traduce dal russo. Ma soprattutto scrive discorsi, nel senso che scrive nello stesso modo in cui parla, con gli intercalari, le ripetizioni, le domande retoriche, i vezzi (a volte anche troppo esibiti) che si usano nel parlato quotidiano: colloquiale, dimesso, semplice: “L’aria, dentro la macchina,diventa più aria,non so se mi spiego,come se avesse più senso, non so se mi spiego.”, “Non so,per esempio,faccio un altro esempio.Non so per esempio quest’estate..”, “Tre multe, be’queste cose qua, adesso, io penso di no, ma lì è una questione, è difficile,son punti di vista..”.

In genere i suoi racconti un po’ stralunati, surreali, ma sempre divertenti, li legge in convegni, a teatro, all’inaugurazione di mostre: come nel caso di questo volume, che raccoglie sei brani tutti “recitati” davanti a un pubblico, intrattenuto su argomenti e temi seriosi con argomenti e temi che hanno la levità e il gusto del vero umorismo. Credo che non si possa definire Nori un autore ironico, tantomeno sarcastico: non si sente nella sua scrittura alcun aculeus mordace, alcuna risata sardonica. Ma amarezza disincantata sì, e quasi un candore stupito di fronte alla insulsaggine delle mode, al falso progresso della tecnica, ai paradossi della cultura post-moderna. Con un richiamo accorato al buon senso, a un criticismo onesto, alla saggezza della quotidianità. Insieme all’entusiasmo dichiarato per la poesia, e per una narrativa che non si riduca a divertissment da salotto. Insomma, non ci si può spacciare per conoscitori di Wittgenstein solo citando un abusato e alquanto banale aforisma, nè si può dissertare di musica contemporanea fingendosi assorti ammiratori di 4’33” di Cage… Leggendo Nori si ride, e si pensa. Non è poco.

 

IBS, 1 aprile 2011

RECENSIONI

NORI

PAOLO NORI, VI AVVERTO CHE VIVO PER L’ULTIMA VOLTA – MONDADORI, MILANO 2023

 Paolo Nori (Parma 1963), romanziere, traduttore, saggista, docente universitario, si occupa soprattutto di letteratura russa, e il suo ultimo lavoro è dedicato alla poetessa (anzi, poeta, come giustamente pretendeva di essere definita) Anna Achmatova. Il libro, Vi avverto che vivo per l’ultima volta, ha come sottotitolo Noi e Anna Achmatova, esplicita indicazione di come vada letto, sottintendendo un’ammirata complicità con la vita e l’arte della protagonista. Ma non solo. Perché la tragica vicenda esistenziale di lei, perseguitata insieme alla famiglia dal potere bolscevico e impedita nella libera manifestazione del pensiero e degli scritti, riverbera riflessi anche sui tragici avvenimenti contemporanei di oppressione antidemocratica, intolleranza, aggressività ed egoismo.

Chi era, dunque, Anna Achmatova? Nata nei pressi di Odessa nel 1889 (quindi ucraina?), morì a Mosca nel 1966, essendo vissuta perlopiù a Leningrado, oggi Pietroburgo, o nel vicino centro di Carskoe Selo (perciò russa?), tornata a Kiev dopo il divorzio dei genitori (di nuovo ucraina, come Gogol’, Bulgakov e Isaak Babel’?), si sposò una prima volta con il poeta russo Nikola Gumilëv, passando però lunghe vacanze in Crimea. Paolo Nori sottolinea questa sua duplice ma univoca nazionalità, oggi messa dolorosamente in discussione: Anna Achmatova era poeta di lingua russa, e la sua scrittura ha superato confini, burocrazie, eserciti, alzandosi a livelli di tale eccezionale sensibilità e maestria formale da non poter venire ingabbiata in nessuna coercitiva definizione di genere o provenienza.

Il suo vero cognome era Gorenko, ma il padre – ingegnere navale ucraino e funzionario pubblico di origine nobile –, l’aveva diffidata dall’usarlo per le sue poesie, attività secondo lui decisamente “discutibile”. Scelse pertanto di firmarsi con il cognome della nonna materna, discendente da una principessa tartara erede di Čingis kan. Selvaggia da bambina, “strega” da sposa secondo la definizione del marito, Anna Achmatova era una donna bellissima, intensa, severa. Sembrava imperiosamente alta pur essendo di statura media, elegante anche se vestita in modo dimesso, aveva una voce roca eppure quando parlava calava intorno a lei un intimorito silenzio. In alcune situazioni si dimostrava arrogante, in altre addirittura spietata. Di sé sembra ripetesse: “da sempre vivo così, sconsolata”.

Del suo fascino catalizzante furono testimoni amici, intellettuali, poeti come Osip Mandel’štam e il premio Nobel Iosif Brodskij. Tre volte condannata dal Comitato centrale del Partito comunista sovietico, le uccisero due mariti e le arrestarono il figlio: veniva spiata, pedinata, censurata; per diffondere i suoi versi li recitava o dettava alle amiche, che li imparavano a memoria e li divulgavano clandestinamente. Il funzionario di partito Ždanov la fece escludere nel 1946 dall’Unione degli scrittori con l’accusa di falsità, decadenza, elitarismo, disimpegno politico: “Mezza suora, mezza prostituta, o meglio, sia suora che prostituta, mischia il sesso alle preghiere; questa è l’Achmatova, con la sua piccola, misera vita privata, le sue emozioni insignificanti e il suo erotismo mistico-religioso. La poesia dell’Achmatova è lontanissima dal popolo”.

Paolo Nori ripercorre gli snodi fondamentali dell’esistenza di lei inframezzandoli non solo con commenti e riflessioni personali, ma soprattutto con estese digressioni autobiografiche e memorie private: ci racconta della nonna Carmela (“a casa sua c’era una miseria che quando son diventati poveri hanno fatto una festa”), delle lezioni universitarie e dei frequenti viaggi in Russia sulle tracce di scrittori amati, di una lunga degenza ospedaliera nel reparto Grandi ustionati, di altre totalizzanti passioni (il tifo per la squadra del Parma, l’adorazione per il poeta futurista Chlebnikov, l’aria respirata nelle biblioteche, moglie e figlia soprannominate spiritosamente Togliatti e Battaglia, i mistici sufi, la carta oro di Trenitalia…). Si sofferma in particolare sulla propria angosciata reazione allo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, con gli incredibili e farseschi episodi di censura verso la cultura e l’arte russa che ne sono seguiti: l’espulsione di sportivi e artisti da manifestazioni come la Champions League e la finale dell’Eurovision, il divieto di eseguire sinfonie e balletti di Čajkovskij, la rottura di contratti con musicisti di fama internazionale. In quel periodo uno stupido affronto diretto alla sua attività di docente lo aveva ferito e indignato, quando l’Università Bicocca di Milano arrivò ad annullargli seminario su Dostoevskij   programmato da tempo, tra le proteste di molti intellettuali italiani ed europei.

Con lo stile che gli è proprio, colloquiale e travolgente, scandito da frasi brevi, semplicissime, spesso ripetitive, intessuto di intercalari domestici in cui pare addirittura di ascoltare la cadenza dialettale emiliana, Paolo Nori ci coinvolge in un susseguirsi incalzante di episodi della propria vita, ironici e autoironici, per condurci empaticamente a riflettere su questioni di rilievo etico e politico, o ad approfondire alcuni tra i tanti temi e personaggi citati. Quando leggo i suoi libri, mi capita di scoppiare a ridere improvvisamente, poi di commuovermi, poi ancora di irritarmi: credo di dovergliene essere grata, perché mi evita la noia e il disappunto procuratomi da tanta narrativa italiana contemporanea.

Di Anna Achmatova qui scrive di sguincio, in rapporto a tutto ciò che le girava intorno, accennando a riunioni di scrittori, cabaret, riviste letterarie, poetesse rivali, Blok, Mandel’štam, Majakovskij, Cvetaeva, Bulgakov, Modigliani, mariti e amanti. Gli splendidi versi della poeta, pubblicati a partire dal 1912 con la prima raccolta, Sera, vengono citati con parsimonia, e soprattutto non commentati criticamente. Lontano da qualsiasi pretesa di interpretazione accademica, l’autore ne trascrive alcuni giusto per chiosare diverse sensazioni o circostanze biografiche della donna: il rapporto difficile con il figlio, le separazioni sentimentali, la nostalgia per l’illustre passato della Russia, la coraggiosa resistenza all’ottusità del potere. “Io sono un appassionato, non un esperto”, scrive per giustificare il proprio scarso interesse letterario verso ogni valutazione formale.

C’è una poesia dell’Achmatova che mi sembra bellissima, e purtroppo non è compresa in questo volume, Il canto dell’ultimo incontro, in cui lei per indicare il suo turbamento mentre si reca nella casa dell’amato prima di lasciarlo, non accenna a tristezza o paura, ma usa pochi indicatori, a metà tra metafore e correlativi oggettivi: il guanto destro infilato per sbaglio sulla mano sinistra, i gradini che sembrano tanti ma sono solo tre, la luce della candele nella casa buia che ardono di un lume “indifferente e giallo”. Non amava indulgere a introspezioni retoriche, ma era straordinaria nel rendere le emozioni attraverso l’uso di immagini puntuali e insolite.

Troppo poche le poesie presenti in un volume che voleva essere un omaggio alla più grande poeta russa del ’900. Ma almeno di un altro addio in versi Paolo Nori offre opportuna testimonianza, ed è raccontato in Ultimo brindisi. Mi sembra giusto riportarlo, come un regalo fatto a noi lettori, che “ci facciamo invadere dalla bestialità. Che non ci rendiamo conto di quello che stiamo diventando e che, forse, siamo già diventati”:

“Bevo a una casa distrutta, / alla mia vita sciagurata, / a solitudini vissute in due / e bevo anche a te: / all’inganno di labbra che tradirono, / al morto gelo dei tuoi occhi, / a un mondo crudele e rozzo, / a un Dio che non ci ha salvato”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 3 aprile 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

NOTA

DAVIDE NOTA, GLI ORFANI – OEDIPUS, SALERNO 2016

 

Davide Nota (1981), poeta, critico letterario ed editore marchigiano (suo il marchio Sigismundus di Ascoli Piceno), ha pubblicato presso Oèdipus una raccolta di otto racconti intitolata Gli orfani. Eterogenei per argomento e ambientazione, sono tuttavia accomunati da una ricerca formale assidua ed esibita, obbediente a stilemi ripetuti: l’aggettivazione ricercata e originale, le metafore spiazzanti, una sentenziosità quasi altera.

Solo due racconti rispondono a un certo realismo autobiografico: Il ritorno e Dana. Nel primo, l’autore narra di un suo precario lavoro presso un caseificio nella periferia romana, che gli permetteva – dopo la laurea – di mantenersi decorosamente, dedicandosi nel tempo libero alla passione per la scrittura. Durante questo periodo fu colto da un’illuminazione esistenziale, un’imprevedibile epifania che lo spinse a abbandonare la vecchia “pelle di giovane materialista”, e tutti i suoi precedenti “me”, per esplorare il mistero dell’essere, in

una sorta di cristianesimo anarchico e relativistico… in una strana eccitazione spettrale, a tu per tu nel vuoto con il Dio assente.

Il secondo è una rivisitazione immaginosa degli anni adolescenziali, con le sue musiche, i suoi film e le prime esperienze sessuali, sempre alla ricerca tormentata della propria identità, e nel rifiuto quasi rabbioso di ogni conformismo sociale:

Chi ero io? E loro? Questi pronomi non mi dicevano più niente… Ma aveva ancora senso esprimersi in prima persona singolare? Avevo desideri che non fossero i desideri di tutti? Idee e pensieri che non fossero il risultato di un’intersezione di notifiche e dati? Ganci virtuali avevano per sempre dilaniato la mia unità in brandelli di reazioni automatiche. Sognavo? Credevo ancora in Dio? Avevo una patria?

Il percorso intellettuale intrapreso dall’adolescente si radicalizza in un progressivo disconoscimento e ricusazione della realtà, sempre ammorbante, meschina, corrotta: «La realtà produce ideologie e abbagli; …invidiosi di noi stessi, a noi stessi ostili, ci escludeva dalla realtà la stessa forza con cui ne eravamo risucchiati e sputati mezzo ammattiti da aspettative aberranti…»

Così, «in preda al rifiuto degli eventi terrestri», Davide Nota si immerge in una dimensione surreale, in un mondo fantastico, fluttuante tra epoche lontane: dall’orfismo paganeggiante al misticismo della prima cristianità, dal medioevo dei templari agli spazi siderali di un futuro perso nei silenzi interplanetari. L’immersione panica nella natura predilige poi i boschi, le acque, la nebbia, gli gnomi e i fauni, in un caleidoscopico olismo sapienziale che si espande dall’oriente alle saghe nordiche, da Nietzsche a Star Wars al Signore degli Anelli, in cui tutto è animato e in trasformazione, contemporaneamente nel tempo e fuori dal tempo.

Nella volontà perseguita di disubbidire «all’evidenza presente», anche l’adesione alla fisicità si scinde tra un’aspirazione alla purezza infantile e il degrado di accoppiamenti brutali, e ogni pensiero assume la visionarietà profetica della coscienza immersa nell’energia cosmica:

Quello che noi chiamiamo cielo è forse un precipizio verso l’interno del corpo astrale. Alziamo lo sguardo, guardiamo le stelle ed eccola lì la terra cava e i suoi gironi infernali. Noi abitiamo sull’orlo dell’abisso. Salpare è cadere. La gravità è l’abbraccio di una madre che non vuole perderci. Ma noi aneliamo alla caduta più di ogni altra cosa. Per questo la chiamiamo il volo.

All’originalità dello stile e dei contenuti di questa raccolta talvolta nuoce l’insistenza di un certo didascalismo filosofico, e di un sermoneggiare gnomico che può risultare eccessivo agli occhi del lettore.

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«sololibri», 3 maggio 2016

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RECENSIONI

NOTHOMB

AMÉLIE NOTHOMB, UCCIDERE IL PADRE – VOLAND,  ROMA 2012

Una delle autrici più lette al mondo, Amélie Nothomb: e più premiate, più amate dal pubblico femminile, più produttive ed attente alle richieste del mercato librario. In questo che è il suo ventesimo (20!) romanzo sembra dare il meglio di sé, quanto a banalità di scrittura, superficialità di contenuto, mediocrità di invenzione narrativa. Orecchiando qualche tesi di psicanalisi spicciola, da rivista in lettura nei negozi di parrucchiere, imbastisce una trama facile facile, su un Edipo facile facile e nemmeno troppo motivato. E tenta vanamente di irrobustirla con sentenze pseudofilosofiche, addirittura risibili nella loro grossolanità. Gli ingredienti ci sono un po’ tutti: magia, tradimento, famiglie disturbate, droga, sesso, soldi, ma raccontati con una sciatteria e una mancanza di gusto francamente irritanti. Le descrizioni dei personaggi e dei paesaggi ricalcano la retorica più abusata: «La collera di Norman esaltava la sua gioia: dimostrava che si era comportato da uomo. Ne sentiva la consapevolezza in tutto il corpo. Un’esultanza virile gli circolava nel sangue…; scoppiò a ridere, una risata di una freschezza inimmaginabile; Una luna piena circondata da una nuvola della dimensione di un kleenex diffondeva una luce da direttore della fotografia di enorme talento; Andò a prendere la frustrazione accumulata nei muscoli dell’amante e tramutò quel piombo in oro…; La notte era al suo culmine. Ogni persona che incrociavano era uno spettacolo; La violenza di quella menade strappò all’assemblea borborigmi di godimento; Una sinuosità si impossessò del suo corpo flessibile e non lo abbandonò più».

I dialoghi sono rabberciati e fittizi («-Sei un bugiardo. Non ti credo.- -Lo giuro su quello che ho di più sacro.- – E cos’hai di sacro, tu?- – Te!-») e insomma tutto il libro sembra costruito per prendere in giro il lettore e la letteratura. C’è da chiedersi se è questa la ragione del suo successo.

 

«Leggere Donna» n.156, luglio 2012

RECENSIONI

NOVE

ALDO NOVE, SI PARLA TROPPO DI SILENZIO – SKIRA, MILANO 2014

Due coniugi ultrasettantenni viaggiano su una Cobra Roush marrone verso Paradise, in California: lui è il famoso pittore Edward Hopper, lei sua moglie Jo, pure pittrice, ma soprattutto musa ispiratrice, modella, colonna portante e insieme condanna del marito. Negli stessi giorni dello stesso anno e negli stessi paraggi, un ventenne scapestrato in camicia di flanella a scacchi, si dedica al suo passatempo preferito: la pesca nel torrente Butte Creek. Si tratta del futuro scrittore e poeta Raymond Carver. I particolari biografici del terzetto sono veritieri, documentati da lettere, foto, diari, testimonianze registrate. Inventato e fantasticamente ricostruito è invece il loro incontro, che Aldo Nove ambienta nel 1958. I coniugi Hopper, sposati dal 1924, sono inseparabili pur nella loro litigiosa quotidianità: lui burbero, solitario, sessualmente esuberante, «esperto di silenzi»; lei rigida e un po’ frigida, loquacissima, intellettuale, convinta del suo ruolo insostituibile nella vita del marito. Diversi, ma interdipendenti. Nove ne racconta a grandi linee la vita coniugale: le difficoltà economiche dei primi anni, i viaggi in Europa e il soggiorno a Parigi, il graduale ma incontestabile successo artistico, la fama, l’abitazione elegante di New York e la casa sul mare a Cape Cod. Alla loro esistenza fa da contraltare la breve e inquieta vicenda biografica del giovane Carver, nato nel 1938 in una cittadina dell’ Oregon, da una famiglia operaia: il trasferimento in California, i lavoretti precari e malpagati, un matrimonio e una paternità precoci, l’emigrazione in Messico, l’alcol e i primi esordi come narratore. Alcuni episodi descritti nei suoi racconti e nelle poesie vengono riutilizzati nei dialoghi che il personaggio-Raymond imbastisce con il personaggio-Hopper, in un pub o sulla riva del torrente. Nove li rimodula, con qualche pesantezza stilistica, con un certo didascalismo (come nello scambio di opinioni su cosa debba intendersi per realismo: «Quello stare impossibile, in sospeso, come fermando la realtà, m’interessa. E l’arte, qualunque forma d’arte, ricerca proprio questo»), e forse anche con una dose di ingenua e retorica superficialità:(«- Ti racconto una storia –  – L’ascolto con piacere – »; «Le cose hanno una forza immensa…C’è molto sentimentalismo nelle cose, ma non ha bisogno di essere detto, le cose lo hanno in sé”»), che in un autore dissacrante come Aldo Nove lasciano un po’ interdetti. Rimangono nel volume, a illuminare il lettore, le riproduzioni di alcuni bellissimi dipinti di Edward Hopper, a ricordarci quanto il silenzio di luoghi e figure possa avere un suo fascino malinconico e seduttivo.

 

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www.sololibri.net/Si-parla-troppo-di-silenzio-Aldo.html      28 ottobre 2015

RECENSIONI

NOVE

ALDO NOVE, MI CHIAMO… – SKIRA, MILANO 2013

Aldo Nove simula in questo elegante volumetto edito da Skira una sorta di diario tenuto in prima persona dalla cantante Mia Martini: nome impronunciabile a detta dei più, il suo, perché considerato di malaugurio. Quindi “mi chiamo…” diventa sospensione, censura, silenzio: e poi isolamento, condanna, persecuzione. In realtà Domenica Bertè fu convinta a cambiare nome per ragioni discografiche; ma le motivazioni del crudele mercato della canzone non riuscirono a modificare il suo carattere appassionato e fiero, ad addomesticarlo negli usuali compromessi commerciali, nei finti rapporti interpersonali di scambio interessato di favori. Le pagine di Nove adottano uno stile sincopato, smozzicato, a metà tra la prosa adolescenziale e la versificazione più elementare, nel tentativo di riprodurre la sofferenza psichica di un’anima scalfibile, ingenua e tormentata che non ha saputo adeguarsi alle esigenze produttive del mondo dello spettacolo. E così viene ripercorsa tutta la tragica vicenda umana di Mia, dalla nascita a Bagnara Calabra (secondogenita di quattro sorelle), al trasferimento nelle Marche, alla separazione dei genitori, ai suoi infantili tentativi di fuga da casa. E poi i primi passi nel mondo musicale, la droga e un’esperienza di carcere, la presunta rivalità con altre cantanti e con la sorella Loredana Bertè, l’invidia malevola dei colleghi, le prime dicerie sulla sua “stregoneria” e la sua fama di iettatrice, gli scarsi amori e un aborto, i successi e i fallimenti, la solitudine e l’idiota censura della televisione di stato. Ma questa sofferenza indicibile di una grande artista viene resa da Aldo Nove con una narrazione che ha qualcosa di compiaciuto e insieme irritante, con imperdonabili cadute nella retorica e nel cattivo gusto, come in questi simil-versi: “Ti prego, cuore. / Smettila. / Di battere. / Così forte”, o nelle battute conclusive: “Non bastano le lacrime. / Non ho più occhi per piangerle. / Non voglio più vedere. / Più. // Adesso non c’è più poesia.

IBS, 21 febbraio 2013