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RECENSIONI

NOOTEBOOM

CEES NOOTEBOOM, L’OCCHIO DEL MONACO – EINAUDI, TORINO 2019

Nel 2016 Einaudi ha pubblicato un’antologia delle raccolte poetiche di Cees Nooteboom, scrittore olandese (L’Aja, 1933) di cui sono stati tradotti in Italia diversi romanzi, racconti e reportage di viaggio. Quest’anno è uscito un suo nuovo volume di versi, L’occhio del monaco, sempre per l’editore torinese, con l’attenta versione di Fulvio Ferrari. Si tratta di 33 composizioni in forma chiusa, di tre quartine caudate, in cui la coda è costituita da un emistichio reso perlopiù in italiano in settenario o in quinario. Secondo la nota conclusiva dell’autore, le poesie – scritte tra il dicembre 2015 e l’aprile 2016 – traggono ispirazione da esperienze oniriche o visionarie vissute nell’isola frisona di Schiermonnikoog, letteralmente “isola del monaci grigi”, nome derivatole dall’abbazia cistercense lì edificata nel medioevo.

Sono versi sospesi in una fredda atmosfera nordica, pregna di silenzio e solitudine, sullo sfondo di bianche sabbie sottili, correnti marine agitate, venti gelidi, pioggia sferzante. Nelle sere illuminate dalla luce del faro, o nelle albe gelide, uniche presenze di vita sono i gabbiani lamentosi, le funeree cornacchie, le martore zampettanti tra le dune.  Altrimenti, sono i fantasmi del passato che tornano ad assediare, benevoli o minacciosi, la memoria del poeta, rinfocolando rimpianti, sensi di colpa, nostalgie: i genitori, i fratelli, la prima donna amata: «Qui incontro chiunque, demoni di altre / vite, animali d’un blasone dimenticato, / donne in forma di leone, unicorni, / maiali in maschera… // Così tutto ritorna», «lo stridio d’un primo desiderio, / disperso e frantumato contro una quantità / di anni, il cardo del non voler dimenticare, / portami con te, portami con te, // ma dove?», «Perché non ci lasciano in pace, i morti?».

I sogni, confusi con la realtà quotidiana di giornate vuote, nel paesaggio di un’isola concreta che diventa archetipica, conducono con sé messaggeri di un’aldilà irraggiungibile: un «dio faticoso» seduto sul bordo del letto, «sei angeli con ali stanche», un oscuro monaco cechoviano, filosofi greci dialoganti di argomenti etici, Paul Valery che interroga Leonardo da Vinci sull’esistenza dell’anima. Quesiti eterni su cui Nooteboom sembra accanirsi, in un’esplorazione assidua del perché dell’esistere, o nell’indagine tormentante sull’essenza della poesia, sul dovere testimoniale della parola («Quando comincia un mottetto, / una poesia, una luce che appare senza fonte? / Chi pensa un primo verso prima di pensare?»). Incubi e fantasie si alternano a riflessioni meditative, stimolate quasi dall’assenza di suoni e dal vuoto di figure umane dell’ambiente, di cui il poeta sa sottolineare con acuta sensibilità il fascino segreto e impalpabile: «Nubi di zinco, casematte d’acqua, grigie, / vaganti alla luce del pomeriggio, rumore d’onde», «non dune, ma rocce, / nere, piante con uncini e denti, capaci di bere la pietra aggrappate alla sabbia», «Vento, la prima luce, / il mattino pieno di chiacchiere di uccelli, cannaiole, / avocette, // svassi, una lingua che non parlo, che ascolto». Proprio alla quiete secolare dell’isola grigia, Cees Nooteboom pare voler chiedere il velo di nebbia clemente «che tutto nasconde», affinché ogni cosa torni «in ordine», «a posto», offrendo finalmente una risposta a chi da tanto tempo la sta cercando.

 

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«Il Pickwick», 3 aprile 2019, «L’Indice dei libri del mese» n.5, maggio 2019

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

NORI

PAOLO NORI, A BOLOGNA LE BICI ERANO COME I CANI – EDICICLO, PORTOGRUARO 2010

Uno “stream of consciousness”padano, anzi emilano, anzi: tutto bolognese. Ambientato in una città che sa di provincia antica, tra gente poco più che proletaria, e dove biciclette e treni sono più comuni delle auto di lusso. Dove stravince in umanità la periferia fatta di condomini modesti, con appartamenti acquistati col mutuo, e il genere umano è popolato di figure stralunate e ironiche, unite tra loro da una solidarietà pietosa e partecipe. Chi scrive in prima persona sembra fare il verso alla figura dell’intellettuale in voga oggi, diviso tra letture e conferenze in varie città, una vita solitaria da separato, con fidanzate che nemmeno sanno di esserlo, e una bambina piccola e graffiante (“la Battaglia”) che vede il padre due volte la settimana e lo segue in bici, regalandogli le sue perle di saggezza e ingenuità sarcastica. A questo stranito protagonista, che ricorda alcune figure felliniane, un vicino di casa consegna prima di morire (suicida? ammazzato? di dolore?) due cassette registrate, da sbobinare per farne un libro. Questo anziano, ex meccanico di biciclette, chiamato Benito, ha dei tic, delle nevrosi operaie molto particolari. Per esempio, la fissazione che i giapponesi lo odino senza motivo, per cui in tutti coloro che gli sono ostili vede dei nipponici. Benito nella registrazione rivela al figlio professore, che vive in un’altra città e lo trascura, di non essere il suo vero padre: e gli racconta con amaro umorismo la sua vita di pover’uomo, costretto in un matrimonio banale con la Germana, e poi minimi e colpevolizzanti tradimenti, divertentissime visite obbligate a noiosi e ridicoli parenti milanesi, amici del bar equivoci e ingannatori, la morte misteriosa della moglie censurata nella memoria per anni. I racconti del meccanico e quello dello scrittore si intrecciano confondendosi e riecheggiandosi. Ne risulta un libro spiritoso e malinconico insieme, fatto di riuscitissimi bozzetti e figure a tutto tondo, vivo di una sapienza disillusa, e pensierosa.

 

IBS, 16 dicembre 2010

RECENSIONI

NORI

PAOLO NORI, LA MERAVIGLIOSA UTILITA’ DEL FILO A PIOMBO – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2011

Paolo Nori scrive discorsi: non solo, ovviamente. Anche romanzi, articoli, interventi radiofonici. E traduce dal russo. Ma soprattutto scrive discorsi, nel senso che scrive nello stesso modo in cui parla, con gli intercalari, le ripetizioni, le domande retoriche, i vezzi (a volte anche troppo esibiti) che si usano nel parlato quotidiano: colloquiale, dimesso, semplice: “L’aria, dentro la macchina,diventa più aria,non so se mi spiego,come se avesse più senso, non so se mi spiego.”, “Non so,per esempio,faccio un altro esempio.Non so per esempio quest’estate..”, “Tre multe, be’queste cose qua, adesso, io penso di no, ma lì è una questione, è difficile,son punti di vista..”.

In genere i suoi racconti un po’ stralunati, surreali, ma sempre divertenti, li legge in convegni, a teatro, all’inaugurazione di mostre: come nel caso di questo volume, che raccoglie sei brani tutti “recitati” davanti a un pubblico, intrattenuto su argomenti e temi seriosi con argomenti e temi che hanno la levità e il gusto del vero umorismo. Credo che non si possa definire Nori un autore ironico, tantomeno sarcastico: non si sente nella sua scrittura alcun aculeus mordace, alcuna risata sardonica. Ma amarezza disincantata sì, e quasi un candore stupito di fronte alla insulsaggine delle mode, al falso progresso della tecnica, ai paradossi della cultura post-moderna. Con un richiamo accorato al buon senso, a un criticismo onesto, alla saggezza della quotidianità. Insieme all’entusiasmo dichiarato per la poesia, e per una narrativa che non si riduca a divertissment da salotto. Insomma, non ci si può spacciare per conoscitori di Wittgenstein solo citando un abusato e alquanto banale aforisma, nè si può dissertare di musica contemporanea fingendosi assorti ammiratori di 4’33” di Cage… Leggendo Nori si ride, e si pensa. Non è poco.

 

IBS, 1 aprile 2011

RECENSIONI

NORI

PAOLO NORI, VI AVVERTO CHE VIVO PER L’ULTIMA VOLTA – MONDADORI, MILANO 2023

 Paolo Nori (Parma 1963), romanziere, traduttore, saggista, docente universitario, si occupa soprattutto di letteratura russa, e il suo ultimo lavoro è dedicato alla poetessa (anzi, poeta, come giustamente pretendeva di essere definita) Anna Achmatova. Il libro, Vi avverto che vivo per l’ultima volta, ha come sottotitolo Noi e Anna Achmatova, esplicita indicazione di come vada letto, sottintendendo un’ammirata complicità con la vita e l’arte della protagonista. Ma non solo. Perché la tragica vicenda esistenziale di lei, perseguitata insieme alla famiglia dal potere bolscevico e impedita nella libera manifestazione del pensiero e degli scritti, riverbera riflessi anche sui tragici avvenimenti contemporanei di oppressione antidemocratica, intolleranza, aggressività ed egoismo.

Chi era, dunque, Anna Achmatova? Nata nei pressi di Odessa nel 1889 (quindi ucraina?), morì a Mosca nel 1966, essendo vissuta perlopiù a Leningrado, oggi Pietroburgo, o nel vicino centro di Carskoe Selo (perciò russa?), tornata a Kiev dopo il divorzio dei genitori (di nuovo ucraina, come Gogol’, Bulgakov e Isaak Babel’?), si sposò una prima volta con il poeta russo Nikola Gumilëv, passando però lunghe vacanze in Crimea. Paolo Nori sottolinea questa sua duplice ma univoca nazionalità, oggi messa dolorosamente in discussione: Anna Achmatova era poeta di lingua russa, e la sua scrittura ha superato confini, burocrazie, eserciti, alzandosi a livelli di tale eccezionale sensibilità e maestria formale da non poter venire ingabbiata in nessuna coercitiva definizione di genere o provenienza.

Il suo vero cognome era Gorenko, ma il padre – ingegnere navale ucraino e funzionario pubblico di origine nobile –, l’aveva diffidata dall’usarlo per le sue poesie, attività secondo lui decisamente “discutibile”. Scelse pertanto di firmarsi con il cognome della nonna materna, discendente da una principessa tartara erede di Čingis kan. Selvaggia da bambina, “strega” da sposa secondo la definizione del marito, Anna Achmatova era una donna bellissima, intensa, severa. Sembrava imperiosamente alta pur essendo di statura media, elegante anche se vestita in modo dimesso, aveva una voce roca eppure quando parlava calava intorno a lei un intimorito silenzio. In alcune situazioni si dimostrava arrogante, in altre addirittura spietata. Di sé sembra ripetesse: “da sempre vivo così, sconsolata”.

Del suo fascino catalizzante furono testimoni amici, intellettuali, poeti come Osip Mandel’štam e il premio Nobel Iosif Brodskij. Tre volte condannata dal Comitato centrale del Partito comunista sovietico, le uccisero due mariti e le arrestarono il figlio: veniva spiata, pedinata, censurata; per diffondere i suoi versi li recitava o dettava alle amiche, che li imparavano a memoria e li divulgavano clandestinamente. Il funzionario di partito Ždanov la fece escludere nel 1946 dall’Unione degli scrittori con l’accusa di falsità, decadenza, elitarismo, disimpegno politico: “Mezza suora, mezza prostituta, o meglio, sia suora che prostituta, mischia il sesso alle preghiere; questa è l’Achmatova, con la sua piccola, misera vita privata, le sue emozioni insignificanti e il suo erotismo mistico-religioso. La poesia dell’Achmatova è lontanissima dal popolo”.

Paolo Nori ripercorre gli snodi fondamentali dell’esistenza di lei inframezzandoli non solo con commenti e riflessioni personali, ma soprattutto con estese digressioni autobiografiche e memorie private: ci racconta della nonna Carmela (“a casa sua c’era una miseria che quando son diventati poveri hanno fatto una festa”), delle lezioni universitarie e dei frequenti viaggi in Russia sulle tracce di scrittori amati, di una lunga degenza ospedaliera nel reparto Grandi ustionati, di altre totalizzanti passioni (il tifo per la squadra del Parma, l’adorazione per il poeta futurista Chlebnikov, l’aria respirata nelle biblioteche, moglie e figlia soprannominate spiritosamente Togliatti e Battaglia, i mistici sufi, la carta oro di Trenitalia…). Si sofferma in particolare sulla propria angosciata reazione allo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, con gli incredibili e farseschi episodi di censura verso la cultura e l’arte russa che ne sono seguiti: l’espulsione di sportivi e artisti da manifestazioni come la Champions League e la finale dell’Eurovision, il divieto di eseguire sinfonie e balletti di Čajkovskij, la rottura di contratti con musicisti di fama internazionale. In quel periodo uno stupido affronto diretto alla sua attività di docente lo aveva ferito e indignato, quando l’Università Bicocca di Milano arrivò ad annullargli seminario su Dostoevskij   programmato da tempo, tra le proteste di molti intellettuali italiani ed europei.

Con lo stile che gli è proprio, colloquiale e travolgente, scandito da frasi brevi, semplicissime, spesso ripetitive, intessuto di intercalari domestici in cui pare addirittura di ascoltare la cadenza dialettale emiliana, Paolo Nori ci coinvolge in un susseguirsi incalzante di episodi della propria vita, ironici e autoironici, per condurci empaticamente a riflettere su questioni di rilievo etico e politico, o ad approfondire alcuni tra i tanti temi e personaggi citati. Quando leggo i suoi libri, mi capita di scoppiare a ridere improvvisamente, poi di commuovermi, poi ancora di irritarmi: credo di dovergliene essere grata, perché mi evita la noia e il disappunto procuratomi da tanta narrativa italiana contemporanea.

