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RECENSIONI

OLIVER

MARY OLIVER, PRIMITIVO AMERICANO – EINAUDI, TORINO 2023

Primitivo americano, premio Pulitzer per la poesia nel 1984, è il libro più noto di Mary Oliver, autrice poco conosciuta in Italia, ma amatissima dal pubblico americano. Einaudi lo propone nella sua prestigiosa collana bianca, con l’appassionata prefazione della curatrice Paola Loreto e testo a fronte. Mary Oliver, nata in Ohio nel 1935 e morta in Florida nel 2019, è vissuta principalmente nell’East Cost, nei dintorni meno frequentati di Cape Cod, là dove boschi, laghi, paludi delle Province Lands, nella loro intricata e misteriosa wilderness, si approssimano al mare protetto da scogli e dune sabbiose.

Sacerdotessa di un panteismo naturalistico, Oliver è stata la riconosciuta e celebrata rappresentante della poesia ecologista statunitense. Le cinquanta composizioni della raccolta riecheggiano temi e atmosfere presenti nei massimi cantori nordamericani della natura, da Henry David Thoreau a Ralph Waldo Emerson, da Walt Withman a Emily Dickinson, da Robert Frost a Elizabeth Bishop, con un’accentuazione visionaria particolare, prossima alle proiezioni allucinatorie della letteratura distopica e postumana di oggi.

Nella sua interpretazione del reale, sfumano i contorni materiali che differenziano specie da specie, mondo animale e vegetale, interconnettendo l’umano con il minerale, l’acqua e l’aria, nella fusione di elementi diversi in un’indistinta origine biologica comune.

Lunghe passeggiate solitarie, o in compagnia del suo cane, nella foresta o ai bordi di stagni e sulle rive dei fiumi, portano la poeta a imbattersi in tipologie diverse di alberi, cespugli, fiori e frutti (querce, pini, meli, anemoni, caprifogli, bacche, uva, more, funghi…), e in una ricca varietà di insetti, uccelli, quadrupedi, pesci, anfibi: dalle volpi alle lepri, dagli aironi ai corvi, dai pipistrelli ai gufi. Durante le sue quotidiane immersioni nel verde, si lascia pungere da spini e parassiti: “Dove il sentiero chiude / i battenti e oltre, / attraverso le foglie sgamollate, / i rami caduti, / attraverso l’intrico di salsapariglia, / ho proseguito. Alla fine / non riuscivo più / a salvare le braccia / dalle spine; le zanzare / mi hanno annusata / alla svelta, calda / e ferita, e sono arrivate / roteando e ronzando” (Egrette); incontra due serpenti che attraversano veloci il bosco “come una coppia affiatata / come una danza / come una storia d’amore”; osserva ortaggi selvatici maleodoranti ma comunque da rispettare: “Quello che infiamma il sentiero non è per forza grazioso”.

Con animali e piante vive esperienze simbiotiche e metamorfizzanti, in un mistero di compenetrazione reciproca: si trasforma nell’orsa che assaggia il miele, nel pesce appeso all’amo e poi ingerito, nel vitellino allattato dalla mucca, nella cerva che beve al ruscello, nei fiori pallidi bagnati dalla pioggia,  e l’assimilazione è più fisica che mentale, più carnale che emotiva: “l’unico modo / di indurre la felicità nella tua mente è introdurla // prima nel corpo, come piccole / prugne selvatiche”, “il blu del cielo mi cade addosso // come seta, i fiori ardono, e io voglio / rivivere tutta la mia vita, riiniziare daccapo, // essere assolutamente / selvaggia”.

Persino nella palude fangosa la poeta celebra il pantano, facendosi essa stessa palude: “Mi sento /… un ramo che ancora potrebbe, / a distanza di anni, metter radice, / germogli, gemmare, fiorire – / fare della sua vita un palazzo / vibrante di foglie”. L’elemento equoreo in cui si immerge diviene amnio ancestrale, e l’accoglie non più donna ma pesce, come all’alba della vita nel nostro pianeta: “Bracciata dopo / bracciata il mio / corpo ricorda quella vita e reclama / le parti perdute di sé – / pinne, branchie che / si aprono come fiori nella / carne – le gambe / vogliono serrarsi e diventare / un muscolo solo, giuro che / conosce / l’esatta sensazione / di essere coperta / di squame grigio blu!”

I mondi animali vegetali e umani sono parte inscindibile della stessa creazione, e le sedimentazioni millenarie di ossa sepolte nel terreno – scheletri di persone e carcasse di bestie – appaiono uguali nel ciclo eterno di nascita riproduzione e morte. Officiante di una Messa panica, Mary Oliver proclama un suo “Vangelo ecocentrico”, come suggerisce Paola Loreto nella prefazione, messaggio di salvezza per il pianeta soffrente, a cui indica la sola possibilità di resistenza nel destino comune di accoglienza di tutto ciò che vive e respira.

 

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 15 ottobre 2023

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OLMI

ERMANNO OLMI, LETTERA A UNA CHIESA CHE HA DIMENTICATO GESU’ – PIEMME, MILANO 2013

Questa  Lettera a una Chiesa che ha dimenticato Gesù (Piemme, 2013), scritta dal regista Ermanno Olmi, ha i toni scoraggiati, delusi, forse anche un po’ risentiti dell’innamorato tradito, già nelle intestazioni dedicatorie: «Cara Chiesa di cristiani smarriti, dell’ufficialità, ricca per i ricchi, dei compromessi, dei dogmi, di un passato oscurantista, delle liturgie…».

Nello stesso tempo assume il linguaggio intenerito e pieno di speranza di chi ancora vuole illudersi e credere, di chi ama nonostante: e allora l’istituzione torna ad essere madre e fidanzata fedele, degna di una devozione che superi ogni ingannevole dubbio:  «Chiesa della rifioritura, della buona volontà, della verità, degli assetati di giustizia, della donazione…».

Cosa chiede Olmi, con parole ispirate e profetiche, utopistiche e rabbiose, alla Chiesa di cui si sente parte viva e sofferente? In primo luogo un’attenzione accogliente verso gli umili e i dannati della terra, capace di ritrovare «l’eroicità della donazione di se stessi»: «se quel Cristo ti vedesse oggi, cara Chiesa, ridotta alla stregua di uno Stato come tanti altri, con confini che separano, armigeri che sbarrano gli ingressi, e persino un tribunale per emettere sentenze, come ti giustificheresti?». Poi di recuperare l’amore per la terra e la natura troppo spesso asservita a interessi economici. E soprattutto di uscire da una sonnolenza secolare – che l’ha rinchiusa in atteggiamenti illiberali e punitivi, ritualistici e dogmatici – lasciando l’uomo libero nelle sue scelte e nei suoi pensieri: «Dio deve lasciarmi vivere libero. Si è impegnato nel momento in cui mi ha creato».

Una presa di posizione decisa e coraggiosa, quella di Olmi, a favore dell’apertura al nuovo, della trasparenza, di un ritrovato entusiasmo, che lo spinge addirittura a arricchire il Padre Nostro di corollari puntualizzanti, e a ridisegnare un umanissimo Cristo accanto a una Maddalena innamorata. Perché: «Prima di qualsiasi Chiesa c’è l’uomo. L’uomo è la vera chiesa dove risiede Dio».

 

© Riproduzione riservata           

www.sololibri.net/Lettera-a-una-Chiesa-che-ha.html                22 febbraio 2016

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OLMI

ERMANNO OLMI, IL VILLAGGIO DI CARTONE – ARCHINTO 2012

«O noi cambiamo il corso impresso alla Storia o sarà la Storia a cambiare noi». Ê l’epigrafe conclusiva e assertoria con cui il regista Ermanno Olmi chiude la sceneggiatura del suo film presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia 2012: Il villaggio di cartone.

Film cristiano come pochi di un regista che ha sempre fatto della sua fede nel messaggio evangelico e della sua attenzione verso gli ultimi, i perdenti, gli sconfitti dal potere, il credo cui affidare la sua arte e la sua missione di uomo. Una chiesa periferica e vuota (di fedeli, di spirito e di amore) viene minacciata dalle ruspe della civiltà capitalistica interessata solo al profitto e all’interesse economico: e ancora più pericolosamente è messa in pericolo dall’indifferenza, dal relativismo, dal dogmatismo di una comunità cattolica che non sa rinnovarsi nella direzione della speranza e della carità.
Il vecchio parroco che ne è alla guida si scopre solo e dubbioso, messo in crisi dalle parole del suo medico ateo, dall’ambiguità codarda del suo sagrestano, e soprattutto da un’invasione notturna, pacifica e disperata, di un gruppo di clandestini affamati in cerca di riparo e conforto. I vari personaggi rivestono i panni dei protagonisti del Vangelo: c’è il neonato innocente e salvatore, ci sono Giuda e Pilato (con le guardie-sgherri di un potere ottuso e violento), ci sono i puri di cuore che perseguono il bene, e i corrotti pronti a vendersi e a tradire.

Nella sua sapiente prefazione Vito Mancuso, partendo dall’amara constatazione della crisi in cui versa il cattolicesimo europeo, invoca una trasformazione della Chiesa e della religione, che per sopravvivere dovrebbero riconvertirsi, passare «da un fondamento statico a un fondamento dinamico», dall’ortodossia all’ortoprassi: scegliendo «l’esserci-per-altri», la giustizia, la persona, la spiritualità, Dio non più come risposta, ma piuttosto come domanda.

 

© Riproduzione riservata    

www.sololibri.net/villaggio-cartone-Ermanno-Olmi.html      11 maggio 2016

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ONETTI

JUAN CARLOS ONETTI, PER UNA TOMBA SENZA NOME – SUR, ROMA 2016

Juan Carlos Onetti è annoverato tra i più originali autori della letteratura sudamericana novecentesca: nato a Montevideo nel 1909, ventenne si trasferì a Buenos Aires e in età matura (in seguito alla persecuzione della dittatura militare) a Madrid, dove morì nel 1994.
La sua scrittura, fortemente innovativa e immaginosa, è apparsa da subito in anticipo sui tempi, per cui non sempre gli è stato riconosciuto da pubblico e critica il merito dovuto. Il ciclo narrativo che lo ha reso più famoso è quello formato da cinque romanzi usciti tra il 1950 e il 1979, che hanno come protagonista la vita claustrofobica e angosciante della città di Santa María.
Il libro appena pubblicato dalla casa editrice romana SUR, con traduzione di Dario Puccini, si intitola Per una tomba senza nome, ed è uscito in Argentina nel 1959, ma la data di pubblicazione non rispetta l’ordine delle vicende raccontate nell’intera saga, secondo una caratteristica tipica della produzione letteraria di Onetti, in cui tempo e racconto si sovrappongono, intersecandosi e sfaldandosi reciprocamente.
Il romanzo si apre sullo svolgersi di un funerale, che in genere (soprattutto nei paesi latini e in un passato non troppo remoto) si definisce come rito collegiale, partecipato e coralmente patito da famiglie e comunità. In effetti, come nota giustamente nella sua prefazione Antonio Pascale, la frase iniziale, espressa in un plurale collettivo, farebbe supporre l’esistenza di una molteplicità di voci e punti di vista differenti intorno alla cerimonia funebre: «Tutti noi, i notabili, noi che ci fregiamo del diritto di giocare a poker al Club Progresso e di tracciare le nostre sigle con pigra vanità in calce ai conti di bevande e pranzi al Plaza. Tutti noi sappiamo com’è un funerale a Santa María».

Invece la narrazione si riduce presto a un dialogo tra due soli protagonisti: l’io narrante – un saggio e indulgente medico di provincia – e il giovane Jorge, turbato testimone di una storia di squallore, abbandono, pregiudizi. Il primo capitolo è esemplare, nella sua asciuttezza descrittiva, nei dialoghi scarni, nell’impianto visivo quasi cinematografico: il ragazzo, tenendo legato alla fune un capro zoppicante, segue da solo la bara di una donna, accompagnandola a una sepoltura quasi clandestina in un isolato cimitero di campagna, «nella calura mansueta della luce». Lo sguardo lento del narratore plana sulla natura inaridita, sui visi dei becchini, sulla polvere della strada, offrendo improvvise pause di silenzio ai gesti dei personaggi:

«Il guardiano del cimitero tiene appeso al braccio un inutile bastone. È uscito sulla strada e ha guardato da tutti i lati. Io continuavo a fumare seduto su una pietra; i due tipi in camicia ancora tacevano appoggiati, le mani ciondolanti, appese alla cintura, alle tasche dei pantaloni. Così era. Qualche cactus, il muro del cimitero fatto di pietra su pietra, un muggito ripetuto sullo sfondo invisibile del pomeriggio. E l’estate ancora incerta nel suo sole bianco e circospetto, il ronzio, l’insistenza delle mosche nate da poco, l’odore di nafta che giungeva indolente fino a me, dall’auto. L’estate, il sudore come rugiada e il torpore».

Dopodiché la vicenda si anima, e Jorge, nel suo «rabbioso splendore di gioventù», confida al medico in una serie di incontri successivi il rapporto che l’ha legato alla donna morta, Rita García, cameriera di sua cognata: «una domestica, un’amica intima, un cane, una spia, una sorella …con un po’ di sangue indio». Di come lei si fosse affrancata dal ruolo di serva, per poi perdersi dapprima in situazioni sentimentali equivoche, quindi in un’esistenza fatta di miseria, accattonaggio, randagismo, prostituzione. Lentamente, e cospargendo il suo racconto di bugie e censure, il giovane confessa di aver approfittato della povera donna, soggiogata da numerosi altri amanti e protettori, vivendo per un anno «nell’irresponsabilità», nella sporcizia, nella frode: con Rita e con il capro che a lei era stato affidato da un occasionale amico, e da cui non riusciva a liberarsi.
Le ultime pagine del romanzo, talvolta inclini a un compiacimento eccessivo, virano verso l’iperletterarietà, tendendo a irrobustire la trama con qualche colpo di scena non del tutto motivato.
Il dottore scopre una sua vocazione documentaristica nel trascrivere le confessioni nebulose di Jorge; cerca altre testimonianze, individua probabili connessioni ed evidenti incongruenze nelle parole del ragazzo, per arrivare a concludere che forse l’unico aspetto positivo di tutta la vicenda, sospesa tra realtà e finzione, è stato proprio il fatto di averla messa sulla carta, salvandola dal nulla dell’oblio:

«L’unica cosa che conta è che nel terminare di scriverla mi sono sentito in pace, sicuro di aver ottenuto la cosa più importante che ci si può attendere da questo genere di operazione: avevo accettato una sfida, avevo trasformato in vittoria almeno una delle tante sconfitte quotidiane».

 

© Riproduzione riservata              

www.sololibri.net/Per-una-tomba-senza-nome-Onetti.html     20 febbraio 2016

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OPPEZZO

PIERA OPPEZZO, ESERCIZI D’ADDIO – INTERNO POESIA, 2021

Autrice di poesie, testi teatrali, narrativa, traduzioni, Piera Oppezzo (Torino 1934-Milano 2009) ebbe una vita e un destino letterario non facile. Nata da una famiglia di modeste condizioni economiche, si adattò a lavori umili prima di venire assunta dalla Rai a Roma, dove ebbe modo di conoscere intellettuali e artisti che incoraggiarono il suo appassionato affacciarsi al mondo della cultura, appoggiandone le prime pubblicazioni su riviste e con piccole case editrici. A metà anni sessanta si trasferì a Milano, avvicinandosi al femminismo e all’impegno politico. Nel 1966 uscì presso Einaudi una sua raccolta intitolata L’uomo qui presente, che fu ampiamente recensita e apprezzata.

Interno Poesia pubblica ora i suoi versi inediti, Esercizi d’addio, raccolti in ordine cronologico, a cura di Luciano Martinengo, con prefazione di Giovanna Rosadini e postfazione di Gaia Carnevale. Si tratta di poesie scritte tra il 1952 e il 1965, affidate dall’autrice settantacinquenne e malata all’amico Martinengo, al quale si deve la riproposizione della sua opera non solo in una scelta antologica del 2016 (Una lucida disperazione), ma anche attraverso il documentario Il mondo in una stanza, che ne ripercorre affettuosamente l’esistenza privata e l’attività letteraria.

Le poesie di cui ci occupiamo anticipano non tanto lo stile maturo della Oppezzo, più orientato verso la sperimentazione linguistica (per Giovanni Raboni “disadorno e quasi afono”, espressione “dell’appiattimento della parola al suo elementare, irriducibile nucleo gnomico”), quanto la stessa persistente tonalità malinconica, per una consapevolmente accettata e irrisolta sofferenza psicologica, segnata dalla precarietà della vita sentimentale e professionale.

Gelo, paura, luci remote, voci morte, bruma dolente, scarnite mani, pietre fredde, cani randagi, umidi asfalti, sono termini con cui la poetessa ventenne esprimeva la desolazione di una giovinezza ferita da privazioni e incomprensioni familiari, sullo sfondo di un devastante conflitto bellico: “Il ricordo della mia infanzia   /     è guerra. Un motore / nel cielo si avvicina / alla mia testa, i giocattoli diventano mostri. / Aiuto! la mia bambola è stecchita”. Nei “poveri giorni” in cui “Solo le asprezze / si ascolta”, il rimpianto per una serenità negata diventava senso di colpa per l’incapacità di sfuggire alla lugubre atmosfera ambientale: “I morti! I morti!” gridavo. / Ero alla finestra / e non passò nessuno.  //        Il vento sbandava nei miei capelli. / “I morti! I morti!” / Chi venne / e mi sollevò, quasi?  /         Ma io ero pietra, ero gelo o fiamma, / febbre o abbandono, ma non ero ancora… / – Oh, fino a quando? – /       e rimasi”.

In queste prime e acerbe poesie si possono rintracciare formule obsolete e letterariamente abusate, una certa ovvietà descrittiva, ingenui sentimentalismi, ma sempre felicemente riscattati da versi di icastica intensità: “Inutile pregare gli assenti”, “Erano sere di poca luna”, “Tutta la mia speranza  / è nel giorno pieno”. Nelle pagine successive lo stile si fa invece più asciutto, più coraggiosamente innovativo nell’uso meditato di neologismi e costrutti prosastici, di una versificazione franta, quasi elencatoria e priva di punteggiatura, di una sprezzante ironia. Si intuiscono quindi i primi germi della futura ribellione formale e contenutistica, nel coinvolgimento emotivo su argomenti di rilevanza sociale: la solidarietà con gli sfruttati, il rancore verso gli egoismi e l’ignavia del mondo adulto. La voce poetica si fa più scandita: “In casa seggo e fumo. / Ho acceso la radio / e allontanato completamente / le cose di un giorno intero”, “Indossiamo il cappotto senza fare domande / Col buon cappotto / Dimenticheremo le future violenze di stagione /   Con tutti i rischi di allagamento e siccità / Che comporta / La nostra posizione geografica”, “Chi si accorge di ciò che accade? / Neppure giugno arresta le battute di spirito / Il dolce amore per la vita è snervante e imperfetto”.

All’effusione sentimentale della prima produzione si va quindi sostituendo una più ragionata padronanza dei propri mezzi, marcata dalla polemica combattiva contro le ingiustizie, i soprusi e l’alienazione prodotta dalla società contemporanea.

 

© Riproduzione riservata        «L’Indice dei libri del mese», n.7/8, luglio 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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ORECCHIO

DAVIDE ORECCHIO, QUALCOSA SULLA TERRA – INDUSTRIA&LETTERATURA, MASSA 2022

Davide Orecchio (Roma, 1969), autore di racconti, romanzi e di un libro per l’infanzia, redattore del blog Nazione Indiana, ha pubblicato con le edizioni Industria&Letteratura una storia che racconta persone, ambienti, fatti collocati ai margini della “Storia”, troppo politicamente ed economicamente irrilevanti perché il mondo politico ed economico se ne occupi. E tanto tracimanti dolore e sofferenza da creare disagio, senso di colpa e impotenza in chi scrive e in chi legge.

Il titolo del suo breve romanzo, Qualcosa sulla terra, è tratto da una poesia di Paul Celan, i cui versi fungono da epigrafe al libro: “Fare qualcosa, / Qualcosa / fare nell’alto, nel / basso.  Qualcosa, sulla terra”.

L’incipit è concisamente drammatico, foriero di un messaggio allarmante: “Vivevo in una città che s’incendia, pazza per l’odore del fuoco. Alcuni odiavano la città e le davano fuoco. Altri, assediati dal fuoco, pure la odiavano, ora che non sapevano più comprendersi se non come vittime”. Il fuoco è il reale protagonista della narrazione, nella sua cieca violenza di elemento naturale, ingovernabile nella propria incosciente ferocia, ma orientato verso la distruzione dall’incuria, dal tornaconto o dalla malvagità umana.

Chi narra in prima persona assiste impotente e rabbioso all’imbarbarimento della sua città, ricca di storia e priva di speranza nel futuro, “città dell’arsura e dal destino desertico” assediata dalle anime nere di spettri incendiari, piromani astuti e viziosi. Svegliandosi all’alba per l’acre odore di fumo che invade l’appartamento, immagina che a bruciare siano i cumuli di rifiuti abbandonati per strada, nauseante testimonianza di degrado urbano. Scopre invece, turbato, che a venire distrutta dalle fiamme è stata l’abitazione di una donna anziana e sola, “che non apparteneva ai pensieri del mondo”, arsa nel letto mentre dormiva, in una stanza illuminata da candele perché priva di elettricità. Avvicinandosi all’edificio affumicato, incontra un vecchio in lacrime, che gli narra la triste vicenda esistenziale della vittima, da lui conosciuta all’ospedale dove erano entrambi ricoverati per Covid. Bianca, si chiamava la donna, e il suo commosso ultimo amico Gilberto.

La seconda parte del romanzo si occupa quindi di ricostruire la vita dei due pensionati condannati all’emarginazione, all’irrilevanza sociale. Altri decessi importanti erano avvenuti in quello stesso anno: una grande poeta, una grande attrice, un grande narratore, che morendo avevano un po’ ucciso anche il mondo intorno, da cui erano amati e celebrati. Ma della morte di Bianca non si sarebbe occupato nessuno: ingiustizia patita nel corso e alla fine di tutti gli anni vissuti.

L’ottantenne Gilberto, che divideva le sue due stanze con il gatto Alberto, narrando della subdola infezione che nell’anno trascorso gli aveva tolto il respiro, descrive all’autore del romanzo il suo ricovero e le cure, quando nella città deserta e spaventata si sentivano ululare solo le sirene delle ambulanze, e le famiglie e i condomini rimanevano asserragliati nel proprio egoismo e nella paura.

Qui la narrazione di Davide Orecchio assume contorni fiabeschi, perché protagonisti diventano gli animali, il gatto di Gilberto, la gatta Lisa di Bianca, che entrambi disperati rincorrono l’ambulanza dove sono stati caricati i loro padroni, colpiti dallo stesso morbo e ricoverati nello stesso ospedale. I due gatti, fino ad allora estranei l’uno all’altro, si perdono insieme nel gelo di viali e piazze spettrali, vengono attaccati e feriti da uno stormo di gabbiani feroci, e poi salvati dall’intervento di un cane randagio che li conduce verso il nosocomio a cercare Bianca e Gilberto.

La scrittura si fa ansiosa, ritmica, smozzicata, replicante l’oralità delle frasi pronunciate balbettando, come temesse il suo stesso procedere verso una tragedia annunciata.

I gatti rivedranno i loro padroni, intubati in due letti vicini, e li saluteranno attraverso il vetro della terapia intensiva: metafora di quattro esseri innocenti che tutti insieme patiscono il male del mondo.

Il racconto di Davide Orecchio si conclude con un accenno solidale al percorso umano di Bianca, una pensionata dall’esistenza mansueta comune a tanti anziani, che “per distrazione o penuria” non pagava le bollette della luce, e aveva affidato il suo sonno a delle candele.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 19 dicembre 2022

 

 

 

 

 

 

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ORELLI

GIOVANNI ORELLI, IL SOGNO DI WALACEK – EINAUDI, TORINO 1992

Giovanni Orelli, autore ticinese tra i più noti e autorevoli, professore a Lugano e pubblicista, sembra aver trovato negli ultimi due anni una seconda giovinezza come scrittore e poeta. Ne danno testimonianza i due volumi editi da Casagrande di Bellinzona (i versi di Concertino per rane e la ristampa del romanzo L’anno della valanga), e il recente Il sogno di Walacek, pubblicato da Einaudi. Definito da Cesare Segre «una riflessione laica sul destino in forma di scherzo», questo che in realtà romanzo non è, si rivela irridente, sarcastica, vertiginosa metafora narrativa della storia, (quella, deludente e meschina, di oggi, e quella febbrile e malata degli anni antecedenti la seconda guerra mondiale), ma anche della pittura, e soprattutto del calcio come espressione e passione tra le più vitali della nostra cultura.
Génia Walacek, mezzala della Nazionale Svizzera nonostante la sua origine evidentemente slava, nato a Mosca nel 1916, rifugiato a Ginevra per sfuggire alla Rivoluzione, fu autore della vittoria della misconosciuta squadra elvetica sulla potente Germania hitleriana alla Coppa del Mondo nel giugno del ’38 (4-2 al Parco dei Principi di Parigi), sfida e umiliazione tra le più pesanti per la boria nazista. Davide contro Golia, la Svizzera batte la Germania: la piccola, neutrale Confederazione, allora rifugio di tutti i “degenerati” razziali e culturali d’Europa, sconfigge l’imponente, vittoriosa, tronfia Germania del dopo Anschluss. E il miracolo avviene su un campo di calcio, in uno sventolio di bandiere dalle croci antitetiche (nefasta, quella nera uncinata, angelica quella bianca confederata). Walacek è strumento di vendetta divina, a lui si rivolgono le preghiere dell’Europa libera: «Cerca, quando giocherai a Parigi contro Hitler, perché Alles ist Politik…cerca di fare un palleggio da dio: en surplace, che spiazzi, che smonti, che ridimensioni al limite dello zero il tuo terzino nazista».

Il gioco del calcio diventa allora resistenza al nemico, opposizione intelligente alla stupidità della forza bruta, da invocare come simbolo di normalità e salute: «pregare l’angelo di legno comperato una volta, prima che venissero a turbare i giorni della pace, a Düsseldorf: chiedergli di mandare ancora partite tante, tutte le domeniche, con lo stadio che poi si sfolla adagio adagio, e i tram che scampanellano alle curve e agli incroci, riportano a casa gli uomini della partita, bene in tempo per la cena. Sì, la guerra è mancanza, è perdita di fantasia».

Un altro personaggio inviso alla normalizzante e ottusa cultura nazista di allora, il pittore Paul Klee, incrocia il suo destino di profeta e angelo ribelle, di oppositore visionario e purissimo alla lucida follia hitleriana, con la strada percorsa dal calciatore Walacek. Walacek aveva giocato il 18 aprile del ’38 la finale di Coppa Svizzera (Grasshoppers ZH-Servette GE 2-2). «Il giorno dopo… succede un fatto apparentemente privo di ogni importanza, uno degli infiniti fatti quotidiani che compongono, nella loro banalità, la vita degli esseri umani. Uno dei pittori degeneri, giusta l’estetica nazista, di nome Paul Klee, prende un foglio di giornale di quel 19 aprile, e si serve del foglio, invece che di una tela, per dipingere un quadro. Il quadro si chiamerà ALPHABET I».

Il giornale è la  National Zeitung, la pagina è la pagina 13, quella dello sport, con la cronaca della partita del giorno prima. Paul Klee «con mano di ladro celeste» vi disegna le lettere dell’alfabeto, e la lettera O (la tredicesima) viene a tagliare a metà il nome della mezzala cecoslovacca Walacek.
La pittura diventa profezia: la O di Klee (oppure era uno zero? Un anello ammaccato, una cornice deformata, un teatro, un circo, una ruota, un occhio di gatto, la sezione trasversale di un tronco, un buco nero, l’idea ordinata di cosmo, l’ovale della lapide dell’attaccante austriaco Sindelar, suicida dopo l’Anschluss? Giovanni Orelli infittisce le ipotesi, le interpretazioni, in un ininterrotto e travolgente crescendo di associazioni, ricordi, illuminazioni…), la O di Klee dunque segna per sempre un nome, quello di Walacek, destinato altrimenti a perdersi nella memoria labile degli sportivi, lo fissa – cancellandolo a metà – nella memoria più duratura dell’arte, e lo rende perenne.
Lo scrittore Orelli si cita e si mimetizza dietro la sigla dello scriba 0/17360, vox clamans in un’osteria ticinese, tra avventori distratti e polemici, voci anonime e figure storiche che si incarnano improvvisamente (Schopenhauer e Marina Cvetaeva, Freud e Joseph Roth, Ariosto e Nietzsche, Leopardi e Victor Sklovskij): ed è un fantasmagorico, inebriante turbinio di citazioni, versi, riflessioni filosofiche, terzine composte con nomi di giocatori o formazioni immaginarie e prodigiose. Orelli diventa egli stesso regista di un’animata partita di calcio, dove la palla è la parola, che rimbalza, vola, colpisce, e l’autore è abilissimo nello scartare, nel passare e nel marcare: blocca, respinge di punta e di tacco, smanaccia, si tuffa e finalmente infila, inaspettato e temuto, il colpo vincente e imparabile. I due protagonisti recitano genialmente i loro ruoli; Walacek segna gol, Klee dipinge. Entrambi pronunciano il loro secco no al nazismo. Si ritroveranno, due anni dopo. Ad avvicinarli sarà di nuovo un giornale («enciclopedia del quotidiano»), che tace la morte di Klee, avvenuta il 29 giugno del ’40, e cita, esaltandole, alcune prodezze calcistiche di Walacek. Sembra la vittoria dell’effimero: Klee viene cremato e le sue ceneri sono affidate a mani di semplici personaggi ticinesi, per l’ultimo commovente viaggio tra colori che non può vedere.

 

«L’Arena», 1 ottobre 1992

RECENSIONI

ORELLI

GIOVANNI ORELLI, IL TRENO DELLE ITALIANE – DONZELLI, ROMA 1995

Probabilmente non è la lettura sociologica, come sembra suggerire il risvolto di copertina, quella da privilegiare nell’accostarsi all’ultimo bel romanzo di Giovanni Orelli, Il treno delle italiane. Certo, Orelli rimane uno dei pochi scrittori in lingua italiana per cui si può parlare di letteratura civile, lui che proviene e anima quell’estrema, privilegiata provincia portofranco del nostro paese che è il Canton Ticino; a cavallo tra due culture spesso in antagonismo, ne patisce le contraddizioni di interprete in bilico tra critica appassionata e solidarietà, e insieme possiede quel distacco che gli permette un’analisi intellettuale sempre feconda. Così è soprattutto il dato di partenza di questo nuovo romanzo, ambientato nel Ticino del dopoguerra, a potersi fregiare di un’interpretazione impegnata, politica. Io parlante è un bigliettaio della linea ferroviaria che attraversa la Svizzera da sud a nord, trasportando emigrati dal Meridione o dal Veneto, lavoratori carichi di storie e di Storia, che arrivano pieni di ansie e di desideri in un paese risparmiato dalla guerra e dalle sofferenze, e forse per questo più superficiale e più crudele. Alla voce del ferroviere (che oltre alla sua funzione professionale svolge anche quella di umanissimo consigliere-confessore di chi viaggia) si affiancano o sovrappongono altre voci narranti, secondo uno stile proprio di Orelli, e già sperimentato altrove. Come in un labirinto di divagazioni, associazioni più o meno volontarie, episodi e personaggi si incastrano tra loro, esibendo sempre una propria necessità. E da puzzle pieno di figurine mordilliane, le pagine si vanno man mano trasformando, ai nostri occhi incuriositi e ammirati di lettori, in un gioco di scatole cinesi per poi sciogliersi invece in una specie di affresco corale, che ha qualcosa dell’arte puntuale ed epica del pittore elvetico Ferdinand Hodler. Giovanni Orelli sa farsi caleidoscopico cantore di una storia collettiva, e anche offrirci sapori di una Svizzera valligiana molto concreta, con le sue navi le sue erbe i suoi doganieri rudi e pudici. I treni che attraversavano il Ticino dopo la guerra erano pieni di ragazze italiane, brave a lavorare nelle case e a tormentare gli uomini nella carne. Erano ragazze spaventate ma ambiziose, che appena varcata la frontiera, si accorciavano i nomi e le gonne, sventolavano i fazzoletti fuori dai finestrini, offrendosi all’aria svizzera e agli sguardi di chi le aspettava. Ai marosseri, innanzitutto: che erano mediatori, sensali, e procuravano loro l’occupazione e un posto dove vivere, chiedendo sempre in cambio qualcosa di prezioso: il primo stipendio, e altro. Tra le numerose storie narrate (della Volpina, della Lisetta, della Ludo), il bigliettaio dei treni delle italiane finisce per raccontarne una in particolare: quella di Marina, serva del marossero suo coinquilino, che se l’era fatta venire in casa per il bene del figlio Giuliano, ragazzo mite e originale, il quale preferiva i severi studi universitari e le corse in moto nei boschi alle passioni ancillari del padre. Ma è proprio il genitore a combinargli un capodanno da passare in montagna con la servetta, imponendogli un’iniziazione sessuale secondo parametri che il figlio rifiuta. Infatti Giuliano e Marina vivono con purezza tutta adolescenziale il viaggio in treno nella neve, la veglia alla nascita di un vitello, il giro delle osterie del paese a sentir storie vecchie dai contadini, il proposito di dormire insieme, sì, ma vestiti e senza toccarsi. E già tutto questo costituirebbe un rifiuto intransigente del volgare buon senso adulto. Ma il ragazzo va oltre, e la violenza del suo no ha la secchezza dello sparo di fucile con cui si ammazza, poco prima che inizi l’anno nuovo. Qui la prosa di Orelli, già di suo così nervosa, riesce a farsi poesia, lieve, immaginifica, nel descrivere il rimpianto tormentato di Marina, lo sgomento ottuso e tanto più penoso del padre, il silenzio imbarazzato dei funerali; e la madre che non accetta, e torna su in montagna dove il figlio si è ucciso, si siede in mezzo al cortile, lasciandosi coprire di neve, non più donna, ma come il suo ragazzo «quattro ossa e, come si conviene, come desidera, rapidamente, un pugnetto di polvere grigia».

 

«L’Arena», 23 gennaio 1996

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ORELLI

GIOVANNI ORELLI, CONCERTINO PER RANE – CASAGRANDE, BELLINZONA 1991

Ogni letteratura è piena di animali, pullula di presenze in- e vertebrate (amiche o minacciose, mitiche o carnali, fiabesche o orripilanti), alter ego a due, quattro, sei zampe degli autori, che in esse riconoscono il segno di un destino comune, di una somiglianza o di una discrepanza comunque parificante. Dal bove di Carducci, alla farfalla di Gozzano, all’anguilla-upupa-volpe di Montale, la nostra poesia non fa eccezione: così si inserisce in una consolidata tradizione il Concertino per rane di Giovanni Orelli, dove la rana è assunta a pretesto e simbolo dell’umana sorte. Vivono un’ambivalenza di fondo, le rane, in questo volume: da un lato vittime di una natura terrificante nella propria crudele indifferenza ai singoli destini degli esseri viventi, oppure martiri di un’ altrettanto spietata eliminazione da parte degli uomini, per motivi scientifici o culinari («…erano un pasto paesano, oggi le acquistano / ristoranti quotati. Il nemico però / è il Ddt, per non contare quelle / che si fanno imbalsamare sull’asfalto / in chiazze di sozzura…»), dall’altro assurgono a simbolo religioso, tra il biblico e l’evangelico: «Una rana, Aretusa degli anuri, / una povera crista un tempo acrobata, / poi clown, poi sudicia meticcia, / fornicatrice che trascina la pelle / come una buccia non sua / in mezzo a un polveroso palcoscenico / da ragazzi con le canne aguzze / è aizzata verso un loro Sinedrio. / Qualcuno denuncerà il suo calvario».

Hanno, le rane, un conto in sospeso anche con la storia personale del poeta, che ha nel corso della sua esistenza avuto a che fare con più di una di loro, dalla primissima infanzia (la mia prima rana non è stata quella / del sillabario, delle rrrr in coro… // La mia prima rana / viene da un fango più lontano. / Rane e capre della mia primavera.), fino all’adolescenza delle violenze ingiustificate e ingiustificabili anche agli occhi indulgenti e pietosi del rimorso adulto: «La ur-rana, originaria, / quella che ho infilzato, sbudellato, / quelle che ho ammazzato e venduto // …ma quando andiamo ai pozzi dove le rane saltano / caldi i piedi ed asciutti nei nostri verdi stivali- / siamo un po’ un’ Hitlerjugend / un lupo che irrompe nel ghetto».

Associazione forte e angosciante quella tra le rane agguantate e infilate in sacchetti e le vittime innocenti di carneficine naziste, in un olocausto perpetuante la gratuita malvagità umana; meno sanguinario ma altrettanto sconcertante il collegamento tra le rane e le donne amate-vagheggiate («Lorena rana rupta; …rana-lui copriva rana-lei»), donne bambine, donne madri, donne morte («Di una, grassa, nella bara, dissero / -Pare una rana-. E: -amen-»). Fino all’identificazione totale rana-poeta. C’è il rischio (incombente in ogni raccolta a tema) che il riferimento costante agli anfibi forzi un po’ la mano all’autore, inducendolo a insistere in un’allegoria non sempre motivata: rischio che tuttavia si stempera nell’ampiezza dei rimandi culturali (da Fedro a Dante a Keplero, fino a Marina Cvetaeva e a Paolo Spriano), e nel linguaggio spesso allusivo e fuorviante, ironico e indignato, che mima la nevrosi della lingua dei giornali e quotidiana, usando sapientemente le più diverse figure retoriche. Ci resterà negli occhi e nel cuore questa rana che guarda «senza ira/ ma anche senza desiderio, / come guarda, a bocca chiusa, una rana / in mezzo a erba falciata», testimone muta di un mondo e di una società che non capisce.

«Eco di Locarno», 5 aprile 1991

RECENSIONI

ORELLI

GIOVANNI ORELLI, NÉ TIMO NÉ MAGGIORANA – MARCOS Y MARCOS, MILANO 1996

“Le api suggono i fiori di qua e di là, ma poi ne fanno miele. Ed è miele loro in tutto, non più né timo né maggiorana: così l’autore delle cose prese in prestito da altri: le trasformerà e mescolerà per farne una cosa tutta sua, giusta il suo modo di vedere le cose”. Questa frase, tratta dagli Essais di Montaigne, fa da epigrafe al libro di Giovanni Orelli Né timo né maggiorana, sessanta sonetti pubblicati nel 1996 che spaziano dall’eros alla morte, dalla memoria personale alla polemica politica o civile. Sonetti onnivori e onnicomprensivi, pervasi da un’ansia di raccontare e raccontarsi che li rende agli occhi di un lettore di poesia, abituato ormai a un certo ermetismo formale e orfismo criptico nei contenuti, tanto più originali e sconcertanti. Difficile, infatti, trovare antenati o padrini alla poesia di Giovanni Orelli (1928-2016). Giustamente Remo Fasani nell’introduzione parla di “vena narrativa”, che si esplica nella preferenza data ai versi lunghi, e soprattutto in un contenutismo esasperato: voglia di dire tutto, e con una certa eccitata tensione comunicativa. Rimane, della tradizione, l’involucro formale del sonetto: due quartine e due terzine, ma per così dire sbeffeggiato, preso in giro da un’innovazione continua e dissacrante: rime false o strabordanti, enjambement provocatori, metrica strapazzata…

Anche i contenuti della poesia sono vari e fantasmagorici: il Ticino, la Svizzera di Orelli c’entrano di sbieco, in questa raccolta. Qualche profumo e colore, qualche faccia contadina o frase dialettale. Invece protagonista è il mondo intero, con i suoi avvenimenti tra storia e cronaca, con le ideologie e le utopie. In particolare, la danza vorticosa tra eros e thanatos sembra molto interessare il poeta. Un eros libero e gioioso, “vertigine di vento” che si insinua tra occhi e pensieri, subdolo e invincibile, per esplodere poi esaltato ed esaltante: “il Robinson che esplora è la mia mano sola, / giunge a una Sierra Madre penetra un folto / di piume, l’occhio intanto cerca il tuo volto / insegue un guizzo che nell’iride vola, / il sangue che ti trema nella gola, / il tuo ventre che esulta, dalle catene della mente sciolto”.

Ci troviamo davanti a una carambola di occhi, seni, capelli, gambe che costituiscono un vero inno alla vita e alla felicità, chiosato da un verso-viatico-programma esistenziale: “misura per amare è amare, sempre, senza misura”. A questo imperativo fa da contraltare un richiamo ossessivo alla morte, al disfacimento del corpo, temuto eppure aspettato. Gli accenni alla fine sono così ripetuti da sembrare quasi apotropaici: (“Giovanni Orelli è morto? No, per Zeus, ma è giù di forze”, “Morirai, e sarà libero un posto…”, “due volte con le sue ali mi ha sfiorato / nostra sorella morte…”, “Ovunque il guardo giro è, per metastasi, un diffuso odore / di morte…”), ma comunque anch’essi travolti da un incoercibile amor vitae.

Il volume è corredato, in chiusura, da una serie impressionante di note, che rimandano alle letture da cui sono scaturiti i sonetti: letture le più varie, di antropologia, scienza, storia, filosofia o religione, a indicare la molteplicità e la varietà degli interessi dell’autore, oltre che la sua abilità a sfruttare per fini poetici qualsiasi argomento, con un distacco razionale dalla materia egregiamente dominata e asservita.

Giovanni Orelli appare qui un innamorato entusiasta, che nei versi mostra le tenerezze e le improvvise rabbie di tutti gli amanti: “così vi insulto miei versi, veterosonetti / vi chiamo rimbambiti libidinosi antipatici avari / male invecchiati trasandati: sì, ciabatte, / voi versi siete le mie capre malnate / e io il becco che dovrebbero castrare. / C’è un punto, sotto il sole, tutto per voi: voi fate latte”. Un latte nutrito da timo maggiorana e altre sapide erbe, che il vulcanico poeta-narratore-saggista ticinese ha lasciato in eredità ai tanti lettori che tuttora avvertono la sua mancanza.

 

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SoloLibri.net › … › Né timo né maggiorana di Giovanni Orelli              22 gennaio 2023