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RECENSIONI

PAPINI

GIOVANNI PAPINI, CHIUDIAMO LE SCUOLE!  – STAMPA ALTERNATIVA, TARQUINIA 2011

Che ricordo abbiamo, quasi tutti, di Giovanni Papini? Io personalmente, che da ragazza avevo letto con qualche entusiasmo Un uomo finito, mantengo una vaga impressione di lui come severo censore della mollezza letteraria, culturale, civile del popolo italiano: prima classicista, poi futurista, poi convinto interventista, quindi fascista, e infine intransigente cattolico.

Nato e morto a Firenze (1881-1956), Papini fu molto attivo nell’opera di svecchiamento della cultura e della società nel primo ventennio del ’900. Fondatore di due importanti riviste, Leonardo (1903) e Lacerba (1913), collaboratore de Il Regno e direttore de La voce (1912), collaborò intensamente con Corradini, Prezzolini e Soffici, concependo sempre la scrittura come terreno di lotta e azione, e scrivendo in uno stile declamatorio, fortemente polemico e dissacrante. Ebbe il grande merito di divulgare in Italia i maggiori movimenti filosofici stranieri, dall’intuizionismo francese di Bergson al pragmatismo anglo-americano di Peirce e di James. Quasi del tutto dimenticato e rimosso dalla scena culturale attuale, soprattutto per le sue scelte ideologiche e i suoi esaltati atteggiamenti reazionari, è stato recuperato editorialmente da Vallecchi e Mondadori, e oggi gode di un nuovo interesse anche da parte di alcuni movimenti di opposizione, non solo di destra. Stampa Alternativa, ad esempio, ha pubblicato in e-book un suo provocatorio e caustico pamphlet del 1914, Chiudiamo le scuole!, edito per la prima volta in volume da Vallecchi nel 1919, poi dalle edizioni Luni nel 1996 e nel 2013.

La proposta radicalmente rivoluzionaria di questo saggio si basa sulla convinzione non solo dell’inutilità dell’istituzione scolastica, ma addirittura sulla sua incontestabile nocività. Strumento di tortura mentale e fisica dei bambini, di livellamento culturale degli adolescenti, di indottrinamento ideologico degli universitari, l’istruzione statale affonda sistematicamente ogni personalità, originalità e iniziativa individuale attraverso l’imposizione di programmi uniformi, noiosi, formali e antiquati. Essa serve solo alle finalità pratiche della classe dirigente del paese: libera i genitori dall’impegno di seguire i figli per tutta la giornata, illudendoli inoltre sul futuro lavorativo della prole; mantiene una grande quantità di lavoratori (maestri, professori, ispettori, bidelli, editori, librai, cartolai) che altrimenti non avrebbero altra rendita economica; soprattutto forma cittadini ubbidienti e conformisti, incapaci di qualsiasi giudizio indipendente e personale. Non crea cultura, la trasmette solamente, e in maniera superficiale, pietrificata, massificante.

Il giudizio di Papini sulla classe insegnante è impietoso. Chi insegna esercita un potere sadico sulle sue vittime, annoiandole e mortificandole, nella convinzione pretenziosa e ingenua di appartenere a un ceto privilegiato, e di svolgere una funzione educativa indispensabile. In realtà, è molto spesso impreparato e privo di curiosità, svolge il suo lavoro solo per godere di tre mesi di vacanza e di uno stipendio garantito, si esercita a formare greggi ubbidienti di burattini, ripetendo per tutta la vita le stesse lezioni in maniera monotona, e anchilosandosi fisicamente in stanze polverose e malsane. L’unica possibile educazione è quella che si attua nel colloquio tra due persone, o nel commercio quotidiano con la vita e l’esperienza concreta, mentre il solo risultato della relazione tra maestri e scolari in una classe è un rapporto di servilismo, ipocrisia, reciproca diffidenza. Gli alunni sono sinceri solo quando imbrattano “la parete della latrina”.

Gli strali di Papini non sono diretti esclusivamente contro la didattica, ma si rivolgono anche alla costrizione materiale a cui vengono sottoposti i giovani, chiusi in “bianche galere per far patire il loro corpo e magagnare il loro cervello”, quando invece dovrebbero poter godere di tanto spazio per muoversi, e di “un po’ d’igienica anarchia”. Il suo grido di protesta ricorda il “Come vi permettete?” recentemente lanciato da Greta Thunberg all’ONU: “Con quali traditori pretesti vi permettete di scemare il loro piacere e la loro libertà nell’età più bella, e di compromettere per sempre la freschezza e la sanità della loro intelligenza?”

