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RECENSIONI

OMODEI

ANTONIO FILOTEO OMODEI, RIME – IL CONVIVIO, CASTIGLIONE DI SICILIA (CT) 2024

Il Professor Giuseppe Manitta, poeta e studioso di testi classici della nostra letteratura (da Boccaccio a Leopardi a Carducci, fino al Novecento), direttore editoriale del marchio Il Convivio, ha curato l’edizione critica, l’introduzione e il commento delle Rime di Antonio Philotheo Homodei, scrittore siciliano del 1500.

Il corposo volume di seicento pagine, costato a Manitta più di dieci anni di lavoro, colma un’importante lacuna degli studi sul petrarchismo rinascimentale, poiché il corpus poetico di Omodei è rimasto inedito per secoli, nonostante l’autore fosse ben inserito nel dibattito letterario a lui coevo: riscoperto dallo stesso Manitta con il recupero del manoscritto autografo Capponiano 139, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, vede finalmente la luce con questa pubblicazione.

Philotheo Homodei, poeta, narratore ed erudito di pregio, era nato a Castiglione di Sicilia, in provincia di Catania, intorno al 1515, e dopo gli studi universitari di letteratura e giurisprudenza aveva lasciato la sua terra per approdare a Roma, inserendosi negli ambienti culturali della città papalina, dove concentrò la sua attività letteraria tra il 1550 e il 1650, pubblicando un romanzo, una Descrizione della Sicilia, la Vita della beata Chiara da Monte Falco e il Canzoniere intitolato Romana Aetna Travolta. Il soggiorno romano di Omodei si rivelò da subito foriero di arricchenti opportunità di studio e di frequentazione con molte personalità di rilievo, tra cui Annibal Caro, molti ecclesiastici, dame e nobiluomini della corte di Ippolito II d’Este. Tra il 1568 e il 1570 il poeta venne poi coinvolto in un processo intentato all’ autore di un libello contro il papa Paolo IV, episodio che segnò il suo declino come intellettuale, mettendolo in cattiva luce presso gli inquisitori. Un’ulteriore motivazione riguardo all’oblio in cui sprofondò il suo nome fu l’errata attribuzione delle sue opere per una quasi omonimia con Giulio Filoteo, questione dibattuta durante tutto il XVIII secolo.

Il Codice Capponiano 139 da cui Giuseppe Manitta ha recuperato il corpus delle Rime, era autenticamente autografo, scritto in bella grafia e preparato per la stampa, con copertina cartonata e rivestita in cartapecora, suddiviso in quattro parti. Dedicataria era la donna amata da Omodei, Antea, il cui nome fu traslato dal poeta in Aetna in omaggio alla sua Sicilia. Il sentimento provato per la colta dama romana si trasformò da un amore vivo e partecipato a improvvisa freddezza, anticipatrice dell’abbandono: da bruciante come la lava etnea fino al gelo della neve, testimoniato dai vari sonetti di stile petrarchesco della prima parte del Codice: “Laccio non mai sì stretto strinse Amore, / Nel dolce inganno, e mai sentì tal foco / Vulcano, Aetna, e Vesuvio, od altro loco, / A par di quel mi stringe, e bruggia il core. // … Te sol al mondo adoro, cerco, et amo”.

Già nella seconda parte, il nome della donna non compare più, sebbene le poesie sentimentali siano ancora predominanti, e invece continua a prevalere l’imitazione dell’Aretino: “VOI ch’ascoltate in rime sparse, il suono / Del mio fiero languir, con tanto Ardore…”. Nella terza parte il modello ispirativo è quello dei Trionfi, mentre nell’ultima sezione l’artificio retorico è più evidente nella costruzione di acrostici riferiti ai personaggi illustri conosciuti a Roma.

Omodei usava celare il suo nome e quello dell’amata con pseudonimi anagrammati, in una sorta di gioco linguistico che comunque traeva sempre ispirazione dal Petrarca, attraverso furti, ricalchi e riprese dei versi più noti, sia nella struttura (metrica e rime) che nel lessico. Ma la tradizione petrarchesca veniva spesso rimodulata da Omodei, e messa in relazione a citazioni di una tradizione diversa, e a poeti coevi che si muovevamo nello stesso ambito imitativo. La puntuale e approfondita introduzione del curatore Giuseppe Manitta ne offre particolareggiata testimonianza, insieme ad altri prestiti danteschi, ariosteschi, da Pulci e Sannazaro, indicativi di quanto l’autore da lui preso in considerazione fosse esemplarmente inserito nella produzione letteraria cinquecentesca.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 6 gennaio 2025