Di Anna Achmatova qui scrive di sguincio, in rapporto a tutto ciò che le girava intorno, accennando a riunioni di scrittori, cabaret, riviste letterarie, poetesse rivali, Blok, Mandel’štam, Majakovskij, Cvetaeva, Bulgakov, Modigliani, mariti e amanti. Gli splendidi versi della poeta, pubblicati a partire dal 1912 con la prima raccolta, Sera, vengono citati con parsimonia, e soprattutto non commentati criticamente. Lontano da qualsiasi pretesa di interpretazione accademica, l’autore ne trascrive alcuni giusto per chiosare diverse sensazioni o circostanze biografiche della donna: il rapporto difficile con il figlio, le separazioni sentimentali, la nostalgia per l’illustre passato della Russia, la coraggiosa resistenza all’ottusità del potere. “Io sono un appassionato, non un esperto”, scrive per giustificare il proprio scarso interesse letterario verso ogni valutazione formale.

C’è una poesia dell’Achmatova che mi sembra bellissima, e purtroppo non è compresa in questo volume, Il canto dell’ultimo incontro, in cui lei per indicare il suo turbamento mentre si reca nella casa dell’amato prima di lasciarlo, non accenna a tristezza o paura, ma usa pochi indicatori, a metà tra metafore e correlativi oggettivi: il guanto destro infilato per sbaglio sulla mano sinistra, i gradini che sembrano tanti ma sono solo tre, la luce della candele nella casa buia che ardono di un lume “indifferente e giallo”. Non amava indulgere a introspezioni retoriche, ma era straordinaria nel rendere le emozioni attraverso l’uso di immagini puntuali e insolite.

Troppo poche le poesie presenti in un volume che voleva essere un omaggio alla più grande poeta russa del ’900. Ma almeno di un altro addio in versi Paolo Nori offre opportuna testimonianza, ed è raccontato in Ultimo brindisi. Mi sembra giusto riportarlo, come un regalo fatto a noi lettori, che “ci facciamo invadere dalla bestialità. Che non ci rendiamo conto di quello che stiamo diventando e che, forse, siamo già diventati”:

“Bevo a una casa distrutta, / alla mia vita sciagurata, / a solitudini vissute in due / e bevo anche a te: / all’inganno di labbra che tradirono, / al morto gelo dei tuoi occhi, / a un mondo crudele e rozzo, / a un Dio che non ci ha salvato”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 3 aprile 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

NOTA

DAVIDE NOTA, GLI ORFANI – OEDIPUS, SALERNO 2016

 

Davide Nota (1981), poeta, critico letterario ed editore marchigiano (suo il marchio Sigismundus di Ascoli Piceno), ha pubblicato presso Oèdipus una raccolta di otto racconti intitolata Gli orfani. Eterogenei per argomento e ambientazione, sono tuttavia accomunati da una ricerca formale assidua ed esibita, obbediente a stilemi ripetuti: l’aggettivazione ricercata e originale, le metafore spiazzanti, una sentenziosità quasi altera.

Solo due racconti rispondono a un certo realismo autobiografico: Il ritorno e Dana. Nel primo, l’autore narra di un suo precario lavoro presso un caseificio nella periferia romana, che gli permetteva – dopo la laurea – di mantenersi decorosamente, dedicandosi nel tempo libero alla passione per la scrittura. Durante questo periodo fu colto da un’illuminazione esistenziale, un’imprevedibile epifania che lo spinse a abbandonare la vecchia “pelle di giovane materialista”, e tutti i suoi precedenti “me”, per esplorare il mistero dell’essere, in

una sorta di cristianesimo anarchico e relativistico… in una strana eccitazione spettrale, a tu per tu nel vuoto con il Dio assente.

Il secondo è una rivisitazione immaginosa degli anni adolescenziali, con le sue musiche, i suoi film e le prime esperienze sessuali, sempre alla ricerca tormentata della propria identità, e nel rifiuto quasi rabbioso di ogni conformismo sociale:

Chi ero io? E loro? Questi pronomi non mi dicevano più niente… Ma aveva ancora senso esprimersi in prima persona singolare? Avevo desideri che non fossero i desideri di tutti? Idee e pensieri che non fossero il risultato di un’intersezione di notifiche e dati? Ganci virtuali avevano per sempre dilaniato la mia unità in brandelli di reazioni automatiche. Sognavo? Credevo ancora in Dio? Avevo una patria?

Il percorso intellettuale intrapreso dall’adolescente si radicalizza in un progressivo disconoscimento e ricusazione della realtà, sempre ammorbante, meschina, corrotta: «La realtà produce ideologie e abbagli; …invidiosi di noi stessi, a noi stessi ostili, ci escludeva dalla realtà la stessa forza con cui ne eravamo risucchiati e sputati mezzo ammattiti da aspettative aberranti…»

Così, «in preda al rifiuto degli eventi terrestri», Davide Nota si immerge in una dimensione surreale, in un mondo fantastico, fluttuante tra epoche lontane: dall’orfismo paganeggiante al misticismo della prima cristianità, dal medioevo dei templari agli spazi siderali di un futuro perso nei silenzi interplanetari. L’immersione panica nella natura predilige poi i boschi, le acque, la nebbia, gli gnomi e i fauni, in un caleidoscopico olismo sapienziale che si espande dall’oriente alle saghe nordiche, da Nietzsche a Star Wars al Signore degli Anelli, in cui tutto è animato e in trasformazione, contemporaneamente nel tempo e fuori dal tempo.

Nella volontà perseguita di disubbidire «all’evidenza presente», anche l’adesione alla fisicità si scinde tra un’aspirazione alla purezza infantile e il degrado di accoppiamenti brutali, e ogni pensiero assume la visionarietà profetica della coscienza immersa nell’energia cosmica:

Quello che noi chiamiamo cielo è forse un precipizio verso l’interno del corpo astrale. Alziamo lo sguardo, guardiamo le stelle ed eccola lì la terra cava e i suoi gironi infernali. Noi abitiamo sull’orlo dell’abisso. Salpare è cadere. La gravità è l’abbraccio di una madre che non vuole perderci. Ma noi aneliamo alla caduta più di ogni altra cosa. Per questo la chiamiamo il volo.

All’originalità dello stile e dei contenuti di questa raccolta talvolta nuoce l’insistenza di un certo didascalismo filosofico, e di un sermoneggiare gnomico che può risultare eccessivo agli occhi del lettore.

© Riproduzione riservata

«sololibri», 3 maggio 2016

www.sololibri.net/Gli-orfani-Davide-Nota.html

RECENSIONI

NOTHOMB

AMÉLIE NOTHOMB, UCCIDERE IL PADRE – VOLAND,  ROMA 2012

Una delle autrici più lette al mondo, Amélie Nothomb: e più premiate, più amate dal pubblico femminile, più produttive ed attente alle richieste del mercato librario. In questo che è il suo ventesimo (20!) romanzo sembra dare il meglio di sé, quanto a banalità di scrittura, superficialità di contenuto, mediocrità di invenzione narrativa. Orecchiando qualche tesi di psicanalisi spicciola, da rivista in lettura nei negozi di parrucchiere, imbastisce una trama facile facile, su un Edipo facile facile e nemmeno troppo motivato. E tenta vanamente di irrobustirla con sentenze pseudofilosofiche, addirittura risibili nella loro grossolanità. Gli ingredienti ci sono un po’ tutti: magia, tradimento, famiglie disturbate, droga, sesso, soldi, ma raccontati con una sciatteria e una mancanza di gusto francamente irritanti. Le descrizioni dei personaggi e dei paesaggi ricalcano la retorica più abusata: «La collera di Norman esaltava la sua gioia: dimostrava che si era comportato da uomo. Ne sentiva la consapevolezza in tutto il corpo. Un’esultanza virile gli circolava nel sangue…; scoppiò a ridere, una risata di una freschezza inimmaginabile; Una luna piena circondata da una nuvola della dimensione di un kleenex diffondeva una luce da direttore della fotografia di enorme talento; Andò a prendere la frustrazione accumulata nei muscoli dell’amante e tramutò quel piombo in oro…; La notte era al suo culmine. Ogni persona che incrociavano era uno spettacolo; La violenza di quella menade strappò all’assemblea borborigmi di godimento; Una sinuosità si impossessò del suo corpo flessibile e non lo abbandonò più».

I dialoghi sono rabberciati e fittizi («-Sei un bugiardo. Non ti credo.- -Lo giuro su quello che ho di più sacro.- – E cos’hai di sacro, tu?- – Te!-») e insomma tutto il libro sembra costruito per prendere in giro il lettore e la letteratura. C’è da chiedersi se è questa la ragione del suo successo.

 

«Leggere Donna» n.156, luglio 2012

RECENSIONI

NOVE

ALDO NOVE, SI PARLA TROPPO DI SILENZIO – SKIRA, MILANO 2014

Due coniugi ultrasettantenni viaggiano su una Cobra Roush marrone verso Paradise, in California: lui è il famoso pittore Edward Hopper, lei sua moglie Jo, pure pittrice, ma soprattutto musa ispiratrice, modella, colonna portante e insieme condanna del marito. Negli stessi giorni dello stesso anno e negli stessi paraggi, un ventenne scapestrato in camicia di flanella a scacchi, si dedica al suo passatempo preferito: la pesca nel torrente Butte Creek. Si tratta del futuro scrittore e poeta Raymond Carver. I particolari biografici del terzetto sono veritieri, documentati da lettere, foto, diari, testimonianze registrate. Inventato e fantasticamente ricostruito è invece il loro incontro, che Aldo Nove ambienta nel 1958. I coniugi Hopper, sposati dal 1924, sono inseparabili pur nella loro litigiosa quotidianità: lui burbero, solitario, sessualmente esuberante, «esperto di silenzi»; lei rigida e un po’ frigida, loquacissima, intellettuale, convinta del suo ruolo insostituibile nella vita del marito. Diversi, ma interdipendenti. Nove ne racconta a grandi linee la vita coniugale: le difficoltà economiche dei primi anni, i viaggi in Europa e il soggiorno a Parigi, il graduale ma incontestabile successo artistico, la fama, l’abitazione elegante di New York e la casa sul mare a Cape Cod. Alla loro esistenza fa da contraltare la breve e inquieta vicenda biografica del giovane Carver, nato nel 1938 in una cittadina dell’ Oregon, da una famiglia operaia: il trasferimento in California, i lavoretti precari e malpagati, un matrimonio e una paternità precoci, l’emigrazione in Messico, l’alcol e i primi esordi come narratore. Alcuni episodi descritti nei suoi racconti e nelle poesie vengono riutilizzati nei dialoghi che il personaggio-Raymond imbastisce con il personaggio-Hopper, in un pub o sulla riva del torrente. Nove li rimodula, con qualche pesantezza stilistica, con un certo didascalismo (come nello scambio di opinioni su cosa debba intendersi per realismo: «Quello stare impossibile, in sospeso, come fermando la realtà, m’interessa. E l’arte, qualunque forma d’arte, ricerca proprio questo»), e forse anche con una dose di ingenua e retorica superficialità:(«- Ti racconto una storia –  – L’ascolto con piacere – »; «Le cose hanno una forza immensa…C’è molto sentimentalismo nelle cose, ma non ha bisogno di essere detto, le cose lo hanno in sé”»), che in un autore dissacrante come Aldo Nove lasciano un po’ interdetti. Rimangono nel volume, a illuminare il lettore, le riproduzioni di alcuni bellissimi dipinti di Edward Hopper, a ricordarci quanto il silenzio di luoghi e figure possa avere un suo fascino malinconico e seduttivo.

 

© Riproduzione riservata         

www.sololibri.net/Si-parla-troppo-di-silenzio-Aldo.html      28 ottobre 2015

RECENSIONI

NOVE

ALDO NOVE, MI CHIAMO… – SKIRA, MILANO 2013

Aldo Nove simula in questo elegante volumetto edito da Skira una sorta di diario tenuto in prima persona dalla cantante Mia Martini: nome impronunciabile a detta dei più, il suo, perché considerato di malaugurio. Quindi “mi chiamo…” diventa sospensione, censura, silenzio: e poi isolamento, condanna, persecuzione. In realtà Domenica Bertè fu convinta a cambiare nome per ragioni discografiche; ma le motivazioni del crudele mercato della canzone non riuscirono a modificare il suo carattere appassionato e fiero, ad addomesticarlo negli usuali compromessi commerciali, nei finti rapporti interpersonali di scambio interessato di favori. Le pagine di Nove adottano uno stile sincopato, smozzicato, a metà tra la prosa adolescenziale e la versificazione più elementare, nel tentativo di riprodurre la sofferenza psichica di un’anima scalfibile, ingenua e tormentata che non ha saputo adeguarsi alle esigenze produttive del mondo dello spettacolo. E così viene ripercorsa tutta la tragica vicenda umana di Mia, dalla nascita a Bagnara Calabra (secondogenita di quattro sorelle), al trasferimento nelle Marche, alla separazione dei genitori, ai suoi infantili tentativi di fuga da casa. E poi i primi passi nel mondo musicale, la droga e un’esperienza di carcere, la presunta rivalità con altre cantanti e con la sorella Loredana Bertè, l’invidia malevola dei colleghi, le prime dicerie sulla sua “stregoneria” e la sua fama di iettatrice, gli scarsi amori e un aborto, i successi e i fallimenti, la solitudine e l’idiota censura della televisione di stato. Ma questa sofferenza indicibile di una grande artista viene resa da Aldo Nove con una narrazione che ha qualcosa di compiaciuto e insieme irritante, con imperdonabili cadute nella retorica e nel cattivo gusto, come in questi simil-versi: “Ti prego, cuore. / Smettila. / Di battere. / Così forte”, o nelle battute conclusive: “Non bastano le lacrime. / Non ho più occhi per piangerle. / Non voglio più vedere. / Più. // Adesso non c’è più poesia.

IBS, 21 febbraio 2013

RECENSIONI

NOVE

ALDO NOVE, POEMETTI DELLA SERA – EINAUDI, TORINO 2020

 

Nelle dodici sezioni in cui Aldo Nove articola il suo ultimo libro di versi, Poemetti della sera, viene offerta, con un ritmo incalzante e frantumato, una lettura del presente (privato, affettivo, familiare) che sconfina negli sterminati spazi cosmici del non-tempo, o del fuori-tempo.

Così la sua voce singola di uomo concreto, nel nascere e crescere “a Viggiù, in provincia di Varese”, con le paure e le curiosità comuni a tutti i bambini, diviene paradigma universale delle ansie e delle domande che da sempre il genere umano si pone sulla propria identità e destino: “ero le chiese, / le case, i respiri di tutta / la gente. Ero l’universo contratto / in niente e poi dilagante / nelle stanze / di ogni paese, / in ogni galassia…// non c’era / presente, / passato / o futuro, non c’era / alcun muro / o barriera… // da lì / non ci siamo mai spostati / perché non siamo mai morti / e non siamo mai nati”.

La spiritualità di cui si nutrono le poesie qui raccolte non è contrassegnata da un’appartenenza religiosa particolare, cristiana o buddhista: piuttosto si libra aerea e informe, celeste e innocente, attraversata da creature alate e nuvole, trapuntata di stelle e di sogni: in essa si smaterializza anche la morte, divenuta trascurabile e indolore passaggio da uno stato fisico a uno incorporeo: “Il giorno della mia morte / nasceranno di nuovo tutti i bambini / che sono stato, e giocheranno assieme / in tondo come è stato fino / a quando ero nel mondo… // Sarò un’aquila e un gabbiano…// Sarà bello tornare sole, / luna, / cavalletta, geranio, / uvetta… // Il giorno / della mia morte / sarà / un giorno / eccezionale. Il giorno / più bello della mia vita… // Sarà il sapere che siamo / – tutti – / un’unica / rifrazione / di Dio”.  Il Dio universale e privo di caratterizzazioni teologiche di Aldo Nove fa rima con “io”, con pensiero, cuore, libertà: in lui siamo destinati a perderci come creature mortali e a ritrovarci come esseri divini, quando Dio “sarà tutto in tutti”, come scrive San Paolo.

Se l’esistenza vera è quella in cui ci scioglieremo nel flusso indeterminato del nulla, in una specie di nirvana privo di connotazioni materiali, allora è evidente che durante la vita indossiamo una maschera: la realtà della carne è appunto apparenza, finzione o schermo, data per illuderci di una nostra consistenza, e difenderci dal terrore di non contare nulla, per nessuno (“un breve tragitto / di gioia e dolore, di meraviglia / e stupore”).

Il periodo storico attuale è “delicato”, anzi “schifoso”, un postmoderno impaurito e malato, privo di prospettive, “Vuoto / che fa sanguinare”, in cui dominano finanza e profitto, scienza disanimata e indifferenza morale. Il titolo di alcune sezioni del libro sottolinea questo rifiuto dell’oggi: La fine del mondo, Rivolta contro il mondo contemporaneo. Per salvarsi dall’abisso, e da un castrante “impero della mente” troppo razionale, ci si può aggrappare solo al sentire quotidiano, ai ricordi, agli affetti familiari. Il dialogo del poeta con le figure dei propri cari è intenso e continuamente ribadito. La madre, quindi, prima ineludibile referente di un colloquio mai interrotto (“Nelle tue vene / ancora tu sei / me… // Guarda, madre, sono / la contrazione della tua pelle / in cui il mio nome ha preso forma”), e poi i fratelli, chiamati per nome, figure amate in presenza e in lontananza.

La consolazione concessa dalla poesia è quella della cantilena che culla, dello stordimento acustico che ottunde e impantana (“Siamo stati ingannati. / Imprigionati”): Aldo Nove la rende dando alla sua scrittura una cadenza ansiosa e ansiogena, da rullio di treno veloce, da swing spezzettato in versi brevissimi, ripetitivi, echeggianti di rime baciate, di assonanze ribattute con ostinazione: utilizzando un lessico elementare e ridotto, con ostentate citazioni, inserti, prelievi da altri poeti, in un manierismo sapientemente insistito e quasi compiaciuto, che si rifà al frasario martellante del rap, o alla litania degli spiritual afroamericani (Le parole «Ti amo». / Le parole «Ti amo». / Le parole «Ti amo». / Le parole «Ti amo». / Le parole «Ti amo». / Le parole «Ti amo»).

L’effetto che gli preme raggiungere è quello di una provocazione, ottenuta accostando temi “alti”, benché ormai molto frequentati in letteratura e nella coscienza civile collettiva, con uno stile calcolatamente disturbante, nel suo procedere insieme dimesso e tamburellato, vox clamans millenaristica, amplificata nel megafono di versi sincopati.

 

© Riproduzione riservata       «L’Indice dei Libri del Mese» n. 4, aprile 2020

 

 

 

RECENSIONI

NUCCI

MATTEO NUCCI, MAI – PONTE ALLE GRAZIE, FIRENZE 2014

Il racconto che Matteo Nucci (Roma 1970) ha pubblicato in e-book per Ponte alle Grazie, è un inno alla pienezza del vivere: un’esaltazione dell’occhio, dello stomaco, del sesso, del viaggio, della conoscenza. Parla del rapporto che unisce due appassionati di tauromachia, l’innominato narratore e il suo amico Pana, fornaio del Monferrato, noto per aver rielaborato l’antica e gustosa ricetta della torta verde: “morbida, soffice nel riso croccante, umida di erbe e spezie e di tutto il lavoro che c’è dietro”. Proprio grazie alla reciproca frequentazione culinaria, i due si conoscono, scoprendo la comune passione per i tori, e decidono di partire insieme verso un paesino andaluso dove si trova un importante allevamento del selvaggio toro bravo. Atterrati all’aeroporto di Valencia, affittano un’auto per raggiungere la meta prefissa, regalandosi però diverse soste: per assistere a una corrida, per pranzare in ristorantini tipici, per tuffarsi nell’iberico mare blu-nero. “Guidavo felice tra la terra dura di paesini bianchi, fatti di case a un piano solo, baracche di gitani, carrozzoni di bambini scuri e gruppi di suonatori, musiche che accompagnavano lamenti di voci rauche, battiti di mani, caldo asfissiante”. Pana mostra presto di essere “un fiume in piena di orgasmo vitale”, fedele alla sua natura di “uomo grosso e buono”: “Porta capelli cortissimi, occhiali dietro cui brilla uno sguardo curioso e azzurro, una massa di muscoli scomposti nel corpo che tracima desiderio di ogni cosa – che siano donne, cibo, vino, birra, amicizia”. Il viaggio si rivela a tratti una delusione, poiché alcune località offrono di sé un’immagine avvilente a causa del consumismo sfacciato, del turismo pacchiano, della cucina standardizzata: Alicante, San José, Almería. Proprio in quest’ultima città, tuttavia, in una tipica osteria chiamata El Postigo, incontrano di notte una ragazza dal “nome strano e premonitore – Mai”, dall’eloquio irrefrenabile e dal magnetismo elettrizzante. La giovane convince gli amici a passare una “fiesta” di bagordi in spiaggia, tra birre, hashish e musica assordante. “Si stava bene. L’aria era fresca e il profumo di iodio sembrava salire assieme alle onde che rimbalzavano sulla riva in una specie di scroscio spumoso”. I due italiani rimangono storditi e inebriati dalla prorompente vitalità di Mai, dalla sua capacità istintiva di abbandonarsi alla fisicità più elementare, alla festa dei sensi, “la festa di chi crede in sé e doma la paura della morte, accetta di sfidarla, sfida dunque sé stesso e festeggia, festeggia, beve, esulta, grida, vive, vive e vive. Vive contro tutto e contro tutti per far fessa la morte e prendersi gioco di lei”. Mentre loro, pigri e timorosi, finiscono per tornare all’albergo sbronzi e stravolti di stanchezza, addormentandosi cullati da sogni di un tranquillo futuro borghese, da rimpianti di un passato familiare e protettivo: nella rinuncia a qualsiasi tentatrice trasgressione e chissà, forse, anche alla semplice prosecuzione del viaggio in cerca di tori selvaggi.

 

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https://www.sololibri.net/Mai-Nucci.html               10 settembre 2018