La sua opposizione a ogni tipo di reclusione forzata non si rivolge solo ai fabbricati scolastici, ma a qualsiasi edificio di segregazione, detenzione e isolamento: “Diffidiamo de’ casamenti di grande superficie, dove molti uomini si rinchiudono o vengon rinchiusi. Prigioni, Chiese, Ospedali, Parlamenti, Caserme, Manicomi, Scuole, Ministeri, Conventi. Codeste pubbliche architetture son di malaugurio: segni irrecusabili di malattie generali. Difesa contro il delitto – contro la morte – contro lo straniero – contro il disordine – contro la solitudine – contro tutto ciò che impaurisce l’uomo abbandonato a sé stesso: il vigliacco eterno che fabbrica leggi e società come bastioni e trincee alla sua tremebondaggine”. Mezzo secolo prima di Basaglia, di Illich, di Foucault, Giovanni Papini definiva gli istituti “sinistri magazzini di uomini cattivi”, dove milioni di esseri umani “son condannati al buio, alla fame, al suicidio, all’immobilità, all’abbrutimento, alla pazzia”. Le scuole, a differenza di altre istituzioni, rinchiudono maleficamente solo bambini e ragazzi sani, innocenti e tendenzialmente felici, privandoli della gioia di vivere, della voglia di crescere e imparare autonomamente, per renderli proni alle esigenze della classe dominante.

Cosa suggeriva quindi questo iconoclasta anarchico, per rendere ai giovani il loro diritto a un’esistenza salubre, libera e creativa? Di licenziare tutti i dipendenti del Ministero della pubblica istruzione, offrendo loro pensioni vitalizie purché lasciassero gli studenti “fuori dalle loro fabbriche privilegiate di cretini di stato”. Accidenti! Nemmeno il più esagitato dei Black bloc arriverebbe a proporre una soluzione così drastica e rivoluzionaria…

 

© Riproduzione riservata                «Il Pickwick», 4 novembre 2019

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

PARAZZOLI

FERRUCCIO PARAZZOLI, AMICI PER PAURA – SEM, MILANO 2017

I “QuattroTempi” e i 25 capitoli in cui si suddivide l’ultimo romanzo di Ferruccio Parazzoli (Roma,1935) scandiscono le vicende vissute dal piccolo Francesco e dalla sua famiglia durante la seconda guerra mondiale. Una Roma piccolo-borghese, intimorita e sconcertata da una Storia a cui si sente estranea, e poi un rifugio marchigiano in cui trovare riparo dall’assedio tedesco e dai bombardamenti, fanno da sfondo agli avvenimenti domestici osservati con l’ingenuo stupore di un bambino che sogna ponendosi qualche domanda, e si pone domande sognando altri orizzonti, forse eroici, senz’altro più vitali di quelli della sua quotidianità, infreddolita e affamata.

Intorno a lui ruotano molti personaggi, per lo più appartenenti allo stretto cerchio familiare: un padre impiegato ministeriale, fedele agli affetti e al lavoro, ma privo di grandi ambizioni e idealità; la mamma tranquillamente devota ai suoi doveri di moglie, madre e casalinga; la sorellina Cristina, che manifesta sprazzi di vivace curiosità. E poi un nonno lombardo, massone e socialista, che con la sua morte improvvisa impaurisce il nipotino, e una schiera di zii e cugini a cui i quattro componenti del ridotto nucleo familiare rimane in sostanza indifferente, se non velatamente ostile. Il dramma della guerra è patito da tutti loro con rassegnata passività, in una silenziosa accettazione del ruolo di vittime, e Parazzoli riesce a rendere molto bene la docile sottomissione con cui i protagonisti vivono gli eventi, grandi e piccoli, delle loro esistenze (le morti private e le stragi belliche, i tradimenti politici e i soprusi parentali), in uno stile elegante e sorvegliato, pacatamente denotativo.

Francesco, cresciuto in un casamento INCIS a forma circolare, sul cui muro in alto campeggiano tre fasci Littorio color cioccolato, vive la sua remissiva e solitaria infanzia di Figlio della Lupa tra adunate e sfilate militari, proiezioni dei film Luce, discorsi di Mussolini ascoltati alla radio, canzoni e poesie fervide di amor patrio da imparare a memoria, precipitose corse nel rifugio antiaereo al suono delle sirene d’allarme, non appena si odono sfrecciare in cielo gli aerei nemici. Aggrappa le sue paure ai soldatini con cui gioca, al fucile con la canna di latta che imbraccia da valoroso combattente, «immortale piccolo dio della Guerra». La capacità di estraniarsi da un presente terrificante sarà ciò che lo aiuterà a salvarsi nell’incrudirsi degli avvenimenti. «Ma lui era lontano, accanto agli eroici soldati italiani, ai marinai, agli aviatori, ai bersaglieri, alle truppe coloniali vestite di cachi, ma soprattutto ai fanti in grigioverde».

L’inderogabile fuga nel maceratese con la mamma e la sorellina, per evitare i bombardamenti e i rastrellamenti in atto nella capitale, dapprima ospitati da estranei-stranianti parenti in una grande villa, quindi nella gelida canonica di un viceparroco partigiano, rivelano ai pochi anni di Francesco la durezza della realtà in precedenza solo intuita e temuta. Il ritorno in una Roma sventrata e immiserita, l’odio delle diverse fazioni politiche, la ferocia degli eserciti contrapposti («Chissà chi aveva ragione»), la fame, le violenze, i furti, le deportazioni rendono il bambino sempre più confuso e fragile, privo di punti di riferimento. Solo nella lettura, scoperta fortunosamente attraverso un anziano vicino bibliofilo, troverà le risposte cercate, arrivando a concludere che da grande non avrebbe fatto né il fante né il prete, ma lo scrittore: solamente in questo modo avrebbe potuto trasmettere agli altri il ricordo di quello che era successo, le morti ingiuste come quelle del suo amico Domenico, il sacrificio di anime generose, la sofferenza innocente di troppe vittime, e la gioia di una liberazione ritrovata.

 

© Riproduzione riservata    

www.sololibri.net/Amici-per-paura-Parazzoli.html;          10 aprile 2017

 

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PARESCHI

SILVIA PARESCHI, I JEANS DI BRUCE SPRINGSTEEN – GIUNTI, FIRENZE 2016

Il mito americano, così com’è stato vissuto, alimentato e condiviso da generazioni intere in tutto il mondo dall’800 a oggi, recupera una sua voce vivace nelle pagine del libro di Silvia Pareschi I jeans di Bruce Springsteen, sospese tra il reportage e il resoconto diaristico, emozione e denuncia, nostalgia e irritazione, fascino e disinganno. Gli Usa, e in particolare la California, e in particolare San Francisco ‒ con il sottofondo di musica rock, blues, gospel o jazz, e le voci di Nina Simone e Grace Slick – raccontati da chi li conosce benissimo, perché ci vive e ci lavora da molti anni, traducendone gli scrittori più famosi per importanti case editrici italiane: Jonathan Franzen, Don DeLillo, Cormac McCarthy, Denis Johnson…

Silvia Pareschi alterna narrazioni di esperienze personali ad animate descrizioni paesaggistiche, risentiti commenti politici a dialoghi con personaggi tanto stravaganti da sembrare inventati. Così leggiamo divertiti di lezioni yoga in stanze affumicate dalla marijuana, bar gay frequentati da armoniosi ballerini e rudi camionisti, sozze lavanderie a gettone in cui si perdono slip e calzini, dentisti esosi, fast food automatizzati, uffici insonorizzati, decappottabili sportive e scassati pick-up, studi cinematografici specializzati in porno e chiese metodiste che organizzano mense per i poveri. La California che esce da queste pagine appare sempre più dominata dai techies, giovani automi che lavorano per i Big Five (Facebook, Google, Microsoft, Apple, Amazon), guadagnando stipendi astronomici; anche San Francisco appare stordita da una rivoluzione culturale che ne ha trasformato i lineamenti: “Dev’esserci qualcosa nell’aria, la polvere delle ossa dei cercatori d’oro che si mescola al vento dell’oceano e crea un’alchimia che rende tutto estremo, libertà, follia, genio, ricchezza, miseria. E tutti vengono qui attratti dall’estremo, ma dopo che hanno smesso di diventare beat, hippy o predicatori folli sono tornati a cecare quello che cercavano i cercatori d’oro: la ricchezza”.

Non solo dollari, però, non solo finanza fanno degli States il continente che più di ogni altro nutre l’immaginario collettivo mondiale. Ci sono dissestate autostrade a cinque corsie, città affollate e villaggi abbandonati, solitudini estreme di zone desertiche, foreste con querce enormi e sequoie, oceani e fiumi impetuosi, uragani catastrofici, monti in cui scorrazzano coyote, orsi e puma, l’urbanizzazione più sfrenata e la wilderness più primitiva, l’intellettualismo più snob e il fanatismo delle sette religiose.

E poi c’è lui, il mito dei miti: Springsteen, che fece toccare “vette di estasi mistica” a Silvia Pareschi adolescente, al punto da indurla a percorrere centinaia di miglia, coast-to-coast fino al New Jersey e alla città natale, Freehold, per  visitarne la casa, la scuola, la pizzeria preferita, e infine il sarto, da cui ottenne in regalo un paio di jeans scoloriti, appartenuti al divino. Taglia 38. Magari Bruce li indossava a dodici anni: reliquia comunque preziosa.

 

© Riproduzione riservata   

https://www.sololibri.net/I-jeans-di-Bruce-Springsteen-Pareschi.html              4 marzo 2019

 

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PAREYSON

LUIGI PAREYSON, PERSONA E LIBERTA’ – LA SCUOLA, BRESCIA 2011

Al filosofo Luigi Pareyson, voce profetica e inquieta di un cristianesimo indocile, non omologato, assetato di verità, la casa editrice La Scuola ha dedicato un volume antologico, Persona e libertà, che raccoglie sei saggi, introdotti da una sapiente e ammirata prefazione di Giuseppe Riconda. Di questi sei interventi, che spaziano dalla visione estetica alla teoria dell’interpretazione, dal personalismo esistenziale alla riflessione sul pensiero tragico, quello che più caratterizza in maniera originale la riflessione del filosofo piemontese, è a mio parere l’ultimo: Filosofia della libertà.
In queste venti pagine Luigi Pareyson introduce il lettore al tema fondamentale del rapporto tra libertà e nulla, inizio e fine, creazione e annichilimento. Opponendo alla Grundfrage di Leibniz (“perché l’essere anziché il niente?”) la positività di un’affermazione divina libera e generosa, Pareyson postula un Dio come libertà originaria che prima ancora di dare principio alla creazione afferma se stesso come “uscita da un non essere”, “irruzione pura, impreveduta e repentina come un’esplosione”.