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ONETTI

JUAN CARLOS ONETTI, PER UNA TOMBA SENZA NOME – SUR, ROMA 2016

Juan Carlos Onetti è annoverato tra i più originali autori della letteratura sudamericana novecentesca: nato a Montevideo nel 1909, ventenne si trasferì a Buenos Aires e in età matura (in seguito alla persecuzione della dittatura militare) a Madrid, dove morì nel 1994.
La sua scrittura, fortemente innovativa e immaginosa, è apparsa da subito in anticipo sui tempi, per cui non sempre gli è stato riconosciuto da pubblico e critica il merito dovuto. Il ciclo narrativo che lo ha reso più famoso è quello formato da cinque romanzi usciti tra il 1950 e il 1979, che hanno come protagonista la vita claustrofobica e angosciante della città di Santa María.
Il libro appena pubblicato dalla casa editrice romana SUR, con traduzione di Dario Puccini, si intitola Per una tomba senza nome, ed è uscito in Argentina nel 1959, ma la data di pubblicazione non rispetta l’ordine delle vicende raccontate nell’intera saga, secondo una caratteristica tipica della produzione letteraria di Onetti, in cui tempo e racconto si sovrappongono, intersecandosi e sfaldandosi reciprocamente.
Il romanzo si apre sullo svolgersi di un funerale, che in genere (soprattutto nei paesi latini e in un passato non troppo remoto) si definisce come rito collegiale, partecipato e coralmente patito da famiglie e comunità. In effetti, come nota giustamente nella sua prefazione Antonio Pascale, la frase iniziale, espressa in un plurale collettivo, farebbe supporre l’esistenza di una molteplicità di voci e punti di vista differenti intorno alla cerimonia funebre: «Tutti noi, i notabili, noi che ci fregiamo del diritto di giocare a poker al Club Progresso e di tracciare le nostre sigle con pigra vanità in calce ai conti di bevande e pranzi al Plaza. Tutti noi sappiamo com’è un funerale a Santa María».

Invece la narrazione si riduce presto a un dialogo tra due soli protagonisti: l’io narrante – un saggio e indulgente medico di provincia – e il giovane Jorge, turbato testimone di una storia di squallore, abbandono, pregiudizi. Il primo capitolo è esemplare, nella sua asciuttezza descrittiva, nei dialoghi scarni, nell’impianto visivo quasi cinematografico: il ragazzo, tenendo legato alla fune un capro zoppicante, segue da solo la bara di una donna, accompagnandola a una sepoltura quasi clandestina in un isolato cimitero di campagna, «nella calura mansueta della luce». Lo sguardo lento del narratore plana sulla natura inaridita, sui visi dei becchini, sulla polvere della strada, offrendo improvvise pause di silenzio ai gesti dei personaggi:

«Il guardiano del cimitero tiene appeso al braccio un inutile bastone. È uscito sulla strada e ha guardato da tutti i lati. Io continuavo a fumare seduto su una pietra; i due tipi in camicia ancora tacevano appoggiati, le mani ciondolanti, appese alla cintura, alle tasche dei pantaloni. Così era. Qualche cactus, il muro del cimitero fatto di pietra su pietra, un muggito ripetuto sullo sfondo invisibile del pomeriggio. E l’estate ancora incerta nel suo sole bianco e circospetto, il ronzio, l’insistenza delle mosche nate da poco, l’odore di nafta che giungeva indolente fino a me, dall’auto. L’estate, il sudore come rugiada e il torpore».

Dopodiché la vicenda si anima, e Jorge, nel suo «rabbioso splendore di gioventù», confida al medico in una serie di incontri successivi il rapporto che l’ha legato alla donna morta, Rita García, cameriera di sua cognata: «una domestica, un’amica intima, un cane, una spia, una sorella …con un po’ di sangue indio». Di come lei si fosse affrancata dal ruolo di serva, per poi perdersi dapprima in situazioni sentimentali equivoche, quindi in un’esistenza fatta di miseria, accattonaggio, randagismo, prostituzione. Lentamente, e cospargendo il suo racconto di bugie e censure, il giovane confessa di aver approfittato della povera donna, soggiogata da numerosi altri amanti e protettori, vivendo per un anno «nell’irresponsabilità», nella sporcizia, nella frode: con Rita e con il capro che a lei era stato affidato da un occasionale amico, e da cui non riusciva a liberarsi.
Le ultime pagine del romanzo, talvolta inclini a un compiacimento eccessivo, virano verso l’iperletterarietà, tendendo a irrobustire la trama con qualche colpo di scena non del tutto motivato.
Il dottore scopre una sua vocazione documentaristica nel trascrivere le confessioni nebulose di Jorge; cerca altre testimonianze, individua probabili connessioni ed evidenti incongruenze nelle parole del ragazzo, per arrivare a concludere che forse l’unico aspetto positivo di tutta la vicenda, sospesa tra realtà e finzione, è stato proprio il fatto di averla messa sulla carta, salvandola dal nulla dell’oblio:

«L’unica cosa che conta è che nel terminare di scriverla mi sono sentito in pace, sicuro di aver ottenuto la cosa più importante che ci si può attendere da questo genere di operazione: avevo accettato una sfida, avevo trasformato in vittoria almeno una delle tante sconfitte quotidiane».

 

© Riproduzione riservata              

www.sololibri.net/Per-una-tomba-senza-nome-Onetti.html     20 febbraio 2016

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OPPEZZO

PIERA OPPEZZO, ESERCIZI D’ADDIO – INTERNO POESIA, 2021

Autrice di poesie, testi teatrali, narrativa, traduzioni, Piera Oppezzo (Torino 1934-Milano 2009) ebbe una vita e un destino letterario non facile. Nata da una famiglia di modeste condizioni economiche, si adattò a lavori umili prima di venire assunta dalla Rai a Roma, dove ebbe modo di conoscere intellettuali e artisti che incoraggiarono il suo appassionato affacciarsi al mondo della cultura, appoggiandone le prime pubblicazioni su riviste e con piccole case editrici. A metà anni sessanta si trasferì a Milano, avvicinandosi al femminismo e all’impegno politico. Nel 1966 uscì presso Einaudi una sua raccolta intitolata L’uomo qui presente, che fu ampiamente recensita e apprezzata.

Interno Poesia pubblica ora i suoi versi inediti, Esercizi d’addio, raccolti in ordine cronologico, a cura di Luciano Martinengo, con prefazione di Giovanna Rosadini e postfazione di Gaia Carnevale. Si tratta di poesie scritte tra il 1952 e il 1965, affidate dall’autrice settantacinquenne e malata all’amico Martinengo, al quale si deve la riproposizione della sua opera non solo in una scelta antologica del 2016 (Una lucida disperazione), ma anche attraverso il documentario Il mondo in una stanza, che ne ripercorre affettuosamente l’esistenza privata e l’attività letteraria.

Le poesie di cui ci occupiamo anticipano non tanto lo stile maturo della Oppezzo, più orientato verso la sperimentazione linguistica (per Giovanni Raboni “disadorno e quasi afono”, espressione “dell’appiattimento della parola al suo elementare, irriducibile nucleo gnomico”), quanto la stessa persistente tonalità malinconica, per una consapevolmente accettata e irrisolta sofferenza psicologica, segnata dalla precarietà della vita sentimentale e professionale.

Gelo, paura, luci remote, voci morte, bruma dolente, scarnite mani, pietre fredde, cani randagi, umidi asfalti, sono termini con cui la poetessa ventenne esprimeva la desolazione di una giovinezza ferita da privazioni e incomprensioni familiari, sullo sfondo di un devastante conflitto bellico: “Il ricordo della mia infanzia   /     è guerra. Un motore / nel cielo si avvicina / alla mia testa, i giocattoli diventano mostri. / Aiuto! la mia bambola è stecchita”. Nei “poveri giorni” in cui “Solo le asprezze / si ascolta”, il rimpianto per una serenità negata diventava senso di colpa per l’incapacità di sfuggire alla lugubre atmosfera ambientale: “I morti! I morti!” gridavo. / Ero alla finestra / e non passò nessuno.  //        Il vento sbandava nei miei capelli. / “I morti! I morti!” / Chi venne / e mi sollevò, quasi?  /         Ma io ero pietra, ero gelo o fiamma, / febbre o abbandono, ma non ero ancora… / – Oh, fino a quando? – /       e rimasi”.

In queste prime e acerbe poesie si possono rintracciare formule obsolete e letterariamente abusate, una certa ovvietà descrittiva, ingenui sentimentalismi, ma sempre felicemente riscattati da versi di icastica intensità: “Inutile pregare gli assenti”, “Erano sere di poca luna”, “Tutta la mia speranza  / è nel giorno pieno”. Nelle pagine successive lo stile si fa invece più asciutto, più coraggiosamente innovativo nell’uso meditato di neologismi e costrutti prosastici, di una versificazione franta, quasi elencatoria e priva di punteggiatura, di una sprezzante ironia. Si intuiscono quindi i primi germi della futura ribellione formale e contenutistica, nel coinvolgimento emotivo su argomenti di rilevanza sociale: la solidarietà con gli sfruttati, il rancore verso gli egoismi e l’ignavia del mondo adulto. La voce poetica si fa più scandita: “In casa seggo e fumo. / Ho acceso la radio / e allontanato completamente / le cose di un giorno intero”, “Indossiamo il cappotto senza fare domande / Col buon cappotto / Dimenticheremo le future violenze di stagione /   Con tutti i rischi di allagamento e siccità / Che comporta / La nostra posizione geografica”, “Chi si accorge di ciò che accade? / Neppure giugno arresta le battute di spirito / Il dolce amore per la vita è snervante e imperfetto”.

