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RECENSIONI

NUCCI

MATTEO NUCCI, ACHILLE E ODISSEO – EINAUDI, TORINO 2022

Achille e Odisseo, saggio narrativo di Matteo Nucci (Roma, 1970), non parla solo di due eroi che hanno combattuto a Troia. C’è molto altro, nelle tre sezioni in cui si divide il volume: altri importanti protagonisti, e tutto il pensiero che dall’antica Grecia ha nutrito la letteratura e la filosofia mondiale. C’è soprattutto un’approfondita indagine psicologica che mette a fuoco l’opposizione caratteriale dei due personaggi omerici, a partire dalla frase iniziale: “Uno era leone. L’altro era polpo”. Da un lato audacia, istinto, vigore fisico, irruenza, voracità; dall’altro prudenza, riflessività, agilità nervosa, calma, sobrietà. Entrambi avevano madri molto amate e un figlio lontano. Li accomunava anche la conoscenza di una stessa donna, che era riuscita a sondarne con acume e sensibilità le anime: Elena di Sparta, moglie di Menelao, amata da Paride. Così Elena, parlando a Priamo, definisce Achille e Odisseo: “Sono due uomini complessi come solo noi greci sappiamo essere. Quella è la loro forza. Del resto, sono opposti per ogni altro aspetto. Per quel che se ne diceva una volta, non avrebbero mai spartito il banchetto”.

I due infatti si erano fronteggiati in una terribile lite, di cui però Omero non narra nulla, quasi fosse stata talmente nota a tutti da risultarne scontato il resoconto. Ne fa cenno, provocando la profonda commozione di Odisseo (così dobbiamo chiamarlo, essendo il nome di Ulisse una latinizzazione posteriore, divulgata soprattutto da Dante) il cantore Demodoco, durante il banchetto offerto allo sconosciuto ospite dal re dei Feaci: “una volta contesero in un lauto banchetto di dèi / con parole violente”. La loro disputa fu probabilmente dettata dalla fondamentale e ineludibile diversità di indole, che li rese talmente differenti da farli diventare paradigmi di scelte e di esistenze contrapposte nell’intendere il senso della guerra, della vita e della morte: “Combatterono sempre in nome della stessa vittoria. Uno pensando alla distruzione. L’altro all’accerchiamento”.

Se Odisseo è presentato nel proemio del suo poema come  polytropos, (“dai molti modi”), in grado di adattarsi a una realtà in continua trasformazione, e da sempre è stato indicato come persona scaltra, ingannevole, che usa la parola in maniera abbindolatrice, convincente e seduttiva (non aveva mentito in molte occasioni, con il Ciclope, con Neottolemo, e al suo ritorno a Itaca?), anche la rude schiettezza di Achille mostra qualche punto debole che la vulgata tardiva individua nel tallone: nell’essere terragno, indomito e prorompente rivela la propria vulnerabilità di giovane ostinato e collerico, che non sa piegarsi alle circostanze.

Secondo quanto suggerisce Platone nell’Ippia minore, una questione fondamentale contrappone i due guerrieri: il modo in cui intendono il tempo, il modo in cui lo vivono. “Achille è sempre gettato nel presente. Odisseo è sempre proiettato nel futuro. Achille pensa e dice solo cose che hanno a che fare con il momento che sta vivendo. Odisseo guarda perennemente oltre. Per questo Achille è schietto, spontaneo e impul sivo. Mentre Odisseo è prudente, attento, cauto e ingannevole”. Achille vive nel presente perché sa di non avere futuro, Odisseo è costantemente rivolto, con pensiero e azioni, al ritorno a Itaca.

Matteo Nucci (che nel suo commento esegetico usa il carattere tipografico tondo, mentre utilizza il corsivo nelle pagine d’invenzione) più volte torna sul concetto della fragilità degli eroi, convinto che non sia mai esistito nessuno che non abbia dovuto misurarsi con insicurezze, paure, difetti. Perché il vero eroismo significa “vivere fino in fondo la propria condizione mortale, combatterla tutta la vita, immergersi in un corpo a corpo costante con la propria finitezza”, essendo la brevità dell’esistenza indicativa della sua irripetibilità e singolarità, che la rendono superiore alla celeste immortalità degli dei.

In alcuni comportamenti erano stati simili, Achille e Odisseo. A quanto ci raccontano i miti post-omerici, nessuno dei due desiderava partecipare alla spedizione contro Troia organizzata da Agamennone: entrambi “cercarono scappatoie, astuzie, inganni pur di non lasciare la casa”. Odisseo si era coperto di stracci fingendosi un contadino intento ad arare i campi. Achille si era travestito da ragazza, confondendosi tra le figlie del re Licomede che lo aveva ospitato. Furono smascherati con espedienti più scaltri dei loro, unendosi in seguito all’impresa achea con subitaneo ardore: il più anziano scattante e nervoso, il più giovane imponente nei muscoli scolpiti.

Achille e Odisseo si comportano in maniera analoga anche all’inizio e alla fine dei due poemi omerici. Nei versi introduttivi piangono di infelicità, rabbia, rancore osservando la vastità del mare: il primo reclama Briseide che gli è stata sottratta da Agamennone, il secondo vuole tornare dalla moglie lasciando Calipso che lo tiene prigioniero da otto anni. Alla conclusione di Iliade e Odissea, tutti e due si confrontano con un’anziana figura maschile, Ulisse con l’irriconoscibile padre Laerte, Achille con Priamo di cui ha appena ucciso l’adorato figlio Ettore. “La specularità fra i due poemi si realizza all’insegna delle lacrime”.