Libertà di essere come “inizio e scelta”, che ha conosciuto la negazione e l’ha sgominata appunto proponendosi come vittoria sul nulla e sul male. “Dire «Dio esiste» non significa se non dire «È stato scelto il bene»”. L’atto con cui Dio origina se stesso è drammatico perché indica la lotta “fra la volontà e il desiderio di Dio di affermarsi ed esistere e il pericolo che vincano il nulla e il male”.

All’interno di questa scelta divina originaria di positività e di bene, quale spazio lascia quindi Luigi Pareyson all’esistenza del male, della morte, della sofferenza innocente? Il male è un’ombra, uno “scurimento del fulgore divino”, ridestato dalla ribellione e provocazione umana, che solo attraverso l’ attraversamento del dolore, “luogo della solidarietà tra Dio e l’uomo” può essere sconfitto, trasformando il negativo in positivo, in una redenzione eterna e assoluta.

 

© Riproduzione riservata         

www.sololibri.net/Persona-e-liberta-Pareyson.html           12 dicembre 2016

RECENSIONI

PARIS

RENZO PARIS, IL MATTINO DI DOMANI – ELLIOT, ROMA 2017

Quanta voglia e rimpianto di vita, nell’ultimo volume di poesie di Renzo Paris (Celano, 1944). A cominciare dal titolo, così propositivo e aurorale (Il mattino di domani), per continuare poi nei temi affioranti in tutt’e quattro le sezioni scandite stagionalmente, che dalla primavera dell’infanzia arrivano alla «ridicola vecchiaia» dell’inverno. Sono ricordi, personali e collettivi: memorie familiari e sociali, percorsi di crescita culturale e politica. E sono paesaggi, istantanee folgoranti di città straniere o italiane (Mosca, Parigi, Marrakech, Helsinki, e l’amatissima Roma sempre più multietnica). Oppure amori, adolescenziali e maturi (la moglie Marina, amanti dimenticate o redivive, sconosciute esploratrici di Facebook); turbamenti sessuali e tentazioni trasgressive («Lolite di un attimo, ragazze curiose, / per favore, smettete di ricordarmi la vita», «Sono un conduttore erotico, / falotico. Vivo dell’altrui piacere. / Luttuoso, voluttuoso, paciere delle arrabbiate, / braciere delle / scostumate»). E ancora i “cari fantasmi” che emergono dalle brume di un passato lontano ma affettuosamente rivisitato, con un sentimento di nostalgica riconoscenza (il mondo contadino dell’Abruzzo nativo, la madre, le maestre, i compagni di scuola, la gente semplice del paese; e poi gli amici poeti che non vivono più…). Una sorta di rendiconto morale, di dettagliato inventario su guadagni e perdite dell’esistenza, che però lascia aperti vitalissimi spiragli di progettualità e joie de vivre, anche quando affronta la malinconia del tempo che passa, dello «stupore dell’ultimo tramonto», del distacco dalle persone e dalle cose amate: «Cara vita, che a poco a poco mi abbandoni», «Ho vissuto per ricordare e adesso // che la memoria si cancella, dove vado?».

Renzo Paris, prolifico romanziere, poeta e saggista – nonché traduttore, critico letterario e docente universitario -, non ha mai lesinato il suo impegno culturale e politico: sempre schierato a sinistra, a lungo collaboratore del Manifesto, di Liberazione e oggi del Venerdì di Repubblica, nei versi non dimentica le tragedie umanitarie contemporanee, la fame del terzo mondo, i profughi delle guerre mediorientali, il terrorismo, la disperazione degli ultimi a cui nulla può offrire riparo e consolazione: né la bellezza dell’arte e della natura, né – ovviamente – la poesia («la poesia / sarà pur sempre una cosa da ragazzi?».

Le composizioni di questa raccolta, tutte in terzine di vario metro, con rare indulgenze a rime, assonanze e calembour linguistici, sembrano ambire soprattutto a una chiara intenzionalità comunicativa, a una oggettività descrittiva che non lascia spazio a nebulose interpretazioni psicanalitiche: decise a rivendicare la propria prosaica adesione alla quotidianità dei gesti e dei sentimenti. Il loro autore continuamente ribadisce il suo ossessivo desiderio di partecipazione alla concretezza del reale, col timore che esso rimanga inappagato: «Nel mondo resto sempre a teatro», «Sono affollato di voci e di nessuna realtà». L’aggrapparsi tenacemente alle cose minime che osserva (insetti, uccelli, facce, parole di amore e amicizia) rimane allora il più solido ancoraggio per i mattini futuri.

 

«Nazione Indiana», 2 agosto 2017

 

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PARRELLA

VALERIA PARRELLA, IL VERDETTO – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2020 (ebook)

Nome omen, dicevano gli antichi, e il nome dei due protagonisti del racconto di Valeria Parrella rispecchia il destino tragico di due eroi del mito, raccontati sia da Omero sia dai tragici greci e latini. Ne Il verdetto, Clitemnestra e Agamennone ripercorrono i passi dei loro omonimi classici, ripetendone passioni, rancori, tradimenti, vendette e morte.

Il testo è una rielaborazione dell’atto unico rappresentato nel 2007 allo Stabile Mercadante di Napoli con la regia di Mario Martone: un monologo femminile interrotto da brevi interventi della voce maschile, talvolta modulati su testi di canzoni partenopee. Nell’introduzione l’autrice precisa che l’intreccio della vicenda non è tratto dalla cronaca, né va letto come puro rifacimento della leggenda: risponde invece all’esigenza di indicare motivazioni più universali, tratteggiando il nodo che lega indissolubilmente due amanti in un rapporto masochistico di dipendenza reciproca, di gelosia e sacrificio.

Clitemnestra è una liceale di estrazione borghese che si innamora di un piccolo camorrista, e sfidando l’anatema familiare e la riprovazione cittadina, lo sposa e diventa la madre dei suoi tre figli. Nella sua scelta è spinta non solo dall’attrazione fisica (“certe spalle così larghe e certi occhi così profondi”), ma anche dal fascino esercitato dalla durezza dell’ambiente popolare, grossolano e brutale, in cui si inserisce. (“Tutto ‘sto teatro me piaceva”). Agamennone in poco tempo si impone come boss nel cerchio malavitoso, divenendone ‘o re, mentre a Clitennestra, così forbita nell’esprimersi, così diversa da tutte le altre donne del clan, subito viene riconosciuto il ruolo di regina. La coppia, a prima vista tanto male assortita, si trasferisce sulle pendici del Vesuvio, in una “villa troppo bella, isolata, alta, che dominava e doveva dare l’impressione di dominare”.

Lui però era sempre assente, impegnato in azioni di fuoco che lo portavano lontano, in missioni segrete da cui tornava sempre più rabbuiato e invelenito, sempre più cattivo: “D’accordo: mancava. Mancava sempre dal letto, da casa, dalla città. Finiva n galera, usciva, partiva, scompariva per giorni e neppure io, la moglie, dovevo sapere che fine aveva fatto. Ma quando tornava, allora era Agamennone che tornava… era Agamennone che mi dormiva affianco… lui era Agamennone, e io la femmina sua, il mio utero per moltiplicare la sua immagine”. Quando la guerra di camorra si fa più feroce, la prima vittima in famiglia è la giovane figlia, Ifigenia come la vergine adolescente del mito: ne derivano uccisioni e vendette, fughe, sparizioni. La separazione, l’esilio e il silenzio durano dieci anni. Entrano in gioco i reciproci amanti, Cassandra ed Egisto, il rancore e la rabbia soffocano qualsiasi altro sentimento, fino all’inevitabile e sanguinoso epilogo: “Così io sono stata Clitemnestra che amava e Clitemnestra che ama. Io sono Clitemnestra che ha aspettato, Clitemnestra che correva in avanti a costruire muri contro Agamennone e Clitemnestra che vorrebbe tornare indietro. Nulla di quello che ho fatto ha avuto senso se non in me, tutto è stato governato da Necessità eppure nulla è stato scelto, eppure nulla rinnego”.

In un crescendo di pathos che mantiene qualcosa dell’epos tragico, Valeria Parrella fa della protagonista una vittima del fato e della passione più ottenebrante: “uccidendo Agamennone, uno e unico ho versato il Mio sangue, perché è a me che ho tolto la vita”.

A questo punto, ogni applicazione della giustizia umana risulta sterile e assurda, perché la condanna è ovviamente auto-inflitta ed eterna.

 

© Riproduzione riservata                 6 maggio 2020

 

 

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PASOLINI

PIER PAOLO PASOLINI, IL FASCISMO DEGLI ANTIFASCISTI – GARZANTI, MILANO 2018

Garzanti ha raccolto nella collana “I piccoli grandi libri” otto interventi che Pier Paolo Pasolini scrisse tra il 1962 e il 1975 sull’evoluzione storica del fascismo, e sulla sua sopravvivenza culturale e politica nell’Italia del dopoguerra. Fascismo inteso come potere massificante e subdolo, capace di modellare i comportamenti delle masse, manipolandone le idee e livellandone aspirazioni e desideri.

Nel primo saggio, pubblicato su Vie Nuove in risposta al quesito di un lettore sull’attrattiva che la destra esercitava sulle nuove generazioni, Pasolini polemizza con un’abitudine diffusa nel giornalismo «che vuole che i suoi personaggi siano come lui crede che siano», e li costruisce artificialmente, blandendo in tal modo la curiosità dei lettori. Alla stessa maniera ai giovani si offre l’immagine di un fascismo falsamente rivoluzionario, antiborghese, incorrotto e giustizialista, in un’Italia che «sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo». Un fascismo rappresentato «come normalità, come codificazione allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società». Questo scriveva Pasolini nel 1962, con il suo stile diretto, coraggiosamente polemico, ponendosi già allora in decisa opposizione contro il pensiero ammorbidito del neocapitalismo, contro i genitori educatamente antifascisti di ragazzi ingenuamente ribelli. E concludeva l’articolo con un epigramma feroce dedicato a padri e madri ipocritamente progressisti: «Che vi vengano figli fascisti, che vi distruggano con le idee nate dalle vostre idee, l’odio nato dal vostro odio».

Anche nei saggi successivi, pubblicati perlopiù sul Corriere della Sera e inclusi poi in Scritti Corsari, gli strali pasoliniani prendono di mira soprattutto l’ideologia edonistica del consumo e la produzione di beni superflui (“che rendono superflua la vita”), così come era stata imposta negli anni 60-70 dalla stampa e dalla televisione, entrambe portavoce in primis degli interessi industriali, capaci di ammorbare con miraggi di ricchezza milioni di persone nel nostro paese. Un’Italia non più contadina, forse nemmeno operaia e certamente non più cattolica, ma abitata da una borghesia miope, attratta da valori ormai distanti da quelli espressi dalla triade Chiesa-Patria-Famiglia. In quest’Italia omologata culturalmente, non esisteva una reale differenza tra fascisti e antifascisti, simili ormai sia nell’estrazione sociale, sia nella psicologia, nel linguaggio, nell’abbigliamento.

La diversità tra il fascismo storico, espressione di una destra caricaturale, rozza, provinciale, e il nuovo fascismo, camaleontico e illiberale, «americanamente pragmatico», viene a più riprese illustrata nei vari articoli presenti nel volumetto garzantiano, insieme alla definizione ironica delle caratteristiche dell’antifascismo postbellico: un antifascismo di maniera, asservito a un Potere non ben definibile, che non essendo più quello politico-ecclesiastico-militare, si manifesta prevalentemente nell’interesse per il mercato, prono alle sue esigenze. L’antifascismo in questione era sostanzialmente antidemocratico, modaiolo, salottiero, parolaio, incapace di prese di posizione realmente di sinistra. Pasolini, pur riconoscendo la propria attitudine donchisciottesca ed estremistica, rivendica a sé il diritto di dissentire, di restare criticamente fuori dal coro, individuando nel conformismo interclassista che permea la società capitalistica internazionale il maggiore pericolo spersonalizzante del linguaggio, dell’etica, della cultura e della politica.

L’ultimo saggio antologizzato è il famoso articolo sulla scomparsa delle lucciole dalle campagne italiane, che Pasolini pubblicò sul Corriere il 1° febbraio 1975, in una prosa che ci appare dopo quasi cinquant’anni ancora violentemente profetica. Gli insetti minuscoli e innocui che non illuminano più romanticamente campi e periferie nostrani hanno segnato, con il loro sparire, la trasformazione non solo di un ambiente naturale, ma soprattutto di una società e di una cultura politica, che se prima era abbarbicata a valori residuali di patriarcato contadino e cattolico, negli anni ’70 iniziava a rivelare il suo vero volto di inconsistenza, di vuoto, di servilismo ad apparati burocratici senza alcuna presa sulla quotidianità vissuta dai cittadini. Attraverso quali rabbiose e sarcastiche parole Pasolini commenterebbe oggi l’eredità lasciataci dall’ involuzione culturale di allora e la stagnazione civile attuale, possiamo solo immaginare, con malinconica rassegnazione e scarse speranze in un riscatto futuro.

© Riproduzione riservata       «Il Pickwick», 21 gennaio 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

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PASTERNAK

BORIS PASTERNAK, ANCH’IO HO CONOSCIUTO L’AMORE – PASSIGLI, FIRENZE 2015

L’editore Passigli ha pubblicato (con un’interessante prefazione di Marilena Rea) un’antologia delle poesie d’amore scritte da Boris Pasternak tra il 1913 e il 1956. Vi ritroviamo tutta l’intimità pudica, la cura dei dettagli più trascurabili, la sensibilità per le sfumature dei sentimenti, l’attenzione per la natura caratteristiche dello scrittore georgiano. In un’atmosfera che rimane, ovviamente, quella della sua amatissima madre Russia, il clima sembra non prediligere mai i chiarori soffocati delle estati, le luci afose del mezzogiorno: invece sempre albe o tramonti, nebbie e piogge, brine e nevi, autunni o inverni. Così nella descrizione minuta della vegetazione circostante, scopriamo sì qualche salice, pioppo o castagno, ma soprattutto vengono menzionate con particolare delicatezza le erbe del sottobosco, i fiori dei prati, le piante medicinali (mirtillo, menta, lappola, camomilla, belladonna, arnica, bucaneve, lillà, liquirizia, sorbo, astro, citiso…). E tra gli animali, non sono quasi mai raccontati quelli di medie o grandi dimensioni, piuttosto gli insetti, gli uccelli dai colori meno appariscenti, dall’esistenza più fragile e fugace. Così è anche dell’amore, narrato quasi con esitazione, evitando qualsiasi facile retorica, descrivendo più le lontananze che gli avvicinamenti, più il passato che il futuro: «Anch’io ho conosciuto l’amore, e magari lei / è ancora viva, chissà //…folleggia il passato, fingendo di non sapere / che non abita più in mezzo a noi»; «Non come servo, non asfissiante, / non di continuo – forse in tutto due volte / ti ho supplicato //…Neppure tu sopporti gli intrugli / di lagne servili e confessioni».

La passione, per essere degna di descrizione, deve essere sfebbrata, decantata in un sentimento più discreto, mai proclamato ad alta voce. Anzi, preferisce il silenzio, la lettera o la foto inviata da chissà dove, piuttosto della presenza concreta: «Vivo con la tua foto, quella che ride / e che le stridono ai polsi i braccialetti, / e si torce senza posa le dita, / quella da indugiare, indugiare, sospirare». Se lei si affaccia improvvisa nella quotidianità, è un’epifania luminosa, tacita, discreta: «Misurando coi passi il silenzio, / entrerai tu – come l’avvenire. // Apparirai sulla porta / con qualcosa di bianco, semplice, / con qualcuna di quelle stoffe / di cui sono cuciti i fiocchi di neve»; «Tu appartieni alla stirpe di queste cose. / Hai un senso disinteressato, come l’aria»; «La tua presenza è come il richiamo / a tavola che è pronto da mangiare». “Amore, cuore, per sempre” paiono termini abusati, insopportabilmente retorici: «È banale la parola amore, hai ragione. / Mi inventerò una parolina diversa». E Pasternak, forse il più grande poeta erotico del novecento russo, confessa con orgogliosa ingenuità: «Amore mio – che impressione! Quando ama un poeta / è un dio disadattato che s’innamora. / E il caos torna a strisciare nel mondo / come ai tempi della genesi. // I suoi occhi gocciano libbre di nebbia. / È confuso. Assomiglia a un mammut. / È passato di moda. Lo sa che non si può: / sono passati i tempi e – scorrettamente».

La scorrettezza di cantare in versi ciò che si prova, quasi fosse una colpa o una vergogna, in tempi e luoghi che pretendono partecipazione prosaica («Per piacere, sapete dirmi / che millennio abbiamo in cortile?») è qualcosa di cui il poeta, scrutatore degli abissi dell’anima, sa di potersi vantare: «Non so se sia risolto / l’enigma dell’oltretomba, / ma la vita – come il silenzio / d’autunno – è tutta un particolare».

«Poesia» n. 315, maggio 2016

RECENSIONI

PATOCKA

JAN PATOCKA, IL MONDO NATURALE E LA FENOMENOLOGIA – MIMESIS, MILANO 2003

Il volume si compone di quattro saggi pubblicati da Jan Patocka tra il 65 e il 72; di uno studio inedito di Guido Davide Neri sull’influenza di Husserl nella storia del pensiero novecentesco; di un’ approfondita introduzione di Alessandra Pantano, a cui si devono anche alcune traduzioni dei testi di Patocka. Partendo proprio dalla formazione filosofica di quest’ultimo, dai suoi debiti verso i maestri Husserl e Heidegger, e dal racconto della sua vita coraggiosa (in opposizione sia al totalitarismo comunista, sia al conformismo ideologico e culturale del trentennio postbellico), Pantano sottolinea l’originalità delle teorie del filosofo boemo. L’analisi fenomenologica del mondo naturale venne inquadrata da Patocka in una dimensione storica, lontana sia dal soggettivismo sia dall’irrazionalismo imperanti nella prima metà del novecento, cercando di liberare l’umanità dalle certezze apparenti e ovvie della quotidianità, ma anche dal dominio della tecno-scienza. Le sue riflessioni sul declino della civiltà occidentale, e soprattutto dell’Europa (che forse avrebbe potuto, essa sola, proporsi come la culla di una nuova identità culturale, radicata nell’inesauribile terreno del pensiero greco), e sulla strumentalità manipolatrice della scienza asservita alla tecnica, stanno trovando oggi forse un’eco nella ricerca di Severino e di altri filosofi. Il mondo naturale indagato da Patocka è il mondo della vita umana, che deve dispiegarsi in tre momenti: dall’accettazione di essa e della sua finitudine, alla sua difesa e conservazione (con uno sguardo profetico all’impegno ecologico attuale) fino all’apertura al “contatto con gli altri”, in una scossa esistenziale che conduca alla libertà. “Imparare a vivere nella problematicità”, rinunciando a risposte precostituite, lasciandosi coinvolgere sia dallo stupore sia dallo spaesamento angosciato e interrogante, accettando la lotta e il sacrificio, è l’unico modo per raggiungere il senso dell’essere e dell’esserci al mondo.

IBS, 8 dicembre 2013

RECENSIONI

PATUI

PAOLO PATUI, SCUSATE LA POLVERE – BOTTEGA ERRANTE EDIZIONI, UDINE 2019

I dieci racconti che Paolo Patui ha raccolto in Scusate la polvere sono ambientati tutti all’interno di cimiteri, e lambiscono il tema della morte con una profondità empatica e insieme leggera, senza mai apparire tetri, o funerei. Scritti con eleganza e vivacità, accomunano vivi e defunti in un confronto e arricchimento reciproco, nella consapevolezza che “La vita non muore mai. Viene affidata a chi resta”. Così nel delicato testo di apertura il narratore, un insegnante friulano, viene convinto da un collega-runner ad attraversare di corsa il cimitero di Udine in un tardo pomeriggio piovoso, ma finisce per attardarsi a curiosare tra le tombe, collezionando aneddoti e riflessioni su nomi, ritratti e iscrizioni sepolcrali.

“Brillano i fiori, brillano i marmi, brillano sguardi, visi e fotografie di persone stanche della vita o sorprese dalla morte”.

Avvicinato da un custode che avverte come una missione il proprio incarico di salvaguardare memorie, citando ai visitatori Foscolo, Proust, Ovidio e le canzoni di De André, viene a conoscenza del tragico destino di un giovane dal nome particolare, Elci, vittima di un terribile incidente stradale. In seguito, la visita ai cimiteri da casuale diviene per lui quasi abitudinaria, una sorta di cerimonia del ricordo, talvolta limitata alla sua città o ai paesi della provincia, altre volte spinta addirittura in diverse regioni o all’estero. Così gli capita di scoprire una sezione del camposanto udinese simile a un falansterio, con i loculi cementati verticalmente come in un condominio, e di ritrovarvi persone che avevano avuto un ruolo formativo o affettivo nella sua esistenza, e altre tombe indicanti casi particolarmente sofferti.

Si reca nei piccoli cimiteri friulani di Santa Marizza di Varmo, della Pieve di Gorto, di Paluzza, e in quello più esteso di San Daniele, per rendere omaggio allo scrittore Elio Bartolini, al calciatore Enzo Scaini, a uno psichiatra benefattore sulla cui lapide è incisa la frase “Vide e capì le sofferenze altrui”. Ancora scopre giovani partigiani fucilati, ragazze vittime di violenza, alpinisti precipitati in scalate impervie, Eluana Englaro bloccata nella bella foto dei suoi 22 anni.

“I cimiteri hanno odori diversi. Su in montagna c’è un odore secco di neve, di aghi di pino, di funghi umidi; qua sotto nelle pianure i cimiteri odorano di crisantemi e narcisi; di gigli marciti; sanno di nebbia e pioggia”.

A Torino il professore accompagna la sua classe di studenti in gita scolastica, e con due di loro visita il Monumentale, dove riposano alcuni soldati della I Guerra Mondiale, i calciatori precipitati nell’incidente aereo di Superga, Silvio Pellico, Edmondo De Amicis, Rita Levi Montalcini, la soubrette degli anni ’20 Isa Bluette: tante vite diverse, anonime o di successo, rese uguali dallo stesso grande sonno. Un altro Monumentale si trova a Milano, e vi giacciono molti artisti: Gaber, Jannacci, Fo, Walter Chiari, Wanda Osiris, tra capolavori scultorei di fama, nel silenzio di giardini curati.

E poi c’è Praga, con la sua immensa necropoli boscosa che accoglie Jan Palach, anch’essa visitata insieme agli allievi. Tra di loro una ragazza punk, dai capelli tinti, trucco vistoso, chewing gum perpetuamente tra i denti: il suicidio del padre l’ha convinta a raccogliere testimonianze e notizie sui vari cimiteri sparsi nel mondo, e ne fornisce ogni dettaglio all’insegnante.

A Parigi, nel celeberrimo Père-Lachaise, sono sepolti Oscar Wilde e Jim Morrison, mentre un altro campo è destinato ai ghigliottinati della Rivoluzione. Highgate a Londra ospita Marx, in quello Acattolico di Roma si possono vedere le tombe di Gramsci, Shelley, Gregory Corso. Vicino a Miami esiste un cimitero sottomarino, un altro ad Halifax è riservato ai morti del Titanic, a Hollywood ovviamente c’è spazio per gli attori. In Romania esiste un camposanto allegro e colorato, a Berlino i morti senza nome sono accolti nella foresta di Grunewald. All’interno del penitenziario di Santo Stefano ci sono le sepolture degli ergastolani, in quello del manicomio di Volterra solo i malati di mente. In Indonesia seppelliscono i morti nelle cavità degli alberi, in uno stato africano le tombe riproducono il mestiere del defunto, nelle zone coperte da ghiacci lasciano che i cadaveri si decompongano all’aperto.

Una galleria sepolcrale, quella raccontata con garbo da Paolo Patui, che racchiude in un abbraccio universale vita e morte, sopravvivenza nel ricordo o speranza nella resurrezione. Perché ogni cimitero “è un posto senza vita che ha senso solo quando è attraversato da chi la vita ce l’ha ancora”.

 

© Riproduzione riservata         13 luglio 2020

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