All’effusione sentimentale della prima produzione si va quindi sostituendo una più ragionata padronanza dei propri mezzi, marcata dalla polemica combattiva contro le ingiustizie, i soprusi e l’alienazione prodotta dalla società contemporanea.

 

© Riproduzione riservata        «L’Indice dei libri del mese», n.7/8, luglio 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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ORECCHIO

DAVIDE ORECCHIO, QUALCOSA SULLA TERRA – INDUSTRIA&LETTERATURA, MASSA 2022

Davide Orecchio (Roma, 1969), autore di racconti, romanzi e di un libro per l’infanzia, redattore del blog Nazione Indiana, ha pubblicato con le edizioni Industria&Letteratura una storia che racconta persone, ambienti, fatti collocati ai margini della “Storia”, troppo politicamente ed economicamente irrilevanti perché il mondo politico ed economico se ne occupi. E tanto tracimanti dolore e sofferenza da creare disagio, senso di colpa e impotenza in chi scrive e in chi legge.

Il titolo del suo breve romanzo, Qualcosa sulla terra, è tratto da una poesia di Paul Celan, i cui versi fungono da epigrafe al libro: “Fare qualcosa, / Qualcosa / fare nell’alto, nel / basso.  Qualcosa, sulla terra”.

L’incipit è concisamente drammatico, foriero di un messaggio allarmante: “Vivevo in una città che s’incendia, pazza per l’odore del fuoco. Alcuni odiavano la città e le davano fuoco. Altri, assediati dal fuoco, pure la odiavano, ora che non sapevano più comprendersi se non come vittime”. Il fuoco è il reale protagonista della narrazione, nella sua cieca violenza di elemento naturale, ingovernabile nella propria incosciente ferocia, ma orientato verso la distruzione dall’incuria, dal tornaconto o dalla malvagità umana.

Chi narra in prima persona assiste impotente e rabbioso all’imbarbarimento della sua città, ricca di storia e priva di speranza nel futuro, “città dell’arsura e dal destino desertico” assediata dalle anime nere di spettri incendiari, piromani astuti e viziosi. Svegliandosi all’alba per l’acre odore di fumo che invade l’appartamento, immagina che a bruciare siano i cumuli di rifiuti abbandonati per strada, nauseante testimonianza di degrado urbano. Scopre invece, turbato, che a venire distrutta dalle fiamme è stata l’abitazione di una donna anziana e sola, “che non apparteneva ai pensieri del mondo”, arsa nel letto mentre dormiva, in una stanza illuminata da candele perché priva di elettricità. Avvicinandosi all’edificio affumicato, incontra un vecchio in lacrime, che gli narra la triste vicenda esistenziale della vittima, da lui conosciuta all’ospedale dove erano entrambi ricoverati per Covid. Bianca, si chiamava la donna, e il suo commosso ultimo amico Gilberto.

La seconda parte del romanzo si occupa quindi di ricostruire la vita dei due pensionati condannati all’emarginazione, all’irrilevanza sociale. Altri decessi importanti erano avvenuti in quello stesso anno: una grande poeta, una grande attrice, un grande narratore, che morendo avevano un po’ ucciso anche il mondo intorno, da cui erano amati e celebrati. Ma della morte di Bianca non si sarebbe occupato nessuno: ingiustizia patita nel corso e alla fine di tutti gli anni vissuti.

L’ottantenne Gilberto, che divideva le sue due stanze con il gatto Alberto, narrando della subdola infezione che nell’anno trascorso gli aveva tolto il respiro, descrive all’autore del romanzo il suo ricovero e le cure, quando nella città deserta e spaventata si sentivano ululare solo le sirene delle ambulanze, e le famiglie e i condomini rimanevano asserragliati nel proprio egoismo e nella paura.

Qui la narrazione di Davide Orecchio assume contorni fiabeschi, perché protagonisti diventano gli animali, il gatto di Gilberto, la gatta Lisa di Bianca, che entrambi disperati rincorrono l’ambulanza dove sono stati caricati i loro padroni, colpiti dallo stesso morbo e ricoverati nello stesso ospedale. I due gatti, fino ad allora estranei l’uno all’altro, si perdono insieme nel gelo di viali e piazze spettrali, vengono attaccati e feriti da uno stormo di gabbiani feroci, e poi salvati dall’intervento di un cane randagio che li conduce verso il nosocomio a cercare Bianca e Gilberto.

La scrittura si fa ansiosa, ritmica, smozzicata, replicante l’oralità delle frasi pronunciate balbettando, come temesse il suo stesso procedere verso una tragedia annunciata.

I gatti rivedranno i loro padroni, intubati in due letti vicini, e li saluteranno attraverso il vetro della terapia intensiva: metafora di quattro esseri innocenti che tutti insieme patiscono il male del mondo.

Il racconto di Davide Orecchio si conclude con un accenno solidale al percorso umano di Bianca, una pensionata dall’esistenza mansueta comune a tanti anziani, che “per distrazione o penuria” non pagava le bollette della luce, e aveva affidato il suo sonno a delle candele.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 19 dicembre 2022

 

 

 

 

 

 

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ORELLI

GIOVANNI ORELLI, IL SOGNO DI WALACEK – EINAUDI, TORINO 1992

Giovanni Orelli, autore ticinese tra i più noti e autorevoli, professore a Lugano e pubblicista, sembra aver trovato negli ultimi due anni una seconda giovinezza come scrittore e poeta. Ne danno testimonianza i due volumi editi da Casagrande di Bellinzona (i versi di Concertino per rane e la ristampa del romanzo L’anno della valanga), e il recente Il sogno di Walacek, pubblicato da Einaudi. Definito da Cesare Segre «una riflessione laica sul destino in forma di scherzo», questo che in realtà romanzo non è, si rivela irridente, sarcastica, vertiginosa metafora narrativa della storia, (quella, deludente e meschina, di oggi, e quella febbrile e malata degli anni antecedenti la seconda guerra mondiale), ma anche della pittura, e soprattutto del calcio come espressione e passione tra le più vitali della nostra cultura.
Génia Walacek, mezzala della Nazionale Svizzera nonostante la sua origine evidentemente slava, nato a Mosca nel 1916, rifugiato a Ginevra per sfuggire alla Rivoluzione, fu autore della vittoria della misconosciuta squadra elvetica sulla potente Germania hitleriana alla Coppa del Mondo nel giugno del ’38 (4-2 al Parco dei Principi di Parigi), sfida e umiliazione tra le più pesanti per la boria nazista. Davide contro Golia, la Svizzera batte la Germania: la piccola, neutrale Confederazione, allora rifugio di tutti i “degenerati” razziali e culturali d’Europa, sconfigge l’imponente, vittoriosa, tronfia Germania del dopo Anschluss. E il miracolo avviene su un campo di calcio, in uno sventolio di bandiere dalle croci antitetiche (nefasta, quella nera uncinata, angelica quella bianca confederata). Walacek è strumento di vendetta divina, a lui si rivolgono le preghiere dell’Europa libera: «Cerca, quando giocherai a Parigi contro Hitler, perché Alles ist Politik…cerca di fare un palleggio da dio: en surplace, che spiazzi, che smonti, che ridimensioni al limite dello zero il tuo terzino nazista».

Il gioco del calcio diventa allora resistenza al nemico, opposizione intelligente alla stupidità della forza bruta, da invocare come simbolo di normalità e salute: «pregare l’angelo di legno comperato una volta, prima che venissero a turbare i giorni della pace, a Düsseldorf: chiedergli di mandare ancora partite tante, tutte le domeniche, con lo stadio che poi si sfolla adagio adagio, e i tram che scampanellano alle curve e agli incroci, riportano a casa gli uomini della partita, bene in tempo per la cena. Sì, la guerra è mancanza, è perdita di fantasia».

Un altro personaggio inviso alla normalizzante e ottusa cultura nazista di allora, il pittore Paul Klee, incrocia il suo destino di profeta e angelo ribelle, di oppositore visionario e purissimo alla lucida follia hitleriana, con la strada percorsa dal calciatore Walacek. Walacek aveva giocato il 18 aprile del ’38 la finale di Coppa Svizzera (Grasshoppers ZH-Servette GE 2-2). «Il giorno dopo… succede un fatto apparentemente privo di ogni importanza, uno degli infiniti fatti quotidiani che compongono, nella loro banalità, la vita degli esseri umani. Uno dei pittori degeneri, giusta l’estetica nazista, di nome Paul Klee, prende un foglio di giornale di quel 19 aprile, e si serve del foglio, invece che di una tela, per dipingere un quadro. Il quadro si chiamerà ALPHABET I».

Il giornale è la  National Zeitung, la pagina è la pagina 13, quella dello sport, con la cronaca della partita del giorno prima. Paul Klee «con mano di ladro celeste» vi disegna le lettere dell’alfabeto, e la lettera O (la tredicesima) viene a tagliare a metà il nome della mezzala cecoslovacca Walacek.
La pittura diventa profezia: la O di Klee (oppure era uno zero? Un anello ammaccato, una cornice deformata, un teatro, un circo, una ruota, un occhio di gatto, la sezione trasversale di un tronco, un buco nero, l’idea ordinata di cosmo, l’ovale della lapide dell’attaccante austriaco Sindelar, suicida dopo l’Anschluss? Giovanni Orelli infittisce le ipotesi, le interpretazioni, in un ininterrotto e travolgente crescendo di associazioni, ricordi, illuminazioni…), la O di Klee dunque segna per sempre un nome, quello di Walacek, destinato altrimenti a perdersi nella memoria labile degli sportivi, lo fissa – cancellandolo a metà – nella memoria più duratura dell’arte, e lo rende perenne.
Lo scrittore Orelli si cita e si mimetizza dietro la sigla dello scriba 0/17360, vox clamans in un’osteria ticinese, tra avventori distratti e polemici, voci anonime e figure storiche che si incarnano improvvisamente (Schopenhauer e Marina Cvetaeva, Freud e Joseph Roth, Ariosto e Nietzsche, Leopardi e Victor Sklovskij): ed è un fantasmagorico, inebriante turbinio di citazioni, versi, riflessioni filosofiche, terzine composte con nomi di giocatori o formazioni immaginarie e prodigiose. Orelli diventa egli stesso regista di un’animata partita di calcio, dove la palla è la parola, che rimbalza, vola, colpisce, e l’autore è abilissimo nello scartare, nel passare e nel marcare: blocca, respinge di punta e di tacco, smanaccia, si tuffa e finalmente infila, inaspettato e temuto, il colpo vincente e imparabile. I due protagonisti recitano genialmente i loro ruoli; Walacek segna gol, Klee dipinge. Entrambi pronunciano il loro secco no al nazismo. Si ritroveranno, due anni dopo. Ad avvicinarli sarà di nuovo un giornale («enciclopedia del quotidiano»), che tace la morte di Klee, avvenuta il 29 giugno del ’40, e cita, esaltandole, alcune prodezze calcistiche di Walacek. Sembra la vittoria dell’effimero: Klee viene cremato e le sue ceneri sono affidate a mani di semplici personaggi ticinesi, per l’ultimo commovente viaggio tra colori che non può vedere.

 

«L’Arena», 1 ottobre 1992

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ORELLI

GIOVANNI ORELLI, IL TRENO DELLE ITALIANE – DONZELLI, ROMA 1995

Probabilmente non è la lettura sociologica, come sembra suggerire il risvolto di copertina, quella da privilegiare nell’accostarsi all’ultimo bel romanzo di Giovanni Orelli, Il treno delle italiane. Certo, Orelli rimane uno dei pochi scrittori in lingua italiana per cui si può parlare di letteratura civile, lui che proviene e anima quell’estrema, privilegiata provincia portofranco del nostro paese che è il Canton Ticino; a cavallo tra due culture spesso in antagonismo, ne patisce le contraddizioni di interprete in bilico tra critica appassionata e solidarietà, e insieme possiede quel distacco che gli permette un’analisi intellettuale sempre feconda. Così è soprattutto il dato di partenza di questo nuovo romanzo, ambientato nel Ticino del dopoguerra, a potersi fregiare di un’interpretazione impegnata, politica. Io parlante è un bigliettaio della linea ferroviaria che attraversa la Svizzera da sud a nord, trasportando emigrati dal Meridione o dal Veneto, lavoratori carichi di storie e di Storia, che arrivano pieni di ansie e di desideri in un paese risparmiato dalla guerra e dalle sofferenze, e forse per questo più superficiale e più crudele. Alla voce del ferroviere (che oltre alla sua funzione professionale svolge anche quella di umanissimo consigliere-confessore di chi viaggia) si affiancano o sovrappongono altre voci narranti, secondo uno stile proprio di Orelli, e già sperimentato altrove. Come in un labirinto di divagazioni, associazioni più o meno volontarie, episodi e personaggi si incastrano tra loro, esibendo sempre una propria necessità. E da puzzle pieno di figurine mordilliane, le pagine si vanno man mano trasformando, ai nostri occhi incuriositi e ammirati di lettori, in un gioco di scatole cinesi per poi sciogliersi invece in una specie di affresco corale, che ha qualcosa dell’arte puntuale ed epica del pittore elvetico Ferdinand Hodler. Giovanni Orelli sa farsi caleidoscopico cantore di una storia collettiva, e anche offrirci sapori di una Svizzera valligiana molto concreta, con le sue navi le sue erbe i suoi doganieri rudi e pudici. I treni che attraversavano il Ticino dopo la guerra erano pieni di ragazze italiane, brave a lavorare nelle case e a tormentare gli uomini nella carne. Erano ragazze spaventate ma ambiziose, che appena varcata la frontiera, si accorciavano i nomi e le gonne, sventolavano i fazzoletti fuori dai finestrini, offrendosi all’aria svizzera e agli sguardi di chi le aspettava. Ai marosseri, innanzitutto: che erano mediatori, sensali, e procuravano loro l’occupazione e un posto dove vivere, chiedendo sempre in cambio qualcosa di prezioso: il primo stipendio, e altro. Tra le numerose storie narrate (della Volpina, della Lisetta, della Ludo), il bigliettaio dei treni delle italiane finisce per raccontarne una in particolare: quella di Marina, serva del marossero suo coinquilino, che se l’era fatta venire in casa per il bene del figlio Giuliano, ragazzo mite e originale, il quale preferiva i severi studi universitari e le corse in moto nei boschi alle passioni ancillari del padre. Ma è proprio il genitore a combinargli un capodanno da passare in montagna con la servetta, imponendogli un’iniziazione sessuale secondo parametri che il figlio rifiuta. Infatti Giuliano e Marina vivono con purezza tutta adolescenziale il viaggio in treno nella neve, la veglia alla nascita di un vitello, il giro delle osterie del paese a sentir storie vecchie dai contadini, il proposito di dormire insieme, sì, ma vestiti e senza toccarsi. E già tutto questo costituirebbe un rifiuto intransigente del volgare buon senso adulto. Ma il ragazzo va oltre, e la violenza del suo no ha la secchezza dello sparo di fucile con cui si ammazza, poco prima che inizi l’anno nuovo. Qui la prosa di Orelli, già di suo così nervosa, riesce a farsi poesia, lieve, immaginifica, nel descrivere il rimpianto tormentato di Marina, lo sgomento ottuso e tanto più penoso del padre, il silenzio imbarazzato dei funerali; e la madre che non accetta, e torna su in montagna dove il figlio si è ucciso, si siede in mezzo al cortile, lasciandosi coprire di neve, non più donna, ma come il suo ragazzo «quattro ossa e, come si conviene, come desidera, rapidamente, un pugnetto di polvere grigia».

 

«L’Arena», 23 gennaio 1996

RECENSIONI

ORELLI

GIOVANNI ORELLI, CONCERTINO PER RANE – CASAGRANDE, BELLINZONA 1991

Ogni letteratura è piena di animali, pullula di presenze in- e vertebrate (amiche o minacciose, mitiche o carnali, fiabesche o orripilanti), alter ego a due, quattro, sei zampe degli autori, che in esse riconoscono il segno di un destino comune, di una somiglianza o di una discrepanza comunque parificante. Dal bove di Carducci, alla farfalla di Gozzano, all’anguilla-upupa-volpe di Montale, la nostra poesia non fa eccezione: così si inserisce in una consolidata tradizione il Concertino per rane di Giovanni Orelli, dove la rana è assunta a pretesto e simbolo dell’umana sorte. Vivono un’ambivalenza di fondo, le rane, in questo volume: da un lato vittime di una natura terrificante nella propria crudele indifferenza ai singoli destini degli esseri viventi, oppure martiri di un’ altrettanto spietata eliminazione da parte degli uomini, per motivi scientifici o culinari («…erano un pasto paesano, oggi le acquistano / ristoranti quotati. Il nemico però / è il Ddt, per non contare quelle / che si fanno imbalsamare sull’asfalto / in chiazze di sozzura…»), dall’altro assurgono a simbolo religioso, tra il biblico e l’evangelico: «Una rana, Aretusa degli anuri, / una povera crista un tempo acrobata, / poi clown, poi sudicia meticcia, / fornicatrice che trascina la pelle / come una buccia non sua / in mezzo a un polveroso palcoscenico / da ragazzi con le canne aguzze / è aizzata verso un loro Sinedrio. / Qualcuno denuncerà il suo calvario».

Hanno, le rane, un conto in sospeso anche con la storia personale del poeta, che ha nel corso della sua esistenza avuto a che fare con più di una di loro, dalla primissima infanzia (la mia prima rana non è stata quella / del sillabario, delle rrrr in coro… // La mia prima rana / viene da un fango più lontano. / Rane e capre della mia primavera.), fino all’adolescenza delle violenze ingiustificate e ingiustificabili anche agli occhi indulgenti e pietosi del rimorso adulto: «La ur-rana, originaria, / quella che ho infilzato, sbudellato, / quelle che ho ammazzato e venduto // …ma quando andiamo ai pozzi dove le rane saltano / caldi i piedi ed asciutti nei nostri verdi stivali- / siamo un po’ un’ Hitlerjugend / un lupo che irrompe nel ghetto».

Associazione forte e angosciante quella tra le rane agguantate e infilate in sacchetti e le vittime innocenti di carneficine naziste, in un olocausto perpetuante la gratuita malvagità umana; meno sanguinario ma altrettanto sconcertante il collegamento tra le rane e le donne amate-vagheggiate («Lorena rana rupta; …rana-lui copriva rana-lei»), donne bambine, donne madri, donne morte («Di una, grassa, nella bara, dissero / -Pare una rana-. E: -amen-»). Fino all’identificazione totale rana-poeta. C’è il rischio (incombente in ogni raccolta a tema) che il riferimento costante agli anfibi forzi un po’ la mano all’autore, inducendolo a insistere in un’allegoria non sempre motivata: rischio che tuttavia si stempera nell’ampiezza dei rimandi culturali (da Fedro a Dante a Keplero, fino a Marina Cvetaeva e a Paolo Spriano), e nel linguaggio spesso allusivo e fuorviante, ironico e indignato, che mima la nevrosi della lingua dei giornali e quotidiana, usando sapientemente le più diverse figure retoriche. Ci resterà negli occhi e nel cuore questa rana che guarda «senza ira/ ma anche senza desiderio, / come guarda, a bocca chiusa, una rana / in mezzo a erba falciata», testimone muta di un mondo e di una società che non capisce.

«Eco di Locarno», 5 aprile 1991

RECENSIONI

ORELLI

GIOVANNI ORELLI, NÉ TIMO NÉ MAGGIORANA – MARCOS Y MARCOS, MILANO 1996

“Le api suggono i fiori di qua e di là, ma poi ne fanno miele. Ed è miele loro in tutto, non più né timo né maggiorana: così l’autore delle cose prese in prestito da altri: le trasformerà e mescolerà per farne una cosa tutta sua, giusta il suo modo di vedere le cose”. Questa frase, tratta dagli Essais di Montaigne, fa da epigrafe al libro di Giovanni Orelli Né timo né maggiorana, sessanta sonetti pubblicati nel 1996 che spaziano dall’eros alla morte, dalla memoria personale alla polemica politica o civile. Sonetti onnivori e onnicomprensivi, pervasi da un’ansia di raccontare e raccontarsi che li rende agli occhi di un lettore di poesia, abituato ormai a un certo ermetismo formale e orfismo criptico nei contenuti, tanto più originali e sconcertanti. Difficile, infatti, trovare antenati o padrini alla poesia di Giovanni Orelli (1928-2016). Giustamente Remo Fasani nell’introduzione parla di “vena narrativa”, che si esplica nella preferenza data ai versi lunghi, e soprattutto in un contenutismo esasperato: voglia di dire tutto, e con una certa eccitata tensione comunicativa. Rimane, della tradizione, l’involucro formale del sonetto: due quartine e due terzine, ma per così dire sbeffeggiato, preso in giro da un’innovazione continua e dissacrante: rime false o strabordanti, enjambement provocatori, metrica strapazzata…

Anche i contenuti della poesia sono vari e fantasmagorici: il Ticino, la Svizzera di Orelli c’entrano di sbieco, in questa raccolta. Qualche profumo e colore, qualche faccia contadina o frase dialettale. Invece protagonista è il mondo intero, con i suoi avvenimenti tra storia e cronaca, con le ideologie e le utopie. In particolare, la danza vorticosa tra eros e thanatos sembra molto interessare il poeta. Un eros libero e gioioso, “vertigine di vento” che si insinua tra occhi e pensieri, subdolo e invincibile, per esplodere poi esaltato ed esaltante: “il Robinson che esplora è la mia mano sola, / giunge a una Sierra Madre penetra un folto / di piume, l’occhio intanto cerca il tuo volