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RECENSIONI

OZ

AMOS OZ, IL RE DI NORVEGLIA – ZOOM FELTRINELLI, MILANO 2012

Tra i racconti di Amoz Oz (romanziere e saggista israeliano, nato a Gerusalemme nel 1939, influente intellettuale dalle posizioni politicamente conciliatorie e social-democratiche), questo Il re di Norvegia è uno tra i più felici, per acume psicologico, levità descrittiva e delicata ironia. Si sorride, leggendolo, non si ride: e anzi ci si sente coinvolti in un sentimento di solidale e comprensiva simpatia umana per l’evidente inadeguatezza del protagonista nel rapportarsi con il prossimo.

Zvi Provizor, scapolo cinquantacinquenne, fa il giardiniere nel kibbutz Yekhat, e ama in maniera incondizionata il suo lavoro, a cui dedica ogni attenzione, cura e pensiero. “Si alzava ogni mattina alle cinque, spostava gli innaffiatoi, rastrellava la terra nelle aiuole di fiori, piantava e potava e bagnava, tagliava l’erba con quella macchina rumorosa, spruzzava i disinfestanti chimici, spargeva e interrava letame e fertilizzante”. Emotivamente sensibile e introverso, si rivela particolarmente propenso e interessato a qualsiasi avvenimento tragico accada nel mondo, andando a scovare nei quotidiani e nelle cronache radiotelevisive proprio le notizie più drammatiche, scandalose e catastrofiche che vengono riportate, per poi riferirle a chiunque incontri sul lavoro o al bar: “terremoti, aerei precipitati, crolli di edifici con vittime, incendi e alluvioni”. Raccoglie necrologi e immagazzina nella memoria i lutti di tutto il kibbutz, creandosi così una fama funerea di menagramo tra i colleghi, che tendono a isolarlo anche a mensa, e ne commentano sarcasticamente la riservatezza e la sessuofobia. Inaspettatamente però, Zvi Provizor incontra una vedova, Luna Blank, insegnante dall’indole artistica e romantica, e stabilisce con lei un rapporto di reciproca e casta amicizia, fatta di scarse confidenze e molti sospiri. “Lui si sedeva sulla destra della panchina di sinistra, in fondo al prato, e lei non lontano, sulla sinistra della panchina di destra. Lui le parlava e strizzava gli occhi, lei stropicciava il fazzoletto fra le dita”. Quando tuttavia Luna azzarda un approccio fisico appena più confidenziale, il mesto giardiniere si ritira spaventato, e alla donna delusa non resta che lasciare il kibbutz, rifugiandosi all’estero. Zvi Provizor, quasi sollevato dalla partenza di lei, torna alla sua monotona esistenza, tra fiori e piante grasse, immergendosi con sempre più angosciata e morbosa curiosità nella cronaca nera dei notiziari e dei giornali: per lui la notizia della morte del re di Norvegia, da tempo malato di tumore, rimane il massimo della sofferenza sopportabile con cui confrontarsi.

Amos Oz osserva, racconta, scuote la testa, sorride.

 

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https://www.sololibri.net/Il-re-di-Norvegia-Oz.html           15 ottobre 2018

 

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RECENSIONI

OZ

AMOS OZ, RESTA ANCORA TANTO DA DIRE – FELTRINELLI, MILANO 2023

Amos Oz (Gerusalemme 1939Tel Aviv 2018), tra i più noti  scrittori e saggisti d’Israele, poco prima di morire tenne una conferenza all’università di Tel Aviv, il cui testo è stato pubblicato da Feltrinelli con il titolo Resta ancora tanto da dire. È interessante rileggere questo documento, che mantiene pregi e difetti di ogni comunicazione orale trascritta per la lettura (vivacità, arguzia, improvvisazione, ma anche disorganicità e gusto provocatorio), nei giorni terribili che il mondo sta vivendo a causa della guerra in corso.

Prima di addentrarci nella disamina del pamphlet in questione, è forse opportuno ricordare qual è stata la vicenda biografica di Amos Oz. A partire dal suo vero cognome, Klausner, ripudiato per l’insanabile contrasto che lo contrappose al padre, sionista di destra, dopo il suicidio della madre avvenuto quando lui aveva solo dodici anni, con la conseguente decisione di lasciare la casa di famiglia e di entrare nel kibbutz di Hulda. “Oz” in ebraico significa “forza”, e il ragazzo Amos ne ebbe molta, riuscendo a conciliare i lavori agricoli nei campi sia con gli studi, conclusisi con la laurea a Gerusalemme e poi con la specializzazione a Oxford, sia con la scrittura, praticata assiduamente dai ventidue anni in poi. Sposo di Nilli e padre di due figli, docente di letteratura alla Università Ben Gurion del Negev, aveva prestato servizio di leva nelle forze di difesa israeliane sia nella guerra dei sei giorni sia durante la guerra del Kippur.

Le sue posizioni sono sempre state conciliatorie nella sfera politica e social-democratiche nella sfera socio-economica. Tra i primi intellettuali israeliani a sostenere la soluzione dei due Stati, aveva dichiarato in un articolo del 1967 sul giornale laburista Davar: “Anche un’occupazione inevitabile è un’occupazione ingiusta”. Nel 1978 fu uno dei fondatori di Peace Now. opponendosi all’attività colonizzatrice sin dall’inizio e sostenendo gli Accordi di Oslo e le trattative con l’OLP, con simpatie per le posizioni laburiste di Shimon Peres. Se nel luglio 2006 Oz aveva appoggiato l’esercito israeliano durante la guerra con il Libano, più recentemente in una conferenza comune con Grossman e Yehoshua dichiarò invece che Israele aveva esaurito il suo diritto all’auto-difesa.

Autore di romanzi di successo che indagano soprattutto le relazioni di coppia o generazionali (l’autobiografico Una storia di amore e di tenebra, Michael mio, Un giusto riposo), si è occupato della situazione politica del suo paese in molti interventi sulla stampa internazionale e nei due saggi In terra di Israele (1983) e Contro il fanatismo (2004), quest’ultimo stampato, distribuito e tradotto in varie lingue a sue spese per favorirne una diffusione capillare. I concetti fondamentali di Contro il fanatismo (secondo cui il conflitto israelo-palestinese non è una guerra di religione o di culture, ma piuttosto una controversia possessoria da risolvere con un compromesso) sono stati ripresi appunto nella conferenza del 2018, e si riducono principalmente a tre.

Lontano in ugual misura da ogni fanatico estremismo come da un pacifismo imbelle, Oz non ritiene che il male assoluto sia la violenza, bensì l’aggressività e la sopraffazione, che vanno decisamente fermate con la forza. Hitler non è stato sconfitto da una colomba con il rametto d’ulivo nel becco, ma dalla forza militare. Tuttavia non è con l’esercito che si può curare una ferita, e la ferita putrescente aperta da un secolo tra Israele e Palestina va sanata, non con “il bastone” dell’oppressione, della deterrenza, dell’esibizione muscolare, ma attraverso l’uso di una lingua di cura, una base di colloquio comune, nella comprensione e accettazione dei reciproci diritti ad esistere.

In secondo luogo, è necessaria, ineludibile, la creazione di due stati: “Se non ci saranno qui, e piuttosto presto, due stati, allora ce ne sarà uno solo. E se dovesse sorgere qui un solo stato, non sarebbe uno stato binazionale. Sarebbe, prima o poi, uno stato arabo dal Mediterraneo al Giordano”, con gli ebrei ridotti a una minoranza senza rilevanza politica, così come è successo ai cristiani in tutto il Medioriente. Non esiste la possibilità di un unico stato multietnico prospero e pacifico, eccezione realizzata nel mondo solo dalla Svizzera. Tutti gli altri stati multietnici che hanno tentato la strada della bi-nazionalità sono incorsi in rovinosi fallimenti, e solamente la Cecoslovacchia è riuscita a creare due repubbliche separate senza spargimento di sangue.

Oz come terzo punto della sua lezione affronta la questione del sionismo, contestando l’idea che il rientro in Israele degli ebrei dispersi dalla diaspora sia stato determinato da un malinteso sentimento nostalgico di “ritornismo” o dalla ricerca di una spiritualità originaria. In realtà, era stata la consapevolezza (avvertita anche dai suoi nonni ucraini) di non avere un “altrove” in cui essere accolti, a spingerli a stabilirsi nella “Terra dei Padri”, pur sapendo che non avrebbero potuto trovare nello spazio qualcosa che si era perduto nel tempo. Non avrebbero lasciato l’Europa “se non fosse stato per la sofferenza, le persecuzioni e la scoperta che non c’era alternativa se non la reclusione nel ghetto o la totale assimilazione. Tutto ciò non deriva dal desiderio di ritorno. Non deriva soltanto né principalmente da ‘l’anno prossimo a Gerusalemme’. La verità è che non c’era altro luogo dove andare”.

Dopo essersi soffermato, con profonda tristezza, sull’odio secolare che gli ebrei hanno catalizzato su di sé in ogni epoca e luogo, Amos Oz conclude tuttavia il suo saggio con una nota di speranza non illusoria: “Nulla è irreversibile”, si può sempre cambiare. Mentalmente, caratterialmente, culturalmente, politicamente. Una diversa leadership in Israele e in Palestina potrebbe finalmente indicare la strada di un accordo: “Su, dai, facciamolo. Sarà difficile, complicato, doloroso, ma facciamolo e chiudiamo la faccenda una volta per tutte”.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 28 ottobre 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

OZICK

CINTHIA OZICK, LO SCIALLE – FELTRINELLI, MILANO 2003

Una voce importante dell’America letteraria, quella di Cinthia Ozick (autrice poco conosciuta da noi, quanto invece letta, discussa ed esaltata negli USA) ha scritto che «i racconti dovrebbero giudicare e interpretare il mondo…la letteratura dovrebbe redimere, interpretare e decodificare il mondo, essere creata a forza per il bene dell’umanità».

Decisamente fuori moda, questo richiamo all’eticità dello scrivere esprime l’attenzione partecipe ai sentimenti più fragili delle persone comuni, la scelta non occasionale di protagonisti quotidiani in qualche modo “banali”. Ma con un senso forte della storia, e un rispetto profondo – quasi religioso – del mistero inspiegabile che sta all’origine della vita e di ogni morte. E soprattutto con una moralità sofferta, non beghina, attraverso cui il destino degli uomini, singolarmente e nella loro collettività, viene «interpretato e giudicato».
Nei due racconti che Feltrinelli ha pubblicato sotto il titolo Lo scialle (Feltrinelli, 2003), è l’olocausto l’evento che la Ozick assume come sfondo, alibi e ragione ultima del suo narrare. Un evento da lei non vissuto in prima persona (è nata nel Bronx nel 1928 da una agiata famiglia di ebrei russi emigrati), ma reinventato e raccontato senza l’inevitabile autocommiserazione del “c’ero anch’io”, e invece con l’indignato furore di chi non vuole tacere.
Nel primo, brevissimo racconto, adamantino nella sua tagliente asciuttezza, una giovane donna ebrea nasconde in uno scialle la sua bambina per alcuni mesi, sia durante l’estenuante marcia verso il lager, sia nel lager stesso. La bambina è bionda, ha gli occhi azzurri, lineamenti poco ebraici: frutto di uno stupro subito dalla madre da parte di un nazista. Scheletrica, gli arti ridotti a stecchi, succhia le mammelle secche della mamma: ha imparato a stare zitta, a nascondersi, a nutrirsi non solo metaforicamente dello scialle materno, che continuamente intride di saliva. La cugina Stella, infreddolita e gelosa, glielo sottrae. La bambina esce allora dalla baracca per cercarlo, urla di disperazione per la prima volta da quando è nata, «ondeggiando sulle gambette a matita» nel mezzo del campo. Un nazista la vede, la afferra e la schianta a morire fulminata sul filo spinato che circonda il lager. Raramente un’immagine è riuscita a rappresentare in così brevi spezzoni narrativi l’atrocità, la bestialità dell’olocausto. Emblema della gratuità del male, la bambina Magda schizzata contro il reticolato, e la madre, testimone ammutolita della sua fine, rimangono impresse come poche altre figure nella mente del lettore.
Così come non facilmente dimenticabile è la vicenda della stessa Rosa, protagonista del secondo, più lungo racconto. Scampate al campo di concentramento, Rosa e la nipote Stella si rifugiano in America, rimanendo però estranee e indifferenti alla cultura superficiale e vincente degli USA. Rosa apre un negozietto di anticaglie e roba usata nella speranza di poter comunicare ai clienti del Nuovo Mondo (il suo nuovo mondo) la sua terribile esperienza di scampata. Ma l’America è un altro continente, la gente non è interessata alla tragedia che ha sconvolto l’Europa. Dopo trent’anni di questa non-vita, Rosa sfascia il suo negozio, abbandona Brooklyn e si ritira coerentemente a non-vivere in una squallida casa per anziani in Florida. Prova ad agire come tutti: vecchie illuse di fermare il tempo con il fondotinta, vecchi ringalluzziti da un incontro. Accetta anche la corte discreta di un ebreo più anziano di lei, frequenta con lui una tea-room, lo invita nella sua stanza. Ma realtà e immaginazione, memoria e rimozione si confondono, Rosa è preda di allucinazioni sempre più frequenti, scrive lunghe e appassionate lettere in polacco alla figlia morta ma che finge viva ed affermata professionista in uno degli States. Si aggrappa a un feticcio, lo scialle che Magda bambina succhiava nel lager, per sopravvivere al guado della non esistenza cui è costretta, da quando i nazisti («i ladri») le hanno negato anche la semplice possibilità di dimenticare, inchiodandola per sempre a una memoria insidiosa, feroce. «- Senza una vita – rispose Rosa – si vive dove si può. Se tutto quello che si ha sono i pensieri, è lì che si vive -. – Lei non ce l’ha una vita?-  – I ladri me l’hanno portata via -».

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Lo-scialle-Cinthia-Ozick.html;    30 novembre 2015

 

 

RECENSIONI

PAGNANELLI

REMO PAGNANELLI, QUASI UN CONSUNTIVO – DONZELLI, ROMA 2017

Remo Pagnanelli, poeta e critico letterario, nacque il 6 maggio 1955 a Macerata, dove morì suicida il 22 novembre 1987, trentaduenne. Fondatore nel 1980 della rivista «Verso», esordì l’anno successivo come poeta con la plaquette Dopo, cui fecero seguito Musica da Viaggio, Atelier d’inverno e il poemetto L’orto botanico, per il quale ottenne il premio internazionale “Montale 1985”. Vennero pubblicati postumi l’ultima raccolta di versi Preparativi per la villeggiatura ed Epigrammi dell’inconsistenza. Tra i suoi scritti critici, due studi su Vittorio Sereni e su Franco Fortini. Nel 2000 Daniela Marcheschi curò per “Il lavoro editoriale” l’antologia Le poesie, e oggi la stessa Marcheschi ripropone per Donzelli una ricca scelta di versi di Pagnanelli tesa a indicare al lettore la compattezza tematica, la profondità meditativa e gli sviluppi della ricerca formale della sua scrittura, mettendo in luce come il giovane intellettuale marchigiano abbia vissuto la cultura “con uno slancio di integrale umanità, con una serietà di studi e generosità rare, [facendo] della poesia il crogiuolo della sua esistenza e dell’intera sua esperienza di uomo”.

Pagnanelli lesse con attenzione critica la maggior parte dei poeti italiani contemporanei, ricavandone insegnamenti estetici e morali, convinto com’era che la letteratura fosse necessariamente maestra di vita e occasione di crescita interiore: ad essa demandava soprattutto la riflessione sulle domande fondamentali dell’esserci, interrogandosi laicamente sul destino dell’uomo e sulla morte, sull’inconsistenza del reale e sull’imprevedibilità del caso, sul rapporto con la propria corporeità e sull’amore. Leggere oggi le sue poesie, così eticamente severe e crudelmente interrogative, alla luce della sua scelta finale è ovviamente pretestuoso e sbagliato: eppure la delusione per la banalità del quotidiano, per la sordità dei più verso la bellezza della natura e dell’arte, per la decadenza corrotta della politica per cui aveva nutrito ingenue aspettative, fece presto di lui e della sua lotta contro la banalità un combattente spuntato, sfinito. «L’hidalgo è stanco», scriveva in una delle ultime composizioni. Che possiamo commentare forse proprio partendo da quella che conclude il volume in questione, dal titolo umilmente dichiarato (Quasi un consuntivo): «La luce più vasta è il buio, / questo già lo sapevamo, / non la più penetrante però…, / come la luna ch’è un faretto, / sul palcoscenico all’aperto. / Centra e si sposta ovunque, / al contrario non si muove / ma è dappertutto la medesima. / Detto tutto».

La luce, il faro a cui guardare perché illumini la nostra strada, aldilà di ogni illusoria e semplicistica fede, è un richiamo costante in questi versi: «quella luce non la potrai raccontare / non c’è uomo o donna assiepati ad ascoltarla / dato che estremamente muore e dice addio…», «mi godo questa Luce ultima / della fine senza fine. // Profonda / quanto più nel ritrarsi / pare scalfire. / Che non possiede, / che spossessa le cose e te, / riducendo all’osso e al bianco. // Quant’altra sotto ne dorme / che la pioggia non offusca».

Consapevole della sua estraneità nei riguardi dell’esistenza comune («Mia ombra mio doppio, / talvolta amico ma più spesso / straniero che mi infuria ostinato, / mio calco che nessuna malta riempie…»), Remo Pagnanelli  sapeva di non poter contare su alcuna «divinità felpata» protettrice o consolatrice («Riprova Zaccheo, risali sul sicomoro / per vedere il Signore se mai passi»), e allora tentava di appellarsi alle persone intorno: amici, parenti, donne da amare, già certo di non poterne ottenere ascolto o aiuto: «Che altro di strabiliante chiedevo per me, / da lasciarvi tutti così sorpresi e non piacevolmente, / niente che già non si sapesse e di cui fosse / taciuto e da tanto», « ‒  starò, è certo, fra amici ma non / volevo dire questo, domandavo / ben altro». Eppure, superando ogni delusione, ogni ostica resistenza esterna, da poeta dell’interiorità qual era, riusciva a comunicare nella sua scrittura la splendida gratuità di ogni apparizione naturale, della luna come della vegetazione più minuta, delle sfumature umbratili del paesaggio, delle movenze leggiadre di «strane fanciulle», dell’attesa delle festività, del ricordo di gioie infantili: insomma qualsiasi «beltà ornata e beltà disadorna», erede in questo del luminoso esempio dell’amato Leopardi. «In questa fase dell’anno tutto sanguina. / Il fiume sfinendosi non s’inazzurra più, / lo percorre un alito di schegge cenere / che espelle gli ori del tramonto. // pare impossibile, ma dalla magrezza /degli olivi tremanti, dalla magrezza / arida e esangue, fluisce non so che / polline o sudore».

In uno stile tutto suo, classico senza essere tradizionalista, limpido e consueto nel lessico, indifferente a metrica, rime e artifici sintattici, rivelando talvolta qualche eco montaliana (ad esempio nel bellissimo trittico I lari), ma fatta propria e riassimilata con originalità, Pagnanelli si affidava a un ritmo modulato dal pensiero, perché era proprio la riflessione filosofica a costituire l’ossatura del suo poetare, condizionandolo, sorvegliandone le soluzioni stilistiche, con coerenza stringente. Testamentaria e tombale, indice del «rigore insanguinato» di cui si sapeva orgogliosamente vittima, ci appare una sua austera e razionale definizione della morte, che potrebbe essere assunta ad esergo dell’intero volume: «La morte sta nell’eliminazione di ogni suono e residuo linguistico. Di conseguenza non sarebbero praticabili incontro con ombre, dèi, fate, cioè alcuna consolazione da scribi. Attraverso questa porta senza referenti si può dimenticare e essere dimenticati, non possedere né essere posseduti. Addio storia, addio natura». Non dimentichiamolo, questo giovane favoloso e inflessibile. Continuiamo a leggerlo, a capirlo.

© Riproduzione riservata      «Il Pickwick», 13 gennaio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

PALERMO

ANTONELLA PALERMO, IL GIUNCO E LA STATUA – VYDIA, MONTECASSIANO (MC) 2024

 

Antonella Palermo, giornalista di origini molisane, vive e lavora a Roma, occupandosi di informazione culturale e attualità internazionale. La sua terza pubblicazione in versi, Il giunco e la statua, edita da Vydia, è introdotta da un’intensa, empatica e sapiente prefazione di Elena Santagata, che ne mette in luce non solo lo stile controllato e piano, fedele a “modulazioni anti-sperimentali”, ma anche l’equilibrato rapporto tra ambientazioni esterne e risonanze interiori, quale si evince dai contenuti della sua scrittura poetica.

Quindi ci imbattiamo in oggetti e persone che affollano le stanze o altrimenti le disertano, creando sospensioni, inquietudini e trasalimenti emotivi. Presenze e assenze, entrambe osservate analiticamente, descritte con attenzione partecipe, e vissute con il pathos di un’acuta sensibilità. La conclusione delle singole composizioni, ridotta a pochi o addirittura a un solo verso, esprime spesso una valenza gnomica e imperativa, rivolta più alla stessa autrice che ai lettori, quasi fosse motivata da un’ansia esplorativa che richiede di essere controllata razionalmente.

La raccolta, dedicata al padre morto dopo una sofferta malattia, si scandisce in tre capitoli.

Il primo è emblematicamente intitolato   Il tavolo al centro, a indicare l’elemento dominante di un cenobio familiare non sempre affettuoso: “Ci si sbranava per minuzie // qui ora si gioca al minimo, / le voci attutite, / sentire il vuoto sotto / anche se poggiamo i piedi”. Letti, sedie, divani, mensole, valigie: l’abituale arredamento domestico “si specchia / in un cuore imploso / e smemorato”. L’interno, con l’odore di cavolo bollito, il torsolo di mela ossidato, la polvere che si accumula sui mobili, l’assedio di mosche e formiche, riacutizza un cocente senso di disillusione per le “antiche sicurezze” crollate. Ma anche il fuori, visualizzato in vetrine spoglie, mendicanti, campanelli di ottone sulle porte, suscita una gelida vertigine, derivante dal rapporto tormentoso con un’alterità ostile.

La seconda breve sezione, L’ammanto, è un tenero omaggio al padre contadino, ridotto dalla malattia a esile giunco, a statua di Giacometti, a reliquia fossile. L’uomo che aveva usato tutta la sua forza “per spostare zolle / costruire il pozzo, tirar su gli ulivi” ora, nel suo giaciglio di ospedale, ha perso la voce, respira con l’ossigeno, non controlla più i movimenti. Giustamente la prefatrice parla di un’adesione di Antonella Palermo a un canone di “poesia terminale” inaugurato dalla Serie ospedaliera di Amelia Ros selli, e recentemente frequentato da numerosi autori, con la rievocazione delle dolorose agonie dei genitori, la riflessione sulla memoria e sulla morte, e quindi la finale elaborazione del lutto.

Nell’ultima parte del volume, La parola si arrende, la scrittura si immerge invece nel brulicare della vita, tra paesaggi, situazioni, e frequentazioni personali diverse. I viaggi (Sicilia, Sardegna, trafficate metropoli) presentano l’opportunità di godere nello stesso tempo di “solennità e grazia”, di “Girasoli maestosi / su giacimenti di sterpaglie”, di prolungati silenzi infranti dai “clamori dei bambini”.

Ma nonostante questo vorticare di distrazioni, di incontri, di eventi e località da scoprire, “Non diluisce la piena del dolore”. La poeta esamina con severità il suo atteggiamento di fronte all’esistenza, interrogandosi: “Posso rigare dritto, con voracità, o / ricominciare a dubitare”. Al bivio tra scelte diverse, generose o egoistiche, vitali o deprimenti, prova uno slancio di solidale amicizia nei riguardi della realtà: “Vorrei rammendare gli scheletri del mondo”.

E la parola finale, quella che si arrende al proprio potere trasformatore, è infine rivolta all’altro da sé, che sia un amico, un amore, un fantasma implorante soccorso: “Appòggiati”, gli dice.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net       6 febbraio 2024

 

RECENSIONI

PALEY

GRACE PALEY, FEDELTÀ – MINIMUM FAX, ROMA 2011

Grace Paley (1922-2007), newyorkese, ebrea di origine ucraina, ha scritto 45 racconti e un numero non elevato di poesie: in tutto, poco più di 300 pagine, che tuttavia hanno lasciato un segno considerevole nella letteratura americana. Militante pacifista e femminista, molto impegnata sul fronte della difesa dei diritti civili, si distinse per la partecipazione in prima linea alla campagna contro la guerra in Vietnam. Fra le sue raccolte narrative uscite in Italia ricordiamo Piccoli contrattempi del vivere, Enormi cambiamenti all’ultimo momento, Più tardi nel pomeriggio, tutte pubblicate da Einaudi. Parte della sua produzione saggistica è raccolta nel volume L’importanza di non capire tutto. Il volume edito da Minimum Fax nel 2011 raccoglie versi scritti tra il 2000 e il 2007, di stampo diaristico e quasi domestico, incentrati per lo più sugli affetti familiari e sulla lunga fedeltà sentimentale alle amicizie, alle passioni di una vita intera, alle convinzioni politiche e ideologiche. E soprattutto alla scrittura.

Fedeltà, quindi, “Fidelity” coerente al proprio vissuto, come amava sottolineare: “Credo nella fedeltà alle mie idee originarie, è il modo che ho per oppormi alle mode imperanti”. Così anche nella poesia che dà il titolo al volume, in cui manifesta la sua ubbidienza a un imperativo etico di responsabilità verso il prossimo, persino a scapito del proprio interesse privato, rinunciando a ogni concessione voluttuaria, a ogni gratificante accomodamento:

 

Dopo cena tornai al
libro che stavo leggendo     ero
arrivata a pagina cento-
quaranta     ancora duecentoventi
pensavo quella
sera     mentre a cena
parlavamo con una giovane
coppia     della densa improbabile
vita del libro in cui mi ero accomodata
i personaggi ormai erano i miei compagni inquieti

li conoscevo     sapevo che sarei potuta

rientrare in quelle vite senza alcuna perdita

tanto solidamente le abitavo     ho scorso gli scaffali
alcuni libri così cari     mi erano mancati
mi sono allungata per prenderli
in mano     ho respirato due volte
pensavo all’accelerazione dei giorni
sì     avrei potuto rientrarci ma…
No     come potevo disertare tutta quell’altra vita
quei seminterrati di città
Abbandono     Come potevo essermi permessa
di pensare a mezz’ora di distrazione
quando la vita aveva pagine     o decenni da sfogliare
e tante cose stavano per accadere alle persone
che già conoscevo e quasi amavo

 

Grace nei suoi versi rivolgeva attenzione alle cose quotidiane, con cui da donna doveva giostrarsi nelle incombenze domestiche irrimandabili. Dedizione a un ruolo femminile, di madre e nonna, che tuttavia sapeva mettere in secondo piano rispetto all’impegno civile e politico, cui orgogliosamente voleva dedicarsi. Rivolgeva perciò la sua pungente ironia ai sentimenti nobili celebrati con farisaica retorica dalla letteratura universale: la famiglia come rifugio, il buonismo parrocchiale, l’amore romantico ed edulcorato, da respingere come tentazioni luciferine. Ne è un divertente esempio questa

POESIA CONTRO L’AMORE

A volte non vorresti amare la persona che ami
e distogli la faccia da quella faccia
i cui occhi labbra potrebbero placare ogni rancore
cancellare l’insulto   rubarti la tristezza di non voler
amare     voltati allora voltati    a colazione
di sera     non alzare gli occhi dal giornale
per vedere quella faccia in tutta la sua serietà     una
concentrata dolcezza     lui tiene il suo libro
tra le mani   le dita nodose intagliate
dall’inverno    voltati    è tutto quello che puoi
fare    alla tua età per salvarti dall’amore

 

Oppure questa:

ALLORA

quando lei venne a prenderlo al traghetto
lui disse    sei così pallida   sciupata così
gracile   issandosi sulle punte dei piedi
per arrivare al suo orecchio   lei sussurrò
sono una donna anziana    oh da allora
lui fu sempre gentile

 

C’è nella scrittura di Grace Paley una generosa comprensione per le difficoltà e i dolori degli altri, e anche per le loro debolezze e vigliaccherie, che in sé stessa non accettava di perdonare. A questo sincero altruismo faceva da pendant una rabbiosa ribellione contro qualsiasi potere (ideologico, culturale o religioso) pretendesse di imporsi alle coscienze individuali. Persino Dio, nel suo prevaricante paternalismo, andava rifiutato (“Grazie a Dio non c’è nessun dio / o saremmo tutti perduti”). E con lui la guerra, il razzismo, l’inquinamento, l’omofobia, la morte, la malattia. Paolo Cagnetti, nella sua affettuosa e partecipe prefazione, definisce Fedeltà un libro “caotico”. Ma caotica, disordinata, vivace fu tutta l’esistenza di questa vulcanica poeta: piena di amici, amori, libri, viaggi, bambini, vecchi da aiutare, donne da difendere, conferenze e volantinaggi, articoli di protesta, sit-in e dimostrazioni. Le poesie, prive di punteggiatura, spaziate da pause bianche, colloquiali e polemiche, sempre un po’ grezze e non rifinite, seguono l’andamento precipitoso e disorganico dei suoi pensieri, quasi pressate dall’ansia di dire tutto. E questo tutto viene raccontato vorticosamente, appassionatamente: il traffico di New York, i taxi, i pompieri, un funerale, le torte da preparare per i nipotini, la sorella morta, le telefonate con le amiche (“Scrivere di donne è un atto politico”, affermava). Assetata di vita, anche la lotta contro il tumore al seno di cui morì ottantenne divenne una battaglia caparbia e coraggiosa contro il destino ingiusto: lotta come vessillo di non rassegnazione, da impugnare sempre.

FINESTRE

Questo corpo di ottant’anni è
un corpo piuttosto vecchio   che cosa
ci fa in giro per casa in questi giorni
controlla il bucato   le scope
vanno ancora bene   che cosa c’è per cena
ecco le finestre   guarda   oh
al di là del fiume   il monte Smarts
con l’aiuto del sole sta ricomponendo tutte
le sue collinette   mai visto in questo modo

prima d’ora   finestre   la storia del pomeriggio

 

© Riproduzione riservata             «Il Pickwick», 12 dicembre 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

PALMA

LEDA PALMA, LA PRECISIONE DEL FARO – LA VITA FELICE, MILANO 2016

«La precisione del faro può essere inteso come un esercizio di sobrietà sentimentale, un tentativo riuscito di rintracciare un luogo comune che contenga e legittimi il nostro immaginario collettivo»: così scrive Donato di Stasi nella sua approfondita prefazione al libro di versi di Leda Palma, definendolo «libro composito, sacrale e profano».

Leda Palma, friulana trapiantata a Roma, ha pubblicato poesia e prosa, ma nel corso della sua esistenza lavorativa si è occupata soprattutto di teatro e televisione, come autrice, regista e attrice. Questo volume, intenzionalmente mirato già dal titolo a un obiettivo di illuminazione e schiarimento – interiore ed esteriore -, ci appare giocato sull’abbandono immediato allo scorrere del tempo, tra presente e passato, memoria recuperata e attenzione al presente. Le otto sezioni che lo compongono, infatti, oscillano tra l’idillio nostalgico, la testimonianza di fede, il resoconto di viaggio e l’omaggio affettivo a presenze amicali o familiari, rimanendo sempre e comunque fedeli nello stile a un rincorrersi fluido di suoni e immagini, privo di punti fermi e tassative cesure.

«M’insegue il paese», dichiara un verso della prima sezione, Geologia del ritorno: e Pagnacco, paese nativo dell’autrice, rimane dopo tanti anni radicato nel ricordo, definito nei particolari concreti (le campane della chiesa, gli scuri e il focolare della casa, la polenta che «sfrigola» sul focolare, il camposanto, il torrente e i prati) come nelle presenze animali (conigli e mucche) e umane (le suore, i «preti laidi vecchi»). Lo scavo sentimentale nella memoria produce inevitabilmente il recupero di presenze, e ad esse si dedicano versi commossi e grati, tesi a riscattare nella memoria disattenzioni o trascuratezze personali e collettive: la morte e la malattia di amici e parenti non è patita solo come dolore, ingiustizia, inadeguatezza, sensi di colpa, ma conduce a una verità per troppo tempo rimossa, temuta.

Al di là di ogni fine va intuito un inizio, che non si spiega solo come consolazione riparatrice o speranza illusoria, ma come effettiva realtà di sopravvivenza: «la grandezza della vita / del tuo cielo aperto più nulla solo / il mistero del cuore smontato / pezzo a pezzo / ricostruita e in pace finalmente / nell’avemaria del momento / per il tuo bene / o il mio». La madre, Silvana, Maria, l’amico suicida, il poeta carnico Tito Maniacco squarciano il buio della notte definitiva con il loro luminoso riaffacciarsi al ricordo, nelle sezioni Attraverso la morte, Tempo dà luce, La presenza dell’anima; mentre nelle pagine conclusive del libro Leda Palma si apre a un presente capace di aderire con solidarietà al mondo vivo, quello che soffre di povertà in India, o viene violentato nell’infanzia, o è costretto a inumane migrazioni («Non danno scampo le tue labbra mare / fatto destino il tuo fiato deriva / nel fitto delle braccia che / pugnalano un dopo che non c’è»). Per concludersi infine con un poemetto polifonico (Il cammino di Maya), che intreccia visioni mitiche a rivisitazioni storiche, memorie personali a descrizioni paesaggistiche, intercalando anche graficamente i caratteri corsivi e tondi dell’immaginazione e della constatazione realistica: «luna mia gemella d’incertezze / serpente della notte che m’allunga disinganni / ho scritto applausi sulle foglie sipari gonfi d’ambizione / nel finale sempre una paura che tace».

 

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www.sololibri.net/precisione-faro-Leda-Palma.html         6 settembre 2016

 

 

 

 

RECENSIONI

PALMINI

Giuseppe Palmini, Il personalismo comunitario di Emmanuel Mounier – Nulla Die, Piazza Armerina 2021

Tra la fine del liceo e l’inizio dell’università, il mio filosofo di riferimento, insieme a Simone Weil e agli esistenzialisti, è stato Emmanuel Mounier. Ho voluto riprendere in considerazione il suo pensiero, per vedere quanto ancora – dopo cinquant’anni – la sua scrittura mi coinvolgesse, intellettualmente ed emotivamente. L’ho fatto seguendo il percorso tracciato da un saggio di Giuseppe Palmini pubblicato lo scorso anno dalle edizioni siciliane Nulla Die. In cinque capitoli, e offrendo una ricca bibliografia, Palmini indaga in che modo la filosofia personalista e comunitaria di Emmanuel Mounier (Grenoble 1905-Parigi 1950) sia suscettibile di attualizzazione, quanto cioè del suo pensiero, sfrondato degli inevitabili arcaismi e dal suo riconosciuto ingenuo volontarismo, possa indicare una via percorribile dalla civiltà occidentale per uscire dalla crisi economica ed etica in cui si dibatte.


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Il personalismo, il filosofo francese affermava: “Di fronte alla crisi, la cui gravità molti si nascondevano, due spiegazioni venivano proposte. I marxisti dicevano: crisi economica classica, crisi di struttura. Intervenite sull’economia, il malato si rimetterà. I moralisti contrapponevano: crisi dell’uomo, crisi dei costumi, crisi dei valori. Cambiate l’uomo e le società guariranno. Noi non eravamo soddisfatti né degli uni né degli altri. Spiritualisti e materialisti ci sembravano partecipi del medesimo errore moderno: quello che, seguendo un discutibile cartesianesimo, separa arbitrariamente il ‘corpo’ dall’ ‘anima’, il pensiero dall’azione, l’homo faber dall’homo sapiens. Da parte nostra affermavamo che la crisi è in pari tempo una crisi economica e una crisi spirituale, una crisi delle strutture e una crisi dell’uomo”.

Dopo una puntuale ricostruzione della biografia e del percorso intellettuale di Mounier (la laurea in filosofia nel 1927 con una tesi su Descartes, lo studio approfondito di Henry Bergson e Charles Péguy, la frequentazione assidua di altri pensatori cattolici come Guitton e Maritain), il volume si sofferma in particolare sulla fondazione nel 1932 della rivista Esprit.

Organo ufficiale delle istanze più innovatrici del movimento cattolico francese, essa propugnava un ritorno allumanesimo cristiano in risposta sia alle tendenze individualistiche del liberalismo borghese sia al totalitarismo comunista, criticando “l’idolatria tirannica delle spiritualità inferiori: esaltazione razzista, passione nazionale, disciplina anonima, devozione allo stato o al leader, salvaguardia di interessi economici”. La rivista auspicava la rinascita di una “comunità di persone”, in opposizione alla società di massa, prospettata sia dall’individualismo liberale sia dal collettivismo: “Ogni regime che, di diritto o di fatto, consideri le persone come oggetti interscambiabili, li irreggimenti o li costringa contro la propria diversificata vocazione, oppure imponga loro questa vocazione, dal di fuori, con la tirannide di un moralismo legale, fonte di conformismo e di ipocrisia, questo regime è da condannare… Tout homme, sans exception, a le droit et le devoir de développer sa personalité”.

Opponendosi sia all’individualismo, che favorisce “il regime dell’anonimato, dell’irresponsabilità e della dispersione, dell’egoismo e della guerra”, sia alla massificazione di una “società senza volto…  spersonalizzata in ognuno dei suoi membri, spersonalizzata come insieme, in cui la massa offre un regime proprio fatto di anarchia mescolato a tirannide, vale a dire la tirannide dell’anonimo che è, fra tutte, la più vessatoria e la meno pietosa”, Mounier caldeggiava l’avvento di una rivoluzione comunitaria, di un nuovo rinascimento: “Rifare il Rinascimento … è doppiamente da rifare se, per essere completo deve essere duplice, e cioè personalista e comunitario”.

La sua analisi dei nascenti totalitarismi fascisti e nazisti negli anni ’30 era lungimirante e impietosa: “Dove nascono i fascismi? Sulle democrazie logore, nel momento in cui la spersonalizzazione e l’anarchia sono tali che ognuno ormai, scoraggiato dal proprio operato quotidiano, aspira al Salvatore che riprenda in mano tutti gli spaventosi problemi irrisolti, tutta la massa decomposta, e compia miracoli”.

In nessun modo velleitaria o disincarnata, la sua proposta di una rinascita sociale si innervava anche su radicali riforme economiche. In Dalla proprietà capitalistica alla proprietà umana (1936) proponeva di recuperare il primato della persona sulle cose, dell’uomo sulla produzione, delle esigenze del lavoratore su quelle del profitto, creando una società autogestita al centro della quale stessero i lavoratori, che assegnasse allo Stato solo una funzione di tutela e di garanzia. A tale profondo rinnovamento erano chiamati soprattutto i credenti: “Per i cristiani in particolare s’impone il dovere della distribuzione dei beni, un dovere di giustizia e di carità che non può essere appagato solo con l’elemosina e la beneficenza”. Queste tesi così estreme procurarono a Esprit l’ostilità delle gerarchie cattoliche e la censura da parte del governo di Vichy. Nel 1942 Mounier fu arrestato per il suo sostegno alla resistenza francese e liberato solo l’anno seguente.

Nelle pubblicazioni posteriori, il filosofo si occupò di pacifismo, anarchismo, esistenzialismo, progresso tecnologico, essenza del cristianesimo, psicologia dei caratteri umani: tutte queste riflessioni confluirono nella stesura del suo libro più noto e importante: Il personalismo, del 1949. Morì di infarto l’anno successivo, minato nella salute sia dalle vicende tormentate che aveva patito, sia dal dolore per l’invalidità cronica di sua figlia Françoise.

Il volume di Giuseppe Palmini articola i capitoli successivi nell’analisi approfondita sia della filosofia del personalismo, che vanta esponenti illustri già dal 1700, sia del progetto morale e sociale davvero avveniristico di Mounier, la cui visione politica indicava come indispensabile garantire a ogni individuo il possesso del “necessario personale”. Convintamente cattolico, innovatore anche nell’interpretazione del messaggio evangelico, riteneva importante armonizzare nella quotidianità l’aspetto carnale con quello spirituale dell’essere umano. Inoltre, rilevando il fondamentale apporto etico e civile dell’arte e della cultura, auspicava lo sviluppo dell’azione didattica nella formazione delle giovani generazioni. La visione acutamente intuitiva e profetica di Emmanuel Mounier nei confronti del mondo e del destino dei singoli, rende la lettura dei suoi scritti dopo tanti anni ancora vitale e coinvolgente.

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 22 settembre 2022

 

 

RECENSIONI

PANARESE

ROSSELLA PANARESE, COMUNICAZIONE SCIENTIFICA – TRECCANI, TORINO 2021

L’e-book Comunicazione scientifica (dal prezzo inferiore a 1 euro) raccoglie quattro interventi di Rossella Panarese pubblicati nell’Appendice X dell’Enciclopedia Italiana Treccani. Rossella Panarese (Roma 1960-2021), entrata giovanissima in Rai come redattrice a Radio3, di questo canale è diventata un’autorevole, stimata e infaticabile curatrice e conduttrice, soprattutto di trasmissioni riguardanti vari rami della scienza: Palomar, Futura, On the road, Duemila, Labanof.

Dopo una parentesi professionale come responsabile dell’Ufficio stampa del Comune di Roma, nel 2002 è rientrata in Rai, progettando, curando e in seguito conducendo per diciotto anni il programma Radio3 Scienza (“Non volevamo spiegare cos’è un bosone o una cellula staminale, o almeno non solo. Volevamo parlare di politica, di etica, di salute, di tecnologia, di scuola, di ricerca e di ambiente partendo dai temi dell’impresa scientifica”). Impegnata anche nella didattica come insegante e conferenziera in diversi master, seminari, festival organizzati in varie località italiane, la sua morte avvenuta in aprile ha lasciato grande rimpianto tra i collaboratori e il pubblico radiofonico.

In piazza Bainsizza, vicino alla sede di Radio3 a Roma, le è stata dedicata una quercia rossa su cui è infissa una targa riportante le sue parole: “Saper raccontare vuol dire avere a cuore l’ascoltatore, farsi carico dell’attenzione dell’altro, creare un filo comune tra chi parla e chi ascolta. Insomma, costruire una relazione. È quello che la radio può fare meglio di tutti. A me piace usare la metafora del ballo di coppia, che è tale se – e solo se – ognuno dei ballerini è concentrato sui suoi passi, ma in contatto con quelli dell’altro”.

I sette brevissimi saggi compresi sotto il titolo Comunicazione scientifica vertono appunto sulla necessità di trasmettere la cultura, anche nei suoi aspetti più ostici, al maggior numero di persone possibile, in termini chiari, comprensibili, ma non ridimensionati o spianati artificiosamente ai fini di ottenere una facile audience. Come scrive Chiara Valerio nella prefazione, la scrittura di Panarese mantiene una “forma interlocutoria”, nel convincimento che qualsiasi argomentazione debba permettere e incoraggiare l’intervento attivo del fruitore della conoscenza, pretendendone tuttavia anche l’ascolto attento e curioso, in un processo reciproco di costruzione comunicativa.

La prima domanda che si pone l’autrice riguarda la definizione del pubblico di non-esperti cui si rivolge la comunicazione scientifica. Essendo sempre più diversificato per età e preparazione scolastica, ad esso devono essere offerte soluzioni narrative, educative e informative originali, stimolanti e, ovviamente, qualificate e rigorose, che tengano conto del contesto in cui avvengono e offrano la possibilità di creare relazioni interattive adeguate. Agli scienziati e ai ricercatori va chiesto di diffondere i risultati del loro lavoro uscendo dalla “torre d’avorio” del sapere specialistico in cui sono rinchiusi, per contribuire all’alfabetizzazione scientifica della popolazione, sconfiggendone lo scetticismo e il senso umiliante di inadeguatezza culturale. Se la scienza è sotto attacco per la carenza di fondi destinati alla ricerca, per competizioni interne, per il proliferare di fake news, falsi scoop giornalistici, pubblicità ingannevoli e commercializzazione di prodotti medici e industriali inefficaci o fraudolenti, spetta al mondo politico e mediatico la responsabilità di riportare chiarezza e trasparenza nella popolazione.

“A emergere è il tema della cittadinanza scientifica, ossia del diritto di ognuno di noi a partecipare alle scelte che derivano dall’impresa scientifica, e di condividere le opportunità derivanti dallo sviluppo delle scienze e della tecnologia”. Diritto dei cittadini a essere informati con competenza, dunque, cui corrisponde però il dovere di approfondire con serietà le proprie fonti e nozioni.

Su alcuni temi molto delicati la discussione tra scienziati e pubblico è molto sensibile: vaccini, OGM, medicina ufficiale, intelligenza artificiale. In particolare, con lo scoppio della pandemia di Covid-19, si è sviluppata un’enorme richiesta di partecipazione popolare al dibattito scientifico, alimentata da paura e sofferenza personale: si chiede alla scienza di rivestire il ruolo che le compete, di guida prudente ed esperta dei comportamenti individuali e collettivi.

 

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24 giugno 2021

 

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RECENSIONI

PANELLA

PASQUALE PANELLA, POEMA BIANCO – MIRAGGI, TORINO 2018

La voce narrante di questo Poema bianco di Pasquale Panella è femminile (come dichiara in apertura l’autore), e scandisce in tre sezioni di versi liberi una lunga e silenziosa riflessione in cui si confondono rimpianto e ironia, elegia e sarcasmo, logicità e insensatezza: a sottolineare una storia di amore e disamore, fedeltà e stanchezza, nel suo nascere crescere finire. Non assistiamo a una pièce teatrale destinata a un pubblico di spettatori, né a un dialogo che attenda risposte da un interlocutore privilegiato. Piuttosto rileviamo la volontà esplicita di districare, in un soliloquio lucidamente controllato, i fili aggrovigliati della mente, illuminando zone oscure del cuore e della memoria.

Il bianco citato nel titolo rimanda sia al candore sia al vuoto, alla pagina ancora da scrivere come a quella cancellata, a un’esigenza di chiarezza interiore o al bisogno di silenzio. Il poema pare invece riferirsi alla forma che assume sulla pagina questo monologo, un vero e proprio flusso continuo di versi, in cui i segni di interpunzione sono dati da virgole-virgolette-parentesi, e assidui, incalzanti punti di domanda. Nessun esclamativo, e un unico punto fermo conclusivo, dopo la parola «Fine».
Pasquale Panella, che nella sua vita artistica ha consegnato parole importanti a musiche altrettanto importanti, sembra anche qui voler dar voce a una sonorità di base che, sviluppandosi da armonie attutite e terse, si spezzano frequentemente in improvvise dissonanze, in brusche alzate di accenti, in ribadite sottolineature. Così il tono colloquiale, lo scherno, la battuta ironica irrompe ad alterare o prosaicizzare il carattere più delicato e nostalgico della profferta amorosa rivolta a un assente.

In un lunedì sera piovoso di un mese imprecisato, alle otto meno dieci, una “lei” parla a se stessa e di se stessa, parla a un “lui” e parla di lui, pur diffidando di qualsiasi possibilità di comunicazione, in un rapporto che per entrambi è diventato indifferenza, incomprensione, accusa reciproca, rancore: «Quando il telefono non squilla / sei sempre tu / che non mi chiami», «Tutto accade quando tutto è finito / Anzi, prima di finire / non è nemmeno tutto, / diventa tutto quando / è finito tutto, appunto», «Noi, ci siamo mai dati del Noi?». L’amore c’è stato, e affiorano i ricordi («Ma quante ombre / abbiamo fatto insieme», «Respiravamo e basta / Le mani come il vento che si calma / sul ventre, su una coscia, su una spalla / Il viso ritornava a fare il viso, / il profilo la prora / di una barca incagliata»), insieme alle tracce di un passato che si intende smitizzare attraverso un uso giocoso della lingua, con l’utilizzo di ripetizioni, assonanze, calembour: «Io ero la tua vita nella mia vita / che era la tua vita / Ero quella parola che ti volevo dire / Ero il mio amore / E tu eri l’amore mio / Insomma tu eri io».

L’idea platonica di fusione di due corpi e due anime torna a tentare insidiosamente il personaggio narrante, ma viene respinta beffardamente come lusinga ingannatrice: «parlarsi da vicino come quando / parliamo da soli / a chi siamo, noi, l’altro / (ecco il Noi, lontano) / che non c’è (ma lo siamo)».
Ingannevole appare anche lo scambio di ruoli sessuali programmato dall’autore del testo, e svelato da chi si proclama donna sapendo di non esserlo: «La voce è femminile, certo, / perché tu sei vile / Ti scrivi come se io / ti avessi scritto / Poi credi che l’abbia fatto per davvero», «noi siamo fatti / di contraddizione e corpo umano». Le contraddizioni, le incoerenze, le insicurezze che minano il rapporto tra due amanti svelano il sospetto nutrito nei riguardi di tutta la realtà («Non è questione di realtà, / l’esistenza / È questione di credulità»), e addirittura del linguaggio: «dalla sfiducia nelle parole / nasce la sperimentazione / o il loro gioco», «C’è questo difetto / nella descrizione: / che sembra sempre / un compito copiato».

Il poeta con voce di donna si diverte a usare gli strumenti del mestiere soprattutto quando ironizza sull’uso-abuso della rima, artificio cui i versi e le canzoni ricorrono da sempre per blandire occhio e orecchio di chi legge o ascolta: «Mi piacciono le rime con gli accenti / alla fine, baciate, per esempio: me con te»,«(le rime facili, sì, che sono rime, / le difficili, sì, che sono fisime)», «(La facilità delle rime / è dovuta alla spontaneità delle parole in ente)», «O è colpa delle rime: / le rime, penso,/ spesso fanno il senso».

Alla “storia” raccontata nella prima sezione del Poema bianco segue “l’antistoria” della seconda parte (aggiunta dieci anni dopo la prima pubblicazione: «versi esclusi, inclusi / qui / per togliermeli di torno»), un redde rationem in cui Pasquale Panella ritrova, passata la pioggia, il sole; dopo il lamento e la recriminazione, il sorriso indulgente e la leggerezza del divertissement. Un addio al dolore sentimentale, con la decisione di rivolgere le proprie attenzioni più alla scrittura e alla sua diffusione che ai tormenti del cuore («L’amore era l’amore, / adesso è il mio editore», è scritto in epigrafe). L’esperienza di coppia vissuta diventa terreno di riflessione disincantata e graffiante, riconsiderata nei suoi momenti di noia, delusione e incomprensione reciproca: «E siamo al romanzesco coniugale / (che non se ne può più recentemente) / tutto cavilli, distinguo inguinali, / pignolerie meticolose orali anali, / tutto un detto stradetto e ritrattato». La liberazione dai ricatti affettivi si compie quindi proprio sulla pagina scritta, e nella terza sezione del Poema Panella conclude «Che scrivere è farla / finita con la storia», una sorta di terapia programmata per guarire dal mal d’amour, esorcizzando fantasmi e sensi di colpa, e riproponendo un foglio vergine su cui vergare parole nuove.

«Il rischio dello scrivere è uno solo: / essere letti / Lo dicevi anche tu / Anche tu chi? Tu, io // E allora finiamoci, / o lettrice, / amore mio, / mia lacrima / di lettura fuor degli occhi // E fine».
Rimangono ancora i rumori, nella conclusione del libro, quelli prodotti e ascoltati da chi si muove nella solitudine di un appartamento dopo che il compagno o la compagna se ne è andato: i passi sul pavimento, la doccia, le sedie spostate, il frigo aperto, la pasta che si cuoce nella pentola. Rumori che sono echi di una presenza eclissata, quando le parole non servono più a niente, e si riducono a un’impalpabile esalazione di fiato: «Il soliloquio, questa intima piazzata, questo comizio, questo convenire, qui, di un’oratrice che ha solo se stessa a ascoltarla, a ascoltarsi, a sentirsi regnante sul silenzio».

Eppure anche le parole della donna solitaria a cui Pasquale Panella ha prestato voce ci hanno fatto compagnia, prima di dissolversi nel fumo: «vedi il fumo di tutte le parole / (vedilo, fa’ il favore)»..

 

© Riproduzione riservata               «Il Pickwick», 2 settembre 2019