Le lacrime, il canto, il cibo, la sensualità, la convivialità tra amici, il gioco, il combattimento, la ferocia sanguinaria, sono elementi che uniscono e insieme differenziano i caratteri e gli atteggiamenti dei due straordinari protagonisti omerici, in un unico sentimento che tutti li comprende: l’amore per la vita, l’odio per la morte.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 16 ottobre 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

OATES

JOYCE CAROL OATES, L’INCIDENTE IN BICICLETTA – IL SAGGIATORE, MILANO 2024

Il Saggiatore ospita per la quattordicesima volta un testo di Joyce Carol Oates, L’incidente in bicicletta, racconto originariamente pubblicato sul New Yorker lo scorso anno. Riprende uno dei temi più tipici della scrittrice statunitense, molto critica nei confronti dell’ipocrisia che nella famiglia nucleare borghese americana nasconde l’oppressione e la violenza dei legami più stretti. Nella cittadina di Strykersville, dove tutti si conoscono intrattenendo rapporti di civile ma in realtà distaccata convivenza, vive la famiglia Hansen, composta da due genitori quarantenni e tre figli adolescenti: Evie, Roy e Billy.

Nella villetta a due piani l’esistenza trascorre esteriormente in modo tranquillo e tradizionale, tra il lavoro di commerciante del padre, la dedizione materna all’economia domestica, la scuola dei ragazzi. Poche e nebulose, quasi di contorno, le altre presenze amicali e parentali, fatta eccezione per un caro, maturo e invadente amico di lunga data, l’avvocato Rob Nash, tornato single dopo due divorzi, e morbosamente partecipe, anche con generosi sostegni economici, alle vicende familiari.

Il racconto si apre sui frenetici preparativi che coinvolgono gli Hansen in vista di un party in giardino progettato da settimane per festeggiare il fidanzamento di una nipote. La madre Arlette e la tredicenne Evie sono impegnate in cucina nella progettazione gastronomica: la prima isterica e timorosa di non essere all’altezza delle aspettative degli invitati, la seconda insofferente per le esigenti pretese materne.

Tutto il testo ruota intorno al tormentato e frustrante rapporto esistente tra madre e figlia, che esplode violentemente nella sua evidenza quando, a festa iniziata, arriva la notizia che la ragazza è stata ricoverata al pronto soccorso in gravi condizioni dopo un incidente in bicicletta. Frattura del cranio, gamba e piede destro maciullati, bocca devastata. La prima reazione di Arlette, al di là dello spavento e del dolore, è il disappunto per la disobbedienza filiale: “Come hai potuto sgattaiolare via senza dirmi niente?”. In seguito, nei lunghi mesi di degenza ospedaliera e durante la faticosa riabilitazione, si riavvicina affettuosamente ad Evie, grata di poter rivestire nuovamente il ruolo di premurosa accuditrice avuto quando la sua bambina era piccola. La ragazza reagisce invece alle attenzioni materne con feroce aggressività, chiudendosi in rancorosi silenzi o esplodendo in minacce e risposte scurrili, trovando sollievo solo nell’ideazione e creazione di fumetti, sempre spietatamente caustici nei confronti della cerchia dei parenti. Il disagio della giovane, totalmente incompreso o volutamente ignorato dai genitori, si accresce negli anni del liceo, portandola a sperimentare amicizie pericolose, atteggiamenti provocatori, fughe da casa e infine l’abbandono definitivo degli studi.

Oates con sapiente arguzia offre al lettore indizi per intuire quali siano le ragioni vere del rifiuto che Evie oppone alla famiglia, vittima incolpevole di un ménage deciso a non mettersi mai in discussione.  Indizi che rimangono tali e non vengono mai rivelati apertamente, nemmeno alla conclusione del racconto, quando la figlia ormai adulta torna a trovare la madre ricoverata in una casa di riposo, dopo la morte del padre, dell’amico avvocato e l’allontanamento dei fratelli, solamente per trafugarle un assegno, e punirla con uno sfregio crudele di cui Arlette, ormai avviata alla demenza senile, non si rende nemmeno conto, come è sempre avvenuto durante tutto il loro logorante rapporto.

Joyce Carol Oates è nata nello stato di New York nel 1938, e da anni è residente a Princeton, presso la cui università ha insegnato scrittura creativa dal 1977 al 2014. Ha pubblicato nell’arco di sessant’anni oltre cento libri: cinquantasette romanzi, quarantadue raccolte di racconti, una decina di drammi teatrali, sedici volumi di saggi, undici raccolte di poesie, nonché libri per bambini e alcune antologie di articoli apparsi su quotidiani e riviste, sempre riscuotendo grande successo di pubblico e vincendo numerosi premi, tra cui il National Book Award, il Pen Faulkner Award e il Prix Femina Étranger.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 15 novembre 2024

 

 

 

 

RECENSIONI

OCAMPO

SILVINA OCAMPO, AUTOBIOGRAFIA DI IRENE – SELLERIO, PALERMO 2000

Silvina Ocampo, nata a Buenos Aires nel 1906 e morta nella stessa città nel 1993, fu moglie dello scrittore Adolfo Bioy Casares e amica di Jorge Luis Borges: con loro firmò nel 1940 un’importante Antologia della letteratura fantastica. Autrice di racconti, poesie e testi per l’infanzia, seppe offrire nuova linfa alla narrativa sudamericana di impianto tradizionale, inserendovi una sensibilità inquieta e moderna, aperta alle ansie del pensiero novecentesco, nutrita dal disagio esistenziale e dall’interesse verso lo studio dell’inconscio che hanno caratterizzato la cultura contemporanea. I cinque racconti presenti in questo volume edito da Sellerio nel 2000, cinquant’anni dopo la loro pubblicazione in Argentina, sono coerentemente legati alla visione ideologica dell’autrice, radicata nella consapevolezza che non tutto ciò che accade e ci circonda abbia una sua corrispondenza concreta nel reale, e possa nascondere invece cause ed effetti misteriosi e inspiegabili. «La vita ci rinchiude continuamente in prigioni invisibili, da cui solo la nostra intelligenza o il nostro spirito creativo possono liberarci».

Nelle prime due novelle (Epitaffio romano e La rete) i protagonisti, il nobile romano Claudio Emilio e la giovane donna cinese Kèng-Su, patiscono una vendetta implacabile da parte di coloro che hanno ferito con eccessiva severità o crudele leggerezza: la moglie Flavia e un lepidottero dai caratteri umanoidi. Nell’ultimo racconto, che dà il titolo al volume, Irene Andrade ripercorre la sua infanzia “giudiziosa e taciturna” scoprendo nella sua malinconica sensibilità giovanile l’origine di supposte doti paranormali, di preveggenza e magia, che arriveranno a distruggerle l’esistenza adulta: «nelle gelide regioni dell’avvenire la realtà è imperiosa».

In Frammenti del libro invisibile, un affascinante divinità agreste dai poteri sovrumani, capace di parlare con i morti e di interpretare le voci degli animali e delle piante, compone libri immateriali tramandando la sua saggezza nei secoli e in ogni spazio dell’universo. Ma è nella storia centrale, L’impostore, che più si esplica l’intelligenza narrativa della Ocampo.  Il racconto, che in verità ha la consistenza di un romanzo breve, si apre presentando il giovane protagonista Luis, mandato dal padre a trascorrere una vacanza presso il figlio di conoscenti, di nome Armando Heredia, apatico e solitario, da anni rinchiusosi volontariamente in una tenuta agricola semi-abbandonata, invasa da pipistrelli, ragni, tafani. Nel tentativo di penetrare il segreto che costringe l’amico all’isolamento, il ragazzo vaga in spazi della mente – propria e altrui – abitati da visioni e fantasmi, da un soprannaturale terrorizzante, e diventa preda di continui dejà vu e di presentimenti minacciosi. «Ogni amico ci rivela, prima o poi, l’esistenza, in noi, di un difetto inatteso. Heredia mi rivelava la mia viltà…».

La pazzia, la rincorsa di amori solo immaginati o defunti, l’incubo della violenza perpetrata o subita, appartiene ad entrambi i giovani, o a uno solo di loro, o a tutta la vita che conosciamo: il tipico tema letterario del “doppio” trova in questa novella di Silvina Campo un suo ritmo ossessivo e oscuro, che non si placa nemmeno nell’imprevedibile finale.

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/Autobiografia-di-Irene-Ocampo.html      22 dicembre 2016

RECENSIONI

OCAMPO

VICTORIA OCAMPO, 338171 T.E (Lawrence d’Arabia) – SETTECOLORI, MILANO 2021

“Ho già scritto un centinaio di pagine su quest’uomo che mi affascina. Vorrei farlo conoscere ai miei compatrioti e ci riuscirò! T.E.L. mi interessa profondamente perché arriva a conclusioni simili alle mie con un temperamento e per dei percorsi opposti ai miei”. Così scriveva nel 1942 Victoria Ocampo (Buenos Aires, 1890-Béccar,1979) all’intellettuale francese Pierre Drieu La Rochelle, uno dei molti protagonisti della cultura novecentesca mondiale con cui intratteneva rapporti di reciproca stima e amicizia. Il personaggio affascinante a cui si riferiva in quella lettera era Thomas Edward Lawrence, ufficiale ed esploratore inglese di cui stava completando la biografia, pubblicata nello stesso anno sia in Argentina sia in Francia e in Inghilterra. Con il titolo di 338171 T.E (Lawrence d’Arabia), il libro della Ocampo viene ora per la prima volta proposto ai lettori italiani dalla casa editrice Settecolori, nella traduzione di Fausto Savoldi.

Victoria Ocampo svolse un ruolo di primissimo piano nell’animare la vita culturale del suo paese come scrittrice-editrice-traduttrice-critica letteraria-conferenziera: nel 1931 fondò la rivista Sur, sulle cui pagine uscirono  contributi non solo di importanti scrittori argentini (Jorge Luis BorgesAdolfo Bioy CasaresErnesto Sábato e Julio Cortázar) ma anche di autori internazionali quali Ortega y Gasset, Virginia Woolf, André Malraux, Tagore. Nonostante le origini aristocratiche e un orientamento culturale conservatore ed elitario, fu un’accesa oppositrice del governo nazionalista e populista di Juan Perón fra il 1946 e il 1955, al punto da venire imprigionata nel 1953 per attività antigovernativa. Fondò uno dei più antichi movimenti femministi dell’Argentina, la Union de Mujeres (Unione delle donne), e fu la prima donna a entrare nell’Accademia Argentina delle Lettere. Membro dell’International PEN Club, ottenne una laurea honoris causa all’Università di Harvard.

L’oggetto della sua indagine, il colonnello T. E. Lawrence (1888-1935, numero di matricola nella RAF  338171) fu impegnato negli scavi archeologici sull’Eufrate dal 1910 al 1914, anni in cui poté familiarizzare con la lingua e le abitudini dei beduini, e allo scoppio della guerra mondiale venne inviato in Egitto, dove ispirò e guidò per tre anni la rivolta contro i Turchi insieme a Faisal, sceicco della Mecca, con cui penetrò in Palestina, spingendosi fino a Damasco e in Iraq. Sconfessato poi nelle sue operazioni militari sia dagli Arabi sia dal governo inglese, si arruolò come soldato semplice nel Tank Corps, auto-degradandosi, e si dedicò alla stesura delle sue memorie – di grande importanza per l’etnografia e la geografia del medio oriente –, pubblicate a Londra nel 1936 con il titolo I sette pilastri della saggezza. Fu proprio quest’opera, insieme al suo epistolario, a catturare l’interesse e l’ammirazione di Victoria Ocampo, che ne apprezzò il valore letterario e umano, restituendone con sensibilità e arguzia lo spessore documentario nella biografia di cui ci occupiamo.

Fabrizio Bagatti, profondo conoscitore della vita e della scrittura di Lawrence, nella colta ed empatica prefazione, commentando una frase dell’ufficiale inglese (“La storia di queste pagine non è quella del movimento arabo, ma di me in esso”) lo definisce “il più feroce indagatore del «sé» che la letteratura anglosassone abbia conosciuto in epoca moderna”: qualità che tanto lo rese interessante agli occhi della Ocampo, parimenti abituata a scandagliare la propria esistenza (si dedicò sei volumi di autobiografia…).

Altra sintonia tra i due intellettuali, quasi coetanei, era l’amore per lo spazio privo di confini: le pampas per la Ocampo, il deserto per Lawrence, “regioni popolate di assenze”. Ocampo si vantava di aver incontrato Lawrence senza averlo mai visto: “L’ho incontrato nei suoi libri, nella musica che preferiva. Ma soprattutto l’ho incontrato nella pianura, in quella pianura in cui cercava di volta in volta di perdersi e di ritrovarsi, e che divenne ben presto per lui il deserto”. La scrittrice argentina, nel presentare “l’uomo contraddittorio” che dichiarava “tutto quanto vediamo è illimitato come desideriamo che sia   la nostra anima”, riconosce nell’amore di lui per gli spazi liberi e vuoti la sua stessa ansia di infinito: amore per il mondo che si riflette in una esasperata auto-esplorazione dell’io. Nel libro, tra i capitoli che indagano vita e pensieri di Lawrence, quello dedicato all’ “io odioso” esibisce la duplice natura di Lawrence: inglese e arabo, soldato e studioso, celebratore e denigratore della propria persona.

Il fascino che la figura del colonnello esercitava sulla sua biografa era anche estetico, ammantato di romanticismo femminile: “Vestito di bianco come un arabo, con in testa una cordicella della Mecca di color oro e rosso e una daga dorata alla cin tura, T.E. Lawrence era imbevuto di deserto”. Tale fascino, riconosciuto da chiunque l’avesse incontrato, viene a più riprese sottolineato da Victoria: “Tutti concordano nel sottolineare in lui il culto della libertà, l’orrore per l’ingiustizia, il coraggio, la resistenza fisica, l’integrità morale; il genio critico, analitico e descrittivo in quanto scrittore; la rapidità decisionale e la lucidità nel combattimento come capo; il riserbo, l’ascetismo dei costumi, gli scrupoli di coscienza come persona… Angelo sterminatore alla testa di una banda di arabi lanciati contro i turchi e angelo sterminatore nei suoi stessi confronti… Io intendo soprattutto seguire in lui lo sviluppo di un conflitto morale il cui crescendo non fu interrotto che dalla morte…”. Non solo una venerazione entusiastica per l’uomo e il soldato, ma anche una ribadita stima per il prosatore, dallo “stile a tratti scespiriano”, lucido e drammatico insieme, mai retorico, mai falsamente autocelebrativo.

Gli incisivi e stringati ventun capitoli che compongono la biografia raccontano la vita avventurosa del protagonista secondo un preciso ordine cronologico, a partire dall’infanzia (già profeticamente segnata da forte ambizione, vigore fisico, curiosità intellettuale), attraverso gli studi superiori a Oxford, gli interessi archeologici, i primi passi nella carriera militare, la guerriglia contro i turchi condotta dal 1916 al 1918, la composizione del suo capolavoro di 660 pagine I sette pilastri della saggezza. Il titolo, tratto da una frase dei Proverbi della Bibbia, si riferisce alle fondamenta etiche su cui va costruita la propria dimora spirituale.

Se la narrazione ruota intorno alle atrocità e ai massacri della guerra, è il desiderio di restituire libertà e dignità al mondo arabo, e insieme di dare forma a un nuovo impero britannico, che nutre lo spirito della scrittura di Lawrence. Ma Victoria Ocampo non tralascia di sottolineare altre motivazioni più personali che lo avrebbero condotto all’impresa, mai espresse apertamente per pudore (“La paura di mostrare i miei sentimenti è il mio vero io”). L’autrice adombra, commentando la misteriosa dedica iniziale de I Sette pilastri, l’esistenza di un sentimento più intimo che lo avrebbe legato a un condottiero arabo morto prima di entrare trionfalmente a Damasco. Un’autodisciplina ferrea, la morigeratezza in ogni aspetto della vita materiale, il disprezzo per qualsiasi volgarità, assumevano in Lawrence i contorni di un ascetismo laico, basato sul proposito di mortificare il corpo, gli appetiti sessuali, le lusinghe artistiche, le ambizioni politiche e le gratificazioni economiche, per rispondere a un’ansia di elevazione spirituale.

In quest’uomo dagli occhi azzurrissimi e dal sorriso aperto, dalla bassa statura e dalla costituzione minuta, la ferrea volontà e la delicatezza dei sentimenti derivavano da una severità morale cui Victoria Ocampo volle rendere un commosso e ammirato omaggio, edificando un monumento alla persona, al combattente e allo scrittore, accentuandone una disposizione al sacrificio ai limiti del martirio. Per ironia della sorte, dopo aver sfidato torture, minacce, malattie, angustie fisiche e morali, 338171 T.E.L morì nel suo Dorset, in un banale incidente stradale, in sella non a un cammello ma alla sua motocicletta.

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 31 maggio 2021

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

OGAWA

YŌKO OGAWA, LA CASA DELLA LUCE – IL SAGGIATORE, MILANO 2011

Quasi tutti i romanzi di Yōko Ogawa (Okayama,1962) sono stati pubblicati in Italia dalle edizioni Il Saggiatore: La casa della luce del 1990, è uscito nel 2006, e ristampato cinque anni dopo. Premiatissima, celebre in patria e molto tradotta all’estero, Yōko Ogawa è considerata una delle più importanti autrici post-moderne contemporanee giapponesi, esponente della corrente letteraria chiamata “black romanticism”, che esprime un punto di vista cupo e pessimista relativamente alla psicologia e ai sentimenti dei personaggi rappresentati. Le opere di Yōko Ogawa sono perlopiù storie narrate in prima persona, situandosi fra il genere realista e quello fantastico, con una sovrabbondanza di elementi concreti su cui si inseriscono dettagli surreali, grotteschi o addirittura soprannaturali. Le trame evitano il sentimentalismo e le situazioni esplicitamente erotiche o sensuali, mettendo in primo piano protagonisti alienati dal contesto storico e sociale in cui vivono. Con uno stile minimalista ma descrittivamente puntuale, propone una narrazione scorrevole e priva di pretenziose artificiosità formali.

Il volume di cui ci occupiamo consta di tre racconti lunghi, il primo e più riuscito dei quali, “La gravidanza di mia sorella”, ha ottenuto il prestigioso premio Akutagawa ed è stato pubblicato sul New Yorker, onore riservato precedentemente solo ad altri due autori nipponici.

La protagonista (senza nome, come quasi tutti i personaggi femminili di Ogawa) è una giovane universitaria, venditrice part-time nei supermercati della città, che vive con la sorella e il cognato odontotecnico novelli sposi. Quando la sorella rimane incinta, i nove mesi della gestazione diventano un incubo per il piccolo nucleo familiare: per la sorella stessa, in preda a ossessioni nevrotiche che la portano dapprima a rifiutare il cibo e poi a ingozzarsi di marmellata di pompelmo ingurgitata a cucchiaiate, conducendola a una pericolosa obesità; per il marito timoroso di contrastare i capricci tirannici della moglie: per la narratrice in prima persona, che annota meticolosamente in un diario settimanale il progredire angoscioso della gravidanza, sino alla sua temuta e imprevista conclusione.

Nel secondo testo, è ancora una giovane donna la figura di spicco della narrazione. Raggiunta al telefono dalla telefonata di un cugino ventenne perso di vista da molti anni, si adopera per trovare al ragazzo una sistemazione nella residenza studentesca da lei stessa frequentata durante l’università. Lo accompagna quindi nel suo ex-collegio per studenti, periferico e architettonicamente fatiscente, presentandolo al preside, un anziano e colto professore, menomato nel fisico perché amputato di entrambe le braccia e di una gamba. Nelle settimane che seguono all’iscrizione del cugino al convitto, la protagonista non riuscirà tuttavia a mettersi più in contatto con lui, venendo invece trattenuta a lungo nell’ufficio di presidenza. Scopre così che sulla residenza universitaria si sono addensate ombre di sospetto per l’improvvisa e inspiegabile scomparsa di uno degli studenti, motivo dell’allontanamento di tutti gli altri frequentanti. Il racconto rimane sospeso in un’atmosfera di dubbio e sconcerto, che la figura misteriosa e infelice del professore, ormai moribondo e impossibilitato a rivelare alcun segreto, contribuisce a rendere più inquietante.

Il terzo racconto, che dà il titolo alla raccolta, vede ancora come voce narrante una adolescente, segnata dai turbamenti e dalle ansie tipiche dell’età. Figlia del rigido direttore di un orfanatrofio buddhista, la ragazzina vive con fastidio e rancore l’atmosfera opprimente della Casa della luce, nutrendo il rapporto con gli infelici ospiti in essa accolti di sfumature morbose, che vanno dall’amore non corrisposto per un ragazzo fisicamente e caratterialmente eccezionale, al disgusto espresso in dispetti, ritorsioni e sadico disinteresse verso i più piccoli e fragili di lei.

Tre protagoniste di tre racconti raccontate con sensibilità e penetrante intuizione da una scrittrice donna. Se dovessi definire con due aggettivi la scrittura di Yoko Ogawa, così come si manifesta nel volume preso in esame, non avrei nessuna incertezza nell’utilizzare questi termini: delicata nella forma, implacabile nel contenuto.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net  «SoloLibri», 26 ottobre 2023

 

 

 

RECENSIONI

OGAWA

YOKO OGAWA, L’ANULARE – ADELPHI, MILANO 2007

Tradotta in molte lingue, amata e premiatissima in patria, Yōko Ogawa (Okayama,1962) è considerata una delle più importanti narratrici contemporanee giapponesi, esponente della corrente letteraria chiamata “black romanticism”, che esprime un punto di vista cupo e pessimista relativamente alla psicologia e ai sentimenti dei personaggi rappresentati. Le sue opere, perlopiù narrate in prima persona, si situano fra il genere realista e quello fantastico, con una eccedenza di elementi concreti da cui affiorano dettagli surreali, grotteschi o addirittura soprannaturali, comunque decisamente ossessivi e perturbanti. Le trame evitano il sentimentalismo e le situazioni esplicitamente erotiche o sensuali, fornendo spunti di azione a protagonisti alienati dal contesto storico e sociale in cui vivono. Con uno stile minimalista, limpido e descrittivamente puntuale, la scrittrice propone una narrazione scorrevole e priva di pretenziose artificiosità formali. I suoi romanzi e racconti sono stati pubblicati in Italia da Il Saggiatore e Adelphi: presso quest’ultimo editore è uscito nel 2007 L’anulare, che in Giappone aveva visto la luce nel 1994 con grande successo di pubblico.

Come succede prevalentemente nei romanzi e nei racconti di Ogawa, la voce narrante è quella di una giovane donna di cui non viene mai citato il nome, impiegata da un anno presso un misterioso laboratorio situato in un fatiscente ex collegio femminile. La ragazza, in un precedente lavoro come operaia in una fabbrica di bibite, aveva perso la punta dell’anulare sinistro, troncata da un macchinario e sbalzata a decomporsi all’interno di una bottiglietta di gazzosa. Questo antecedente, narrato con fredda indifferenza, nel prosieguo della lettura diventa metafora dell’oscillazione tra dissolvimento e ricomposizione della materia che pervade l’intero racconto. La perdita di una piccola parte del suo corpo non viene metabolizzata come lutto, ma vissuta invece con curiosità: “Un’immagine mi ossessionava: quel pezzetto di carne a forma di conchiglia, rosa come un petalo di ciliegio, tenera come la polpa di un frutto maturo, che cade al rallentatore nella gazzosa ghiacciata per poi restare sul fondo, fluttuando tra le bollicine”.

Il proprietario del laboratorio in cui la protagonista viene assunta, l’inquietante signor Deshimaru, impeccabile nel camice bianco che ne riveste l’asettica correttezza dei gesti e la pacata professionalità dell’eloquio, nell’assicurare alla nuova dipendente ogni garanzia professionale, mette subito in chiaro le proprie richieste di datore di lavoro: gentilezza con i clienti, puntualità, pulizia e discrezione. L’unica mansione spettante alla giovane sarà quella di accogliere gli avventori spiegando loro l’operatività della piccola azienda: custodire in teche trasparenti e sigillate gli oggetti di cui vogliono privarsi senza tuttavia perderli definitivamente, anzi affidandoli alla conservazione in un luogo protetto. Questi “esemplari” deputati alla cura sono testimonianze di vita, memorie di momenti fondamentali dell’esistenza di ogni cliente: “C’erano esemplari di ogni genere: bulbi di giacinto, anelli magici, calamai, forcine per capelli, carapaci di tartarughe, giarrettiere”. Una signora elegante chiede di immagazzinare il suono di un pezzo pianistico dedicatole dal fidanzato, un anziano vuole proteggere lo scheletro del fringuello che per molti anni gli aveva fatto compagnia col suo canto, una ragazzina desidera mantenere intatti tre funghi nati dalla cenere dell’incendio della sua casa, in cui erano morti i suoi genitori e un fratellino. La stessa adolescente in seguito chiederà di preservare la cicatrice della bruciatura che in quella tragedia le aveva inciso la guancia.

La cura maniacale con cui il signor Deshimaru si occupa della preparazione e catalogazione degli esemplari nelle stanze sotterranee a lui solo accessibili, è un indizio del suo feticismo per tutti gli oggetti, ad esempio per le scarpe che regala alla giovane dipendente, irretendola in una relazione sessuale prevaricante e nascondendole i lati più tenebrosi della sua attività. L’atmosfera gelida e ovattata del laboratorio in cui si svolge la vicenda, viene perfettamente resa dalla scrittura razionalmente distaccata di Yoko Ogawa, che esprime la sua analitica imperturbabilità soprattutto nella descrizione dettagliata di cose e ambienti, lontana da qualsiasi adesione emotiva. L’inatteso sacrificio finale della protagonista turba il lettore, interrogandolo sul significato della sostenibilità del dolore, della separazione da ciò che si è amato, della ferocia perturbante del ricordo, espressi nel desiderio di conservare per sempre almeno una traccia della propria sofferenza.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 26 novembre 2023

 

RECENSIONI

OLDANI

GUIDO OLDANI, IL REALISMO TERMINALE – MURSIA, MILANO 2010

Il poeta Guido Oldani propone qui una lunga ed ironica meditazione, che è anche una lettura del mondo, sulla proliferazione minacciosa degli oggetti, che hanno finito per spodestare la natura, per ingabbiare l’uomo e per modificare, trasformandole, arte e poesia. Il realismo terminale è un testo provocatorio e paradossale, spesso addirittura parodistico, perché «la valenza ironica è forse l’unica forza rivoluzionaria riscontrabile nella contemporaneità».

Nel ventesimo secolo ha avuto inizio una urbanizzazione esasperata, che ha sconvolto equilibri naturali e sociali millenari, producendo eventi sismici planetari nelle coscienze e nei comportamenti umani. La poesia italiana non si è sottratta a questo cataclisma terminale, a partire dal futurismo con la sua effervescenza ottimistica e veloce, per passare alle cose polverose, semiinutili, nostalgiche dei crepuscolari, e per arrivare – attraverso gli imprescindibili ermetici e surrealisti – ai prodotti odierni: oggetti-diluvio del neorealismo, con l’ansia ideologica e politica del riscatto; e collasso degli oggetti nella neoavanguardia, ipnotizzata dal significante.
Dopo il 2000, tutto si artificializza, e la natura imita gli oggetti: «Non più un aereo assomiglia a un gabbiano, ma viceversa, per sempre sarà il viceversa».

In questo modo «si rovescia completamente la lettura estetica del mondo». Come reagire, come osare una ribellione? Oldani ha un solo suggerimento da dare: l’ironia. Al dilagare dell’oggettismo si può e si deve rispondere con il sogghigno sarcastico, con lo sberleffo. Se anche l’immaginario è diventato oggettofilo e oggettotropico (i popoli non emigrano per fame, ma per impossessarsi del miraggio della “roba”), l’unica libertà concessaci è il rifiuto.
La scrittura di Guido Oldani, a partire da queste premesse, si fa canzonatoria e pungente, irridendo pubblicità, psicanalisi, economia, religione e, ovviamente, la poesia attuale, paludata e salottiera, stracolma di “oggetti”, ma definitivamente morta.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Il-realismo-terminale-Oldani.html     24 maggio 2016

RECENSIONI

OLDANI

GUIDO OLDANI, LA FARAONA RIPIENA – MURSIA, MILANO 2013

 

RECENSIONI

OLIVER

MARY OLIVER, PRIMITIVO AMERICANO – EINAUDI, TORINO 2023

Primitivo americano, premio Pulitzer per la poesia nel 1984, è il libro più noto di Mary Oliver, autrice poco conosciuta in Italia, ma amatissima dal pubblico americano. Einaudi lo propone nella sua prestigiosa collana bianca, con l’appassionata prefazione della curatrice Paola Loreto e testo a fronte. Mary Oliver, nata in Ohio nel 1935 e morta in Florida nel 2019, è vissuta principalmente nell’East Cost, nei dintorni meno frequentati di Cape Cod, là dove boschi, laghi, paludi delle Province Lands, nella loro intricata e misteriosa wilderness, si approssimano al mare protetto da scogli e dune sabbiose.

Sacerdotessa di un panteismo naturalistico, Oliver è stata la riconosciuta e celebrata rappresentante della poesia ecologista statunitense. Le cinquanta composizioni della raccolta riecheggiano temi e atmosfere presenti nei massimi cantori nordamericani della natura, da Henry David Thoreau a Ralph Waldo Emerson, da Walt Withman a Emily Dickinson, da Robert Frost a Elizabeth Bishop, con un’accentuazione visionaria particolare, prossima alle proiezioni allucinatorie della letteratura distopica e postumana di oggi.

Nella sua interpretazione del reale, sfumano i contorni materiali che differenziano specie da specie, mondo animale e vegetale, interconnettendo l’umano con il minerale, l’acqua e l’aria, nella fusione di elementi diversi in un’indistinta origine biologica comune.

Lunghe passeggiate solitarie, o in compagnia del suo cane, nella foresta o ai bordi di stagni e sulle rive dei fiumi, portano la poeta a imbattersi in tipologie diverse di alberi, cespugli, fiori e frutti (querce, pini, meli, anemoni, caprifogli, bacche, uva, more, funghi…), e in una ricca varietà di insetti, uccelli, quadrupedi, pesci, anfibi: dalle volpi alle lepri, dagli aironi ai corvi, dai pipistrelli ai gufi. Durante le sue quotidiane immersioni nel verde, si lascia pungere da spini e parassiti: “Dove il sentiero chiude / i battenti e oltre, / attraverso le foglie sgamollate, / i rami caduti, / attraverso l’intrico di salsapariglia, / ho proseguito. Alla fine / non riuscivo più / a salvare le braccia / dalle spine; le zanzare / mi hanno annusata / alla svelta, calda / e ferita, e sono arrivate / roteando e ronzando” (Egrette); incontra due serpenti che attraversano veloci il bosco “come una coppia affiatata / come una danza / come una storia d’amore”; osserva ortaggi selvatici maleodoranti ma comunque da rispettare: “Quello che infiamma il sentiero non è per forza grazioso”.

Con animali e piante vive esperienze simbiotiche e metamorfizzanti, in un mistero di compenetrazione reciproca: si trasforma nell’orsa che assaggia il miele, nel pesce appeso all’amo e poi ingerito, nel vitellino allattato dalla mucca, nella cerva che beve al ruscello, nei fiori pallidi bagnati dalla pioggia,  e l’assimilazione è più fisica che mentale, più carnale che emotiva: “l’unico modo / di indurre la felicità nella tua mente è introdurla // prima nel corpo, come piccole / prugne selvatiche”, “il blu del cielo mi cade addosso // come seta, i fiori ardono, e io voglio / rivivere tutta la mia vita, riiniziare daccapo, // essere assolutamente / selvaggia”.

Persino nella palude fangosa la poeta celebra il pantano, facendosi essa stessa palude: “Mi sento /… un ramo che ancora potrebbe, / a distanza di anni, metter radice, / germogli, gemmare, fiorire – / fare della sua vita un palazzo / vibrante di foglie”. L’elemento equoreo in cui si immerge diviene amnio ancestrale, e l’accoglie non più donna ma pesce, come all’alba della vita nel nostro pianeta: “Bracciata dopo / bracciata il mio / corpo ricorda quella vita e reclama / le parti perdute di sé – / pinne, branchie che / si aprono come fiori nella / carne – le gambe / vogliono serrarsi e diventare / un muscolo solo, giuro che / conosce / l’esatta sensazione / di essere coperta / di squame grigio blu!”

I mondi animali vegetali e umani sono parte inscindibile della stessa creazione, e le sedimentazioni millenarie di ossa sepolte nel terreno – scheletri di persone e carcasse di bestie – appaiono uguali nel ciclo eterno di nascita riproduzione e morte. Officiante di una Messa panica, Mary Oliver proclama un suo “Vangelo ecocentrico”, come suggerisce Paola Loreto nella prefazione, messaggio di salvezza per il pianeta soffrente, a cui indica la sola possibilità di resistenza nel destino comune di accoglienza di tutto ciò che vive e respira.

 

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 15 ottobre 2023

RECENSIONI

OLMI

ERMANNO OLMI, LETTERA A UNA CHIESA CHE HA DIMENTICATO GESU’ – PIEMME, MILANO 2013

Questa  Lettera a una Chiesa che ha dimenticato Gesù (Piemme, 2013), scritta dal regista Ermanno Olmi, ha i toni scoraggiati, delusi, forse anche un po’ risentiti dell’innamorato tradito, già nelle intestazioni dedicatorie: «Cara Chiesa di cristiani smarriti, dell’ufficialità, ricca per i ricchi, dei compromessi, dei dogmi, di un passato oscurantista, delle liturgie…».

Nello stesso tempo assume il linguaggio intenerito e pieno di speranza di chi ancora vuole illudersi e credere, di chi ama nonostante: e allora l’istituzione torna ad essere madre e fidanzata fedele, degna di una devozione che superi ogni ingannevole dubbio:  «Chiesa della rifioritura, della buona volontà, della verità, degli assetati di giustizia, della donazione…».

Cosa chiede Olmi, con parole ispirate e profetiche, utopistiche e rabbiose, alla Chiesa di cui si sente parte viva e sofferente? In primo luogo un’attenzione accogliente verso gli umili e i dannati della terra, capace di ritrovare «l’eroicità della donazione di se stessi»: «se quel Cristo ti vedesse oggi, cara Chiesa, ridotta alla stregua di uno Stato come tanti altri, con confini che separano, armigeri che sbarrano gli ingressi, e persino un tribunale per emettere sentenze, come ti giustificheresti?». Poi di recuperare l’amore per la terra e la natura troppo spesso asservita a interessi economici. E soprattutto di uscire da una sonnolenza secolare – che l’ha rinchiusa in atteggiamenti illiberali e punitivi, ritualistici e dogmatici – lasciando l’uomo libero nelle sue scelte e nei suoi pensieri: «Dio deve lasciarmi vivere libero. Si è impegnato nel momento in cui mi ha creato».

Una presa di posizione decisa e coraggiosa, quella di Olmi, a favore dell’apertura al nuovo, della trasparenza, di un ritrovato entusiasmo, che lo spinge addirittura a arricchire il Padre Nostro di corollari puntualizzanti, e a ridisegnare un umanissimo Cristo accanto a una Maddalena innamorata. Perché: «Prima di qualsiasi Chiesa c’è l’uomo. L’uomo è la vera chiesa dove risiede Dio».

 

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www.sololibri.net/Lettera-a-una-Chiesa-che-ha.html                22 febbraio 2016