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RECENSIONI

NERI

GIAMPIERO NERI, VIA PROVINCIALE – GARZANTI, MILANO 2017

Giampiero Neri (Erba, 1927) è arrivato a pubblicare il primo libro di poesia piuttosto tardi, nel 1976, dopo essersi dedicato a studi scientifici e filosofici, e al suo lavoro di bancario, esercitato per tutta la vita. I critici gli hanno generalmente riconosciuto una tenace professionalità nell’accostarsi alla parola scritta, fatta di impegno nell’osservazione della realtà e di fedeltà alla sua memoria personale: caratteristiche che si sono coerentemente espresse nella ricerca puntuale di uno stile colloquiale, quasi prosastico, e nella discrezione con cui ha interpretato il suo ruolo di intellettuale.

Oggi, novantenne, firma per Garzanti un volume di versi, Via Provinciale: nome della strada che da Erba conduce verso Como, attraversando i luoghi d’infanzia, abbandonati dopo l’assassinio politico del padre nel 1943. Quest’ultima opera di Neri è contrassegnata, anche graficamente, dalla scelta formale di esibire prose poetiche occupanti orizzontalmente l’intera riga, senza spaziature bianche, con scarsi a capo indicanti le troncature. Raccontini, illuminazioni, brani narrativi, squarci diaristici che mantengono però della poesia il ritmo e una sorta di musicalità interna, determinata dall’essenzialità espressiva del contenuto, dalla sua sobria necessità. Sull’esempio di Francis Ponge o di Dino Campana (ai cui Canti Orfici rende così omaggio: «uno dei grandi libri di poesia del Novecento italiano, testimonianza e riscatto della povera vita del suo autore»), Giampiero Neri nega qualsiasi aura lirica dell’espressione poetica, rivendicandone invece una scarna drammaticità di valore etico.

I temi di questa raccolta rimangono quelli tipici della sua scrittura precedente: la storia collettiva, raccontata nella sua inescusabile violenza, soprattutto relativa agli anni della seconda guerra mondiale che più hanno segnato la vita del poeta: qui però la sofferenza sociale si parcellizza nei ricordi infantili e giovanili del poeta (i vicini che si mangiavano il gatto, gli insegnanti con la divisa fascista, i compagni di giochi inventati con niente, le prime rivendicazioni salariali).La crudele indifferenza delle azioni umane trova un suo tragico riflesso anche nella durezza della natura, mai descritta idilliacamente, ma sempre con disincantato realismo, pur scevro da ogni volontà di condanna o di giudizio. Neri elenca animali domestici e selvatici che hanno marginalmente o profondamente segnato il suo immaginario: cani, vespe, caprioli, cavallette, bisce, aquile, leopardi, maiali.

Con la stessa leggera nonchalance cita i nomi di letterati classici e moderni che hanno nutrito la sua scrittura: da Ennio a Cicerone, da Collodi a Fenoglio, da Tolstoj a Grossman. O racconta episodi minimi della sua vita lavorativa in banca, di colloqui con conoscenti e conferenze cui ha assistito, di riflessioni sull’architettura e la toponomastica della sua città. E questi bozzetti tracciati con pennellate impressionistiche si concludono per lo più in sordina, con qualcuno o qualcosa che sparisce, si eclissa, rivelando amaramente la sua amara inconsistenza, non importanza, inadeguatezza. Tale quasi anglosassone understatement di Giampiero Neri si esemplifica chiaramente in alcune sentenze dal sapore proverbiale, di antica sapienza orientale: «Si dice di un maestro zen che, prossimo a morire, aveva invitato i discepoli nel suo giardino e rivolto a loro, sentendo gli uccelli cinguettare sui rami, aveva detto: “È tutto questo e nient’altro”».

Possiamo definire poesie i piccoli brani narrativi di Via Principale? Secondo me, alcuni di essi potrebbero venire letti come fossero versi, decasillabi o settenari, sullo stile discorsivo di un Giudici e di un Raboni. Per esempio: «Ben altro teneva l’attualità, / la guerra stava volgendo al termine». E ancora: «”Ci sarà il tempo” mi diceva il custode / “per capire anche gli altri”». Perché in fondo, cos’è la poesia? «La poesia, come il soffio del vento, va dove vuole e la si può trovare dove capita, anche in una stretta di mano, come è stato detto».

 

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www.sololibri.net/Via-provinciale-Giampiero-Neri.html;  15 marzo 2017

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

NESSI

ALBERTO NESSI, TUTTI DISCENDONO – CASAGRANDE, BELLINZONA 1989

Alberto Nessi è poeta e scrittore ticinese tra i più noti per le frequenti collaborazioni a giornali trans- e cisalpini (dal Tages Anzeiger, al Quotidiano, a Cooperazione) e per il suo lavoro assiduo, attento, di sensibile cronista di un’età e di una regione in stridente conflitto tra loro e in se stesse. Zona di confine quella che fa da sfondo all’esistenza di Nessi (insegnante alle scuole medie in congedo) e nutre la sua scrittura: zona circoscritta – Chiasso, Mendrisio, Coldrerio – ma nello stesso tempo proiettata al di là di concreti e invisibili dogane dell’anima, scissa tra immobilismi e frenetiche rincorse al futuro. Luogo dove non è facile vivere, dove e di cui deve essere difficile scrivere. Alberto Nessi ne scrive con amore, con la dedizione che si offre a una causa che si teme persa ma si vuole fortemente salvare; ne ha scritto anche nell’ultimo volume pubblicato da Casagrande, Tutti discendono. Sono dieci storie corali, narrate dall’autore per gente che non scrive e che non legge, per i più che vivono “in discesa”, senza accorgersene e senza lasciare traccia di sé, se non nella memoria locale di chi li ha conosciuti. Sono storie scritte forse anche per esorcizzare la morte, «il moscone nero che un giorno discende sui nostri volti». Nessi è nato nel ’40, all’inizio della guerra: «Venni al mondo a fatica: sfido io, con quel testone! Appena mi vide mia madre si spaventò: – Oh Madonna, c’è qua il Lisandro! – Il Lisandro era un macrocefalo che abitava vicino a casa nostra e diceva sempre “universo pecora” e passava ogni giorno con il secchiello del latte appeso al mignolo. Mia madre pensava che i nati in tempo di guerra fossero difettati».

Di questa atmosfera bellica è impregnato il primo racconto, Vampate, che si apre con un bombardamento avvenuto per sbaglio su Chiasso e Balerna, mentre i cittadini si sbracciano per far capire ai piloti dei caccia che «alt, qui comincia la Svizzera». La storia non si ferma ai confini, e anche il Ticino più limitrofo all’Italia è coinvolto nella diaspora del fascismo, e poi nelle vendette dopo la liberazione… «Qui da noi arriva solo l’eco della storia, qualche bossolo disperso, e per vedere qualcosa bisogna aguzzare la vista». A Chiasso la storia non si fa, la si subisce: la subisce la gente semplice che non sa darsi una ragione di tanti incomprensibili sconvolgimenti. Il padre, il nonno, lo zio anarchico dell’autore sono figure a tutto tondo, caratteri forti, meno banali delle figurine patetiche e conformiste in cui ci siamo trasformati tutti, oggi. Anche i matti del paese hanno una loro individualità, i balordi fanno parte del paesaggio, sono membri del coro, trattati con bonomia e non rinchiusi in funzionalissimi e tristissimi istituti («Il Cecchino raccoglieva le belle cacche rotonde dei cavalli per le strade…Il Tano ha una malattia: quando vede le donne in costume da bagno si mette a urlare…»). A rifletterci, c’è un evidente restringimento dell’orizzonte sociale cui corrisponde una fittizia dilatazione dell’individualità man mano che si passa dagli anni della guerra ad oggi: alla coralità di allora si oppone l’isolamento attuale, al pubblico il privato, alla solidarietà l’egoismo, alla storia la psicanalisi. E questo percorso è ben rappresentato dal susseguirsi dei racconti, che si focalizzano sempre più sulla figura dell’individuo-autore. Le tragedie di una cittadina sono sostituite dai turbamenti di un adolescente e dei suoi pochi amici; lo sfasamento materiale, concreto della vita tra due dogane («donne spiavano i burlandi e si nascondevano dadi nel reggipetto per passare la dogana»; «mio padre…la sera nascondeva venti pacchetti di sigarette nelle calze agiose che arrivavano al ginocchio e passava la dogana col Virginia tra le labbra») diventa malessere individuale, conflitto morale («Essere ombre lungo piste prestabilite o cercare un punto di fuga verso territori inesplorati? Essere guardia o contrabbandiere?»). Il ragazzo si trasforma in un uomo in crisi, non più in sintonia con il mondo che lo circonda: «Così imparai anch’io a vivere un po’ in disparte, come un insetto che attraversi un vecchio mobile nelle crepe del legno e arresti il suo zampettare, in ascolto, al primo colpo sull’impiantito». E ancora: «Sono tornato con il treno delle dieci. Alla stazione dove tutti discendono mi sono fermato un momento sotto l’affresco dell’emigrante. Stare nascosto, mi sono detto. Spiare la vita degli altri. Cercare le tracce del Ragazzo nella Piccola Città. Vivere negli interstizi. Dire di no. Squarciare il nebbione dietro il quale si nascondono i morti».

A Chiasso scendono tutti, il viaggio è finito (l’immagine è ripresa da una bella poesia di Nessi: Le donne). Ci si lascia alle spalle un paese, un percorso di vita, un tempo diverso: le osterie dove il nonno giocava alla morra e quando buttava il tre gridava: -Trema Dio!- . Quale Dio trema più nei nostri bar, tra flipper e video games?

 

«Agorà» (Svizzera), 21 febbraio 1990

RECENSIONI

NEUMAN

ANDRÉS NEUMAN, LE COSE CHE NON FACCIAMO – SUR, ROMA 2017

Dell’argentino, naturalizzato spagnolo, Andrés Neuman (Buenos Aires 1977) – narratore, poeta, traduttore, blogger, docente di letteratura all’Università di Granada –, la casa editrice SUR ha pubblicato nel 2017 il volume di racconti Le cose che non facciamo, arricchito in seconda edizione da un’interessante postfazione sull’arte di scrivere testi brevi. Molto prolifico, pluripremiato e tradotto all’estero, Neuman ha firmato sei romanzi di successo, un volume di versi e due libri di racconti.

Le cose che non facciamo contiene venticinque storie che esplorano soprattutto i rapporti familiari, di coppia o genitoriali, utilizzando misure e registri diversi: si va dal bozzetto flash al racconto più articolato, dal genere intimistico al surreale e al grottesco, con una notevole maestria formale per cui nessuna descrizione risulta indulgente o sbavata, i dialoghi sono serrati, le descrizioni puntuali, il tono anche se commosso mai scadente nella retorica.

Soprattutto il rapporto tra marito e moglie viene indagato con acuta perspicacia, e talvolta con sorniona perplessità, quasi chiamando il lettore a condividere un senso di stupore per come le relazioni coniugali sappiano complicarsi senza reale motivo, rendendo difficile la reciproca comprensione e qualsiasi convivenza. C’è ad esempio l’uomo così affezionato al suo migliore amico da prestargli la sua donna fino a quando sarà riuscito a emularlo nelle qualità fisiche e morali; la moglie che in spiaggia proibisce al marito di avvicinarla tracciando col piede una riga sulla spiaggia; una coppia perfetta e simile anche nei nomi, Elias ed Elisa, sincronizzata e simultanea in tutto, che poi implode inaspettatamente e fragorosamente; un’altra coppia solidale nelle cose non fatte (viaggi immaginati, sane abitudini tralasciate, palestre non frequentate, lingue mai studiate): “Mi piacciono tutti i propositi, dichiarati o segreti, che disattendiamo insieme. È questo che preferisco della vita a due. La meraviglia aperta sull’altrove. Le cose che non facciamo”.

I venticinque racconti sono raggruppati in cinque aree tematiche: oltre alla prima dedicata alla vita in due, particolarmente suggestiva è quella in cui Neuman affronta le relazioni interne alle famiglie, non sempre improntate al confronto ostile o all’indifferenza, ma anche pervase da un’inaspettata tenerezza. Se quindi leggiamo di conflitti irriducibili, possiamo imbatterci al contrario in narrazioni commosse relative ai momenti topici dell’esistenza: la nascita e la morte. In Dare alla luce un padre assiste al parto del primo figlio con una tale partecipazione emotiva da patire in prima persona le doglie, fino all’apparizione rivelatrice e sconvolgente del bambino: scenderà contento o piuttosto sconcertato lungo lo scivolo del tempo? mi accetterà? sarò degno del suo esordio? e cosa fare con tutta la meschinità e la crudeltà che ci trasciniamo dietro quando un figlio ci nasce, quando un figlio ci dà alla luce, cosa fare per sentire che malgrado tutto ci meritiamo un altro inizio?”. In altri testi, sinteticamente essenziali (Madre di spalle, Una sedia per qualcuno, A piedi nudi)), sono i due vecchi genitori a venire accompagnati all’ospedale (“quanto di più simile a una cattedrale in cui noi miscredenti possiamo mettere piede”) prima dell’ultimo saluto, con la consapevolezza di non essere riusciti a ricambiare la generosa dedizione di tutta la loro vita: “ci sono amori che non si possono ripagare. Per quanto un figlio contraccambi i genitori, ci sarà sempre un debito tremante di freddo”. Lo stato di orfano viene addirittura negato mantenendo fittiziamente vivi padre e madre in Juan, José.

Particolare è anche la sezione dedicata a L’ultimo minuto vissuto da diversi protagonisti prima di congedarsi dal mondo: un nonno che annega volontariamente nella vasca da bagno, un prigioniero di fronte a una finta fucilazione, diversi aspiranti suicidi, un pestaggio brutale precedente all’esecuzione. Sono presenti nella raccolta anche testi crudamente feroci, e altri intellettualmente sofisticati, che si servono di uno stile meno tradizionale e affabulatorio per tentare soluzioni più sperimentali. Tra i primi, si esibiscono testi narranti di errori giudiziari, persecuzioni poliziesche, abusi e violazioni nel privato dei cittadini, rese dei conti tra amici-nemici. Invece, nell’ultima sezione del volume, Fine e principio del lessico, cinque brani si misurano con la creazione letteraria, con le aspirazioni e le delusioni di scrittori e poeti, e qui per la prima volta Andrés Neuman si concede qualche puntualizzazione nei nomi dei protagonisti e nelle ambientazioni delle trame. In generale, gli altri racconti si muovono in tempi e luoghi indefiniti, quasi l’autore volesse significare che i sentimenti, i gesti, i pensieri e i dialoghi descritti rimangono gli stessi a qualsiasi latitudine e in ogni periodo storico.

In effetti, più degli accadimenti concreti in cui si imbattono i personaggi, hanno rilievo nel libro le sfumature della loro interiorità, le emozioni e gli affetti. Di questa propensione allo scavo e all’interpretazione psicologica, Neuman dà testimonianza nelle raccomandazioni finali rivolte a chi volesse cimentarsi con la stesura di racconti: una serie di quattro dodecalogi e un pezzo conclusivo sugli errori da evitare e di suggerimenti da mettere in pratica per meglio catturare l’attenzione dei lettori interessati alla narrativa breve.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 6 aprile 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

NGUYEN CHI TRUNG

NGUYEN CHÍ TRUNG, ELEGIE AL FUTURO POETA  – INTERNO POESIA, LATIANO (BR) 2019

Le tre sezioni di Elegie al futuro poeta sono state composte da Nguyen Chí Trung tra il 1990 e il 1996, e oggi vengono offerte ai lettori italiani dalle edizioni Interno Poesia. L’autore è nato nel 1948 in una città sulla costa del Vietnam del sud: cresciuto a Saigon, si è poi trasferito per motivi di studio in Germania, dove è rimasto lavorando come ingegnere. Attualmente vive a Stoccarda, scrive in tedesco e vietnamita e traduce poesia nelle due lingue. Nel 2013 è uscita a Saigon una raccolta dei suoi versi in sette volumi.

Il libro di cui ci occupiamo presenta una cinquantina di poesie in quartine, tutte rivolte a un “tu” in forma di invito, augurio o preghiera conformemente alla struttura del Sutra, secondo la tradizione vedica indiana. Versi sapienziali, quindi, indicazioni etiche miranti a conseguire la purezza e la pace interiore attraverso una condotta consapevole, e sentimenti di accoglienza nei riguardi di ciò che accade. Ma anche considerazioni malinconiche sulla fugacità del tempo, sulla corruzione della società contemporanea, sulla fragilità di ogni sentimento umano, sulla consolazione offerta dalla bellezza intuita in rare, miracolose epifanie. Ogni quartina si apre con le stesse parole “You come”, che la curatrice Filomena Ciavarella traduce con “Tu che vieni”: un appello che è insieme sollecitazione e consiglio, implorazione e avvertimento, rivolto a una presenza amicale, filiale o fraterna, o al destinatario immaginato nel titolo, il poeta di un domani ipotetico, più minaccioso che benevolo.

Com’è infatti il secolo futuro ipotizzato da Nguyen Chí Trung? Di arroganza, di vagabondaggio, caotico, traboccante di Sesso, senz’Anima, senza Padre, di Niente, degli inganni e dei disastri, abbandonato. “Tu che vieni in un secolo dove non c’è Gioia / Non portare con te tutto ciò che è sepolto / Anche se vecchie voci riecheggiano / Non sono abbastanza per compensare il futuro”; “Tu che vieni in una distesa di cadaveri / La vita in sé contiene la sua fine / Sulla strada dietro di noi i nostri lamenti lasciamo / E quelli che sono stati perduti nei tempi passati”. I “versi dolenti” dello scrittore vietnamita, “tristi per il nulla”, diffidano anche dell’amore (“Amare, che vuol dire? Amare è uccidere / È suicidarsi notte dopo notte / È distrugger di sé l’anima e il corpo”), per cui l’unica raccomandazione da seguire consiste nel vivere il momento presente, senza pretendere risposte ai quesiti eterni e tormentanti: “Parlare del futuro, cosa importa! / Affidare sé stesso a qualcuno? Non consegnarti a nessuno”. Poiché “Vivere è mantenere il proprio cuore”, nemmeno la poesia, oggi praticata da una cricca di versificatori “concentrata solo sulla fama”, e nemmeno la natura, con la luna pietrificata e una vegetazione sconfitta dall’incuria e dall’abuso, possono assicurare salvezza.

Nella postfazione, Giulia Basile accomuna Chí Trung a Leopardi, per la sua consapevolezza priva di illusioni sulla realtà onnipresente del dolore, della solitudine, della vanità dell’esistenza, destinata a perdersi “nell’infinita notte”. Forse solo nella quartina in esergo si intuisce uno spiraglio di fede: “Apro sinceramente questo cuore, / Le mie mani si alzano, implorando il cielo e la terra. / Lasciatemi continuare a essere un piccolo essere umano, / Non fatemi somigliare ad un altro”; altrimenti rimane solo il rimpianto per essersi spinti troppo oltre, in un territorio di nebbia, lontano da casa.

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Elegie-al-futuro-poeta-Chi-Trung.html    13 settembre 2019

L’Indice dei libri del mese, n. XI, 2019

RECENSIONI

NICOLA VACCA

NICOLA VACCA, MUSE NASCOSTE – GALAAD, ROMA 2021

“Se la poesia è espressione dell’indicibile, celato oltre le pieghe dell’esistenza, se è indagine del reale per oltrepassarne traumi e sofferenze, esprimendo ideale e bellezza, se è tensione verso un linguaggio che non si lascia addomesticare, se – in una parola – la poesia è una rivolta contro le imposizioni e le costrizioni dell’esistente per ambire a un sogno di libertà e di assoluto, allora il presente volume costituisce lo strumento per porsi in ascolto di quell’indicibile, attraverso la vita e la voce di ventiquattro poetesse, molte di loro ancora ignote al vasto pubblico, figure esemplari di un assalto ai limiti dell’esistenza individuale e sociale, ai segreti inesplicabili del mondo fisico e metafisico, alla resistenza della parola e del suo mistero”. Così Luigi Beneduci nella prefazione al bel libro di Nicola Vacca, Muse nascoste.

Le poete presenti in questa antologia occupano un raggio cronologico e geografico molto vasto: dall’America dell’800 alla pianura Padana di fine ’900, dalla Russia bolscevica all’Argentina degli anni ’70. Nicola Vacca (Gioia del Colle, 1963) – scrittore, critico letterario, opinionista – offre ai lettori un quadro sintetico ma incisivo delle loro personalità, introdotto da una breve nota biografica, e illustrato criticamente nell’aspetto formale, quindi attraverso la citazione sia dei versi più noti ed esemplificativi, sia di stringati giudizi di alcuni esegeti internazionali.

Volendo tentare una classificazione, per quanto arbitraria, che inquadri le autrici, potremmo suggerire di suddividerla in quattro ambiti di espressione: tra chi privilegia la riflessione spirituale e la ricerca metafisica, e chi affronta invece la complessità storica con le sue ingiustizie e persecuzioni, tra chi indaga la propria interiorità ferita, e chi invece è più interessata a sovvertire la tradizione linguistica. Ovviamente, nessuna delle poete antologizzate si limita a un unico settore di indagine; comune a tutte è, comunque e sempre, un forte disagio sociale, la drammatica disarmonia con il mondo in cui vivono, e una sofferenza che sembra immedicabile, particolarmente evidente nelle otto di loro che hanno scelto la morte volontaria (Cvetaeva, Pozzi, Rosselli, Pizarnik, Sexton, Plath, Campana, Ruggeri).

Icastiche, concise ma penetranti sono le definizioni con cui Nicola Vacca sintetizza le doti caratteriali e stilistiche delle varie autrici: “l’oscillazione continua tra l’abituale e l’eterno” di Emily Dickinson, “la voce deflagrante ed estrema” di Jolanda Insana, “il mondo senza speranza né redenzione” di Ágota Kristóf, la “straordinaria voce eretica che non ha mai rinunciato alla perfezione e alla bellezza” di Cristina Campo, “la rigorosa intransigenza di precisi principi morali” di Simone Weil, “il terribile deflagrare di una sensibilità acuta, lancinante e tragica” di Sylvia Plath.

Altrettanto coinvolgente ed empatica è la scelta dei versi che vengono proposti al lettore. Il classicismo composto di Lalla Romano ben si evince leggendo: “Non pensare se cerco parole / che voglia nutrirmi di vento / un dono di giuste parole / incorruttibile come la musica / dolce come la casa / triste come l’infanzia / paziente come il tempo”. L’amarezza del sentirsi ingiustamente esclusa risulta palese da quanto scrive Fernanda Romagnoli: “Io qui non mi trovo, io fra voi / sto come il tredicesimo invitato, per cui viene aggiunto un panchetto / e mangia nel piatto scompagnato”. La preghiera tormentata e controcorrente di Margherita Guidacci ne rivela l’inevitabile isolamento intellettuale e religioso: “Mio Dio salvami dalla parola condotta in parata come un vitello / nel giorno di fiera; … meglio scrivere un libro importante nel deserto / che diventare celebre per un equivoco”.

In questa galleria di ritratti femminili, “la voce possente e polifonica, straziante e al tempo stesso appartata” di Nadia Campana, il suo “esercizio di dolore che ha trovato lo schianto” nel gettarsi, appena trentunenne, da un ponte della tangenziale est di Milano, appaiono emblematici dell’angoscia che ha relegato la quasi totalità delle poete qui rappresentate all’emarginazione, a un rifiuto o a un’ingiusta sottovalutazione. La fragilità, la rabbia e la disperazione intuibili nelle loro tormentate biografie, ha cercato e trovato una possibile via di comunicazione, di resistenza e riscatto proprio nel dono gratuito della poesia, che, come ammoniva Simone Weil “deve ambire a esprimere qualcosa, e contemporaneamente nulla – il nulla che si manifesta dall’alto”.

 

© Riproduzione riservata        «L’indice dei Libri del Mese» n. I,  gennaio 2023

RECENSIONI

NICOLA VACCA

NICOLA VACCA, LIBRO DELLE BESTEMMIE – MARCO SAYA, MILANO 2023

I quattro autori delle frasi poste a esergo dell’ultima raccolta di versi di Nicola Vacca (Nietzsche, Cioran, Bufalino, Pavese) vengono citati per suffragare le tesi che il poeta esprime – coraggiosamente, provocatoriamente – ne Il libro delle bestemmie. Tesi che attribuiscono alla bestemmia la funzione di cartina tornasole, in quanto anche qualora esistesse un essere supremo, benevolo e provvidenziale, creatore del cielo e della terra (“un Dio eventuale”, come lo definiva Pavese), essa ne indicherebbe sia la presenza sia l’assenza, esaltandone o distruggendone il concetto nel momento stesso in cui viene pronunciata. La parola, il nomen, anche quando è oltraggioso, offre sostanza all’idea: nomina sunt consequentia rerum.

Vincenzo Fiore nell’acuta postfazione afferma giustamente che “a dare più credito a Dio sono coloro che paradossalmente non riescono più a credere in Lui”. E infatti Nicola Vacca confessa il suo rovello, perché il pensiero di Dio lo assilla proprio nell’ansiosa volontà di cancellarlo: “Mi pongo domande mentre vaneggio / di bestemmia in bestemmia”.

Sulla scia del pensiero illuminista, razionale, irreligioso, Vacca considera la divinità un’invenzione dell’uomo creata per sfuggire alla propria paura di vivere e di morire: “il prodotto delle debolezze umane”, secondo Albert Einstein. E rivolge i suoi appuntiti strali contro l’istituzione ecclesiale e il gregge dei timorosi fedeli che se ne dichiarano seguaci (ma già Padre Turoldo ammoniva “Dio ci liberi dai carismatici”): “Barricati nelle chiese / sono tutti in fila / davanti al confessionale / per chiedere l’assoluzione / a un dio che non è mai sceso quaggiù”.

Il poeta professa a gran voce il suo risentito ateismo, sfiorando spesso l’eccesso blasfemo nell’irriverente litania degli attributi relativi a Dio: illusionista equivoco ciarlatano oscuro crudele indifferente disoccupato baro muto vigliacco bastardo malvagio funesto, “un boia / che non si sporca le mani”, “un imbroglio su cui sputare”.

Nemmeno Cristo si salva da tale iconoclastia verbale, perché – fragile e impotente –, non potrà mai risorgere dalla morte che il Padre gli ha imposto dopo averlo lasciato solo: “Cristo si copre gli occhi / perché non vuole vedere / gli orrori che ha creato suo padre”.

L’indignazione di Nicola Vacca, novello Savonarola eretico, accomuna creatore e creature: “Dio è il vuoto / che marcisce insieme a noi”, “Questo mondo è sporco / come dio che lo ha creato”, “se l’umano è marcio, il divino è lurido”. Disgustato ed esacerbato, implora l’estinzione del mondo, destinato ad auto-distruggersi a causa della sua stessa iniquità, dato che i tanto proclamati valori morali (amore, amicizia, famiglia, fede, gloria) servono solo a coprire il “tanfo” del sudiciume.

La copertina che il poeta ha scelto per la raccolta è esplicitamente rappresentativa della funerea tensione che la attraversa: lo spaventoso Inferno magistralmente dipinto da Hieronymus Bosch nel trittico de Il Giardino delle Delizie.

Nella visione totalmente negativa dell’umanità, ormai priva di qualsiasi futuro, l’autore chiama come testimoni e sodali altri poeti e scrittori (Majakovskij, Ritsos, Strand, Artaud), che tuttavia non sono riusciti con la severa purezza delle loro parole a risvegliare le coscienze degli uomini, e a salvarli.

Le quattro sezioni in cui si suddivide il libro (Un dio contro, Dalla parte del cecchino, Lode all’Anticristo, Cattive notizie giungono dall’alto) esprimono un crescendo di ferocia rabbiosa, e il poeta ostenta consapevolmente l’immagine di sé come giustiziere e vendicatore, cucendosi addosso le sembianze del tiratore scelto, che implacabile prende la mira per annientare illusioni, false credenze e ipocrisie del senso comune: “Amo le parole che sbranano / adoro i concetti che dilaniano”. In questo “squartamento” di sé e degli altri, Vacca ha bene assorbito la lezione di Cioran, attribuendosi “il tentativo / di un estremo atto di rivolta / contro il vuoto che inghiotte tutto”.

Se la corrente della poesia civile, nelle sue accezioni politiche e sociali, ha attraversato tutta la storia letteraria italiana da Dante in poi, con particolare vigore nell’800 risorgimentale e poi durante e dopo le due guerre mondiali, spingendosi fino al dichiarato impegno antifascista e anticapitalista degli scrittori attivi tra il 1950 e il 1970 (Pasolini, Fortini, Pagliarani, Sanguineti, Sereni, Roversi, Porta, Balestrini ecc.), la poesia anticlericale non ha avuto altrettanta diffusione nelle patrie lettere. Dai canti carnascialeschi medievali, alla satira di Giusti, al demonismo carducciano, fino allo scherno beffardo dei sonetti romaneschi, forse è solo nella bruciante contestazione di due religiosi, Turoldo e Tartaglia, e nell’invettiva pasoliniana di “A un Papa” (“non c’è stato un peccatore più grande di te”) che possiamo trovare un antecedente allo sdegno profano e maledicente di Nicola Vacca.

Che tuttavia nel Finale della raccolta, ridotto a pochi versi, si dichiara sconfitto, ammettendo di aver cercato inutilmente “uno spiraglio / nella crepa dell’esistere”, battendosi per “un gesto urgente / in una rivolta senza senso”. Se è insensato vivere, se è insensato credere, altrettanto vano è ribellarsi al destino di morte stabilito per ciascuno, il più ingiusto sopruso patito dall’essere umano, non riscattabile da alcuna speranza in un aldilà riparatore: “verrà la morte e avrà i nostri occhi / questa è la verità / che dovremmo tenere a mente / mentre collezioniamo bugie per sopravvivere”.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 10 febbraio 2024

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

NIERO

ALESSANDRO NIERO, VERSIONI DI ME MEDESIMO – TRANSEUROPA, MASSA 2014

Il libro di Alessandro Niero (commentato da una partecipe postfazione di Andrea Afribo) rivela già dal titolo, Versioni di me medesimo, una disposizione ironica al gioco letterario, al camuffamento, non solo stilistico. Un’autobiografia in versi che conosce diversi registri formali, dal sonetto al monologo alla parodia, e che si esplicita nel corso di tutte le pagine, ma soprattutto nella prima sezione, in cui un alter ego del poeta (Il signor Czarny) gli presta voce e sembianze, in un ritratto sarcastico e impietoso. «Il signor Czarny ha ritenuto a lungo / di essere infinito, illimitato. / L’errore era gradito e terapeutico». Questo piccolo borghese disilluso, che pare uscito da uno dei racconti di Cechov, viene crocefisso ai suoi tic e alle sue nevrosi con implacabile e beffarda durezza, nelle inconcludenti e vanesie relazioni con le donne, nell’invidia verso i colleghi, nel suo «insistentemente» scrivere, «percepirsi sfrangiato», ingozzarsi di ansiolitici e osservare malinconicamente il tempo che scorre, scoprendosi costretto «dentro un ritmo esterno», non suo, perché «non ce la fa a essere sincrono / con quanto gira intorno». Un disadattamento al mondo, espresso nei riguardi della galassia accademica, dei rapporti familiari, della frenesia consumistica: Niero riesce a prendersi in giro, sbeffeggiando la sua stessa scrittura, che risente sì di influenze letterarie dei nostri maggiori poeti (da Giudici a De Angelis, addirittura con qualche gozzanismo e montalismo), ma scardinate e riutilizzate a proprio uso e consumo. Così l’osservazione di ciò che lo circonda (città e stazioni, supermercati e figure femminili – «faccette acconce oltremisura») rivela sempre uno sguardo privo di clemenza, severo quasi a sfiorare la satira, e nello stesso tempo include anche se stesso in una più universale pietà verso tutto ciò che vive e respira: ma, temendo l’abbandono e la retorica dei buoni sentimenti, nell’ultimo verso corregge con una sferzata di scherno, di rigore critico, qualsiasi tentazione di intenerimento. Contro «la geometria mondriana dei colori ammodo» si scaglia, novello savonarola, a rivendicare la lucidità di una coscienza poetica che sappia controllarsi anche negli affetti più intimi. Per cui persino la sezione dedicata al padre mantiene una sua nota di spietatezza, come scrive Afribo («Padre, trabocca in me la copia dei tuoi mali // … Se ti condanno, condanno me stesso», «Padre, ti schiaccia una fatica inarrivabile, / nemmeno sai qual è: / partorirmi più grande / di te»). E ben ne è consapevole l’autore stesso: «sempre / che il mio impancarmi a giudice non sia / pettegolezzo o fiele. O argilla. / O tracotanza da pagare. O bugia», che trova però inattesi barlumi di tenerezza nelle poesie dedicate alla figlia Beatrice: «Ed eccoti aspettata a lungo, / ora mio termine e mio cominciamento», «eco di mia eco», «riassunto dettagliato / di ogni mio dolore e gioia».

Il volume si conclude con una interessante campionatura di versioni da poeti slavi, essendo Alessandro Niero professore di letteratura russa all’Università di Bologna, e traduttore premiato con riconoscimenti nazionali e internazionali.

 

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www.sololibri.net/Versioni-di-me-medesimo-Niero.html          28 settembre 2017   

RECENSIONI

NIERO

ALESSANDRO NIERO, OLGA. UNA BADANTE PER AMICA

VALIGIE ROSSE, VECCHIANO (PI) 2022

 

La poesia è un’arte negletta, forse la meno considerata tra le forme letterarie praticate in Italia, non tanto nella produzione (addirittura sovrabbondante!) quanto nella fruizione. Pochissimi la leggono, e i volumi di versi rimangono tristemente invenduti sui due o tre scaffali che le librerie mettono loro a disposizione. I poeti appaiono creature in via d’estinzione, rassegnati a un soliloquio autoreferenziale che li riduce in spazi editoriali sempre più ristretti, e tuttavia ambiti a tal punto da creare nella categoria rivalità, guerre sotterranee, rancori perenni. Alcuni di loro, esasperati dal silenzio critico che li circonda, arrivano a recensirsi e intervistarsi da soli. Come scriveva Palazzeschi, sentendosi trascurati o addirittura scherniti dalla cultura che crea reddito, finiscono per riconoscere a sé stessi un ruolo giullaresco e innocuo, sostanzialmente consolatorio: “Tri tri tri, / fru fru fru, / ihu ihu ihu, / uhi uhi uhi. // Il poeta si diverte, / pazzamente, / smisuratamente! / Non lo state a insolentire, / lasciatelo divertire / poveretto, / queste piccole corbellerie / sono il suo diletto”.

Forse per questa malinconica consapevolezza della propria vanità e inconsistenza, molti poeti finiscono per frequentare settori più redditizi della letteratura: la memorialistica, il giallo, il noir, la satira, o l’unico davvero trainante nel mercato editoriale: quello dedicato all’infanzia.

Così ha scelto recentemente di fare Alessandro Niero, non solo elegante autore di apprezzate raccolte di versi, ma stimato docente universitario a Bologna, esperto slavista, ricercato traduttore dal russo, sottile interprete dell’arte traghettatrice tra lingue diverse. Il suo ultimo prodotto librario è appunto un testo rivolto ai lettori delle scuole elementari, Olga. Una badante per amica, che racconta in versi accattivanti e di facile comprensione una favola ambientata nell’oggi, dalla finalità pedagogica, con una morale positivamente educativa.

La voce recitante è quella di un bambino che chiede al padre chi sia la giovane donna incaricata di accudire il nonno novantenne, e in questa sua curiosa indagine sul ruolo della signora, lentamente si avvicina a una realtà culturale e umana prima ignorata. Olga è una badante moldava, arrivata da un paese lontano in cerca di un’occupazione: “E per trovare un qualsiasi lavoro / tanti laggiù hanno lasciato la famiglia / e, come cercatori d’oro, / hanno percorso miglia, miglia e miglia / per arrivare dalle nostre parti. / Non stanno certo con le mani in mano, / non c’è lavoro che scartino, / fanno ogni tipo di mestiere, anche il più stranio / o quello che nessuno vuole fare: devono guadagnare”.

Olga si fa volere bene; è attenta, coscienziosa, sensibile, colta; offre aiuto materiale e compagnia affettiva alle giornate faticose dell’anziano che le è stato affidato. Legge molto, si è addirittura iscritta all’università, e sta per portare a termine la sua tesi di laurea. Il nipotino narrante cerca di conoscerla meglio, si fa aiutare nei compiti e divide con il nonno le cure premurose della badante, diventata anche baby sitter part-time. Tutta la famiglia che ospita Olga le è riconoscente, festeggia orgogliosa la fine dei suoi studi come fosse una cara parente, e instaura con lei un rapporto di reciproca stima e amicizia.

Il volumetto di Alessandro Niero, attraverso un linguaggio semplice, lieve e musicalmente ritmato, ha il pregio di stimolare la sensibilità dei piccoli lettori verso sentimenti di solidarietà e apertura nei riguardi degli stranieri che lavorano nel nostro paese, invitandoli alla considerazione e all’apprezzamento che essi meritano. Le illustrazioni di Elena Miele, a partire dalla vivace e coloratissima copertina, arricchiscono le pagine di immagini fantasiosamente allusive al mondo infantile, popolato da gatti, topi, zucche, draghi, serpenti, stelline, cactus, pesci, uccelli, farfalle, occhi verdi, sotto lo sguardo meditabondo di una grassa regina distesa sul letto a pancia in giù. Olga, una badante per amica è un libro destinato a un pubblico di bambini, adulti e poeti, nella collana a loro dedicata dalla casa editrice toscana Valigie Rosse.

 

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15 marzo 2023

RECENSIONI

NIETZSCHE

FRIEDRICH NIETZSCHE, POESIE – FELTRINELLI, MILANO 2019

Le poesie di Friedrich Nietzsche (Röcken, 1844-Weimar, 1900) pubblicate da Feltrinelli in edizione economica nel 2019, con l’approfondito commento della curatrice Susanna Mati, sono presentate in ordine cronologico di composizione, seguendo l’edizione critica di Colli-Montanari del 1967.

Straordinario filosofo che ha rivoluzionato il pensiero politico e morale del secolo scorso, raffinato e originale scrittore, Nietzsche non fu tuttavia un grande poeta: ma ai versi affidò per l’intera esistenza il compito di accompagnare, spesso ironicamente, la propria produzione teorica. Dopo le poesie dell’adolescenza, convenzionali e imitative dei modelli classici tedeschi (ripudiate nella maturità perché giustamente ritenute pateticamente devozionali), il giovane Friedrich si dedicò con spirito più genuino all’aforisma pungente, alla sentenziosità moralistica, per approdare verso i trent’anni a un compiaciuto autobiografismo, attraverso cui amava ritrarre se stesso come der Thor (lo stolto), il pensatore folle, il buffone. In Tra amici sembra insieme sia sbeffeggiare il conformismo di chi lo circonda, sia gloriarsi di una sua maschera provocatoria e sardonica:

“Se ho fatto bene, allora taciamone; / se ho fatto male –, allora ridiamone / e facciamo sempre peggio, fare peggio, rider peggio, / finché nella fossa scenderemo. // Amici! Sì! Così deve andare? / Amen! E arrivederci! //… Onorate in me l’arte dei giullari! / Imparate da questo libro giullaresco / Come la ragione è ricondotta – ‘alla ragione!’”. Dove il libro giullaresco è Umano, troppo umano, del 1878, che riporta questa composizione a conclusione della prima parte.

La prima raccolta autonoma di versi nietzschiani fu Gli Idilli di Messina (1882), i cui modelli formali erano non solo Goethe e Heine, ma soprattutto gli scrittori romantici più popolari, come Brentano e Mörike. Prevalgono, in questa prova d’esordio, bozzetti di figure femminili o fiabesche, immagini campestri, notturni elegiaci, spiritose descrizioni di volatili: temi ricorrenti nei Volkslieder in voga tra le classi più umili.

Al preludio del La Gaia Scienza (1882) appartengono poi un gruppo di rime, intitolate Scherzo, malizia e vendetta, di cui l’amica Lou Andreas-Salomé scrisse: “Su tutti i versi incombe qualcosa che commuove in modo singolare; sono infatti fiori che un solitario sparge sulla propria via crucis per suscitare l’impressione che sia una via della gioia”. Eccone alcuni esempi, da cui si evince l’intento violentemente polemico e derisorio, oltreché autocelebrativo: “Da quando fui stanco di cercare, / imparai a trovare. / Da quando un vento mi fu avverso, navigo con tutti i venti”, “Estraneo al popolo eppure utile ad esso, / seguo la via, ora al sole, ora alle nubi – / e sempre al di sopra di questo popolo”, “Tagliente e mite, rozzo e raffinato, / fidato e singolare, sporco e puro, / un convegno di saggi e di giullari: tutto questo io sono e voglio essere, / colomba e insieme serpente e porco!” Sempre nell’Appendice a La Gaia Scienza si trova poi una delle più ispirate poesie di Nietzsche, scritta tra le amate montagne di Sils-Maria nel 1882, in cui si avvertono accenni alle opere teoretiche successive: “Qui sedevo, attendendo, attendendo, – nulla attendendo, / al di là del bene e del male, ora della luce / godendo, ora dell’ombra, tutto solo gioco, / tutto lago, tutto meriggio, tutto tempo senza meta. // E all’improvviso, amica! L’Uno divenne Due – / – Zarathustra mi passò vicino…”.

Due anni dopo, all’allieva e amante Lou dedicò la canzone da ballo Al Mistral, invito esaltato al superamento di ogni limitante mediocrità: “Chi non sa danzar coi venti, / chi si invischia in mille lacci, / incatenato, vecchio storto, / chi è come gli scemi ipocriti, / i balordi onorati, le oche virtuose, / vada fuori dal nostro paradiso! // Muliniamo la polvere delle strade / sotto i nasi di tutti i malati, / impauriamo la nidiata dei malati! / Liberiamo l’intera costa / dall’ansito dei petti rinsecchiti, / dagli occhi senza coraggio! // Cacciamo i perturba-cielo, / gli oscura-mondo e spingi-nubi, / rendiamo limpido il regno dei cieli! / Soffiamo… oh spirito di tutti gli spiriti / liberi, essere in due con te fa / soffiare la mia gioia come una tempesta – // …  – Affinché eterna sia la memoria / di questa felicità, prendi il suo lascito, / prendi con te e solleva questa corona! / Lanciala in alto, più lontano, più oltre, / assalta la scala del cielo, / e appendila – alle stelle!”

Nei Frammenti postumi del 1884 apparivano temi che saranno tipici di molta letteratura novecentesca: quelli del viandante che vaga senza meta, dell’uomo senza patria orgoglioso di rispondere solo al proprio spirito indipendente, dell’inesistenza di Dio, della follia del poeta unico detentore della verità (“Il poeta, che può mentire / coscientemente, volontariamente, / lui solo può anche dire la verità”).

Così parlò Zarathustra (1883-1885) contiene molte poesie, riprese più volte prima e dopo la sua composizione: è però esso stesso un poema sinfonico, puntellato da liriche con metrica regolare, e sostenuto nella sua interezza da toni declamatori, oracolari. Particolarmente rappresentativa delle tematiche nietzschiane è senz’altro la complessa Il canto della melanconia, severo e compiaciuto autoritratto del filosofo: “Il pretendente della verità? Tu? – così ti beffavano – / No! Solo un poeta! / Una bestia, furba, rapace, strisciante, / che deve mentire, / che deve mentire con scienza e volontà: avido di preda, / mascherato con mille colori, / a se stesso maschera, / a se stesso preda – / questo – il pretendente della verità? / No! Solo giullare! Solo poeta! / Uno che parla con mille colori, / che grida con mille colori da maschere di giullare, / che s’inerpica pe ponti di parole menzognere, / per arcobaleni multicolori, / tra falsi cieli / e false terre, / che vaga in giro e si libra attorno, – / solo giullare! Solo poeta!”. Con sembianze di aquila e pantera, “predatore, strisciante, mentitore”, “bandito / da ogni verità”, Nietzsche offre di sé un’immagine di commediante e falsario, di mago che giostra con concetti e figure, maschera capace di creare solamente illusioni, esiliato dal mondo civile, come poeta e come filosofo.

Anche in Aldilà del bene e del male (1886) sono presenti dei versi: le misogine Sette sentenzine di femmina (“Giovane: una grotta fiorita. Vecchia: un drago ne esce fuori”), il malinconico Da alti monti, in cui si esprime tutta la tristezza di una vita solitaria, e altri aforismi dedicati all’amico-nemico di sempre, Richard Wagner.

Infine, i Ditirambi di Dioniso furono l’ultimo lavoro composto nel 1888, prima del crollo psicofisico che lo condusse all’ottenebramento totale. Parzialmente già pubblicate, nella sezione inedita mostrano i segni di una dissociazione mentale e di una perdita di controllo sul proprio materiale: si tratta di monologhi scritti in uno stile declamatorio, con costruzioni sintattiche oscure, con libere associazioni ritmiche che riprendono argomenti mitologici o misticheggianti.

Susanna Mati nella sua intensa postfazione afferma che le poesie di Friedrich Nietzsche, prive di reale validità artistica benché dotate di notevole arguzia, vanno collocate nel “territorio dell’affetto e dell’effetto”, essendo soprattutto sintomatiche dei moventi psicologici e teorici del filosofo. Svolgono tuttavia molteplici funzioni: di rilassamento della tensione intellettuale, di satira-parodia-imitazione, di caratterizzazione del personaggio Zarathustra, di sfogo emotivo. Lo stesso Nietzsche considerava la poesia arte menzognera e fraudolenta, attribuendole il compito secondario di distrarre, consolare, edificare, senza alcuna pretesa di profezia o rivelazione. I suoi versi vanno quindi letti a integrazione contingente e occasionale da affiancare alla ricerca delle verità ultime.

 

© Riproduzione riservata         «Il Pickwick», 15 febbraio 2022

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

NOOTEBOOM

CEES NOOTEBOOM, LUCE OVUNQUE – EINAUDI, TORINO 2016

Cees Nooteboom (L’Aja, 1933) è uno dei maggiori scrittori contemporanei, autore di numerosi romanzi e libri di viaggio, pubblicati in Italia da Iperborea. Ha scritto anche una decina di volumi di poesia, che ora Einaudi ha scelto di antologizzare “a ritroso”, dall’ultimo uscito nel 2012, al primo del 1964. Leggendo i suoi versi appunto dai più antichi ai più recenti, dalla conclusione del volume all’inizio, ci si avvedrà della progressiva illuminazione che si riflette nei contenuti e nella forma, fino ad approdare al consapevole schiarimento di Luce ovunque.
Le raccolte del primo ventennio esprimono infatti, già dai titoli, una sorta di cautela, quasi un timoroso sospetto nei confronti del mondo circostante, e dei sentimenti che lo animano: “Poesie chiuse”, “Presente, assente”, “Aperto come un guscio, chiuso come una pietra”, “Esca”. Anche le singole composizioni alludono a una recinzione timorosa, a un’asprezza inibita e sofferta che cerca un suo sfogo e uno scampo nell’assoluzione della scrittura:  Golden Fiction, Niente, Ultima lettera, Nessuno, Empty Quarter, Pietre rotolanti.
Le poesie giovanili di Nooteboom sono ancorate a un’idea costante di dissolvenza, dei corpi e della storia, rassegnate all’inevitabile sparire delle persone, e all’inconsistente testimonianza del loro agire e scrivere: «Sono sepolti, i miei amici. / Sotto gli alberi continuano i corpi il loro cammino. // …Perché sono così triste / se altro non aspetto che guardare i fuochi / e la partenza di una nave?», «Gli immortali sono morti e dimenticati, / loro casa è una tomba», «È rimasto tanto poco di te / ora che sei stata bruciata, / un pugno di cenere che sembra cenere / e ancora quest’anno volevi un mio bacio», «Ieri torna a ripetersi. // … No, qui non è mai cambiato nulla», «Niente assume forma. I giornali si sciolgono, / le foto si dissolvono. La pietra è di cera, / la scrittura di cenere, il tempo afferra se stesso / e ripete l’apparizione», «Mi trascino dietro questa vita sconvolta / come un pescatore la sua rete lungo la riva // … Il dolore non mi evita».

Privato e pubblico si equivalgono nel loro vano nullificarsi, nell’imperturbabile sovrapporsi di stagioni e anni, a cui nemmeno gli affetti familiari, o la passione degli amanti, riescono a opporre resistenza. La natura, descritta nella varietà dei paesaggi visitati (Mediterraneo e Oriente, oceani e deserti, metropoli e villaggi sperduti) mantiene nei confronti dell’osservatore un’impenetrabile ostilità: fiumi morti, tempeste di sabbia, montagne sonnacchiose, canneti torturati, agavi pungenti… Anche lo stile, nella sua limpida perentorietà, non manifesta nessuna clemenza, nessuna titubanza espressiva, o ansia di originalità.
Più indulgenti verso se stesse e la vita sono le poesie mature, dagli anni ’90 in poi. C’è in primo luogo la volontà di ancorarsi culturalmente e ideologicamente a un passato riconosciuto come “classico” e fondante, tuttora vitale e formativo. Perciò si susseguono gli omaggi alla scrittura dei grandi, da Omero a Esiodo, da Lucrezio a Virgilio, da Cartesio e Wittgenstein, da Ungaretti a Borges. Persino i titoli delle raccolte si aprono a una più luminosa accettazione del reale (Vista, Così poteva essere, Incontri, Luce ovunque), con un richiamo costante allo sguardo verso l’esterno (una sezione intera è dedicata all’occhio), e alla sospensione positiva dell’attesa (la figura del postino, foriero di novità, emerge qua e là come un alato mercurio contemporaneo). Quindi anche la poesia ritrova un suo ruolo di scoperta e testimonianza, di guida e salvezza: «Di tutto è rimasta poca cosa, / scrittura che si oppone al decadere. // Taci e ascolta l’ultimo nostro marittimo dolore, / con chi posso godere del profumo rimasto? // Di qui tutto si genera: / in un luogo senza importanza // un’ombra / senza un sasso. // Sii, tu».

Si avverte maggiormente (nei versi più franti e complessi, nelle ellissi e nelle metafore più azzardate, negli apporti prosastici…) l’influenza della poesia contemporanea: l’eco della lettura di Celan – per esempio –, o l’approccio ironico totalmente assente nella produzione giovanile.
Il contagio della modernità – anche nei suoi aspetti violenti, alienanti, enigmatici – genera nell’ultimo Nooteboom la disposizione a esporsi in una tensione, magari risentita e amara, verso il magma del reale, dove anche la dimensione metafisica diventa proposta e azzardo: «un portone, sempre chiuso, / ora socchiuso, il pericolo di un’altra / vita, una poesia / di un’esistenza capovolta, / in cui la morte non ha falce», «l’inizio di qualcosa, dialogo / in una lingua ancora inesistente».

Su questa novità, il poeta ha il dovere (eticamente, linguisticamente) di fare ovunque luce.

 

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www.sololibri.net/Luce-ovunque-Cees-Nooteboom.html     22 settembre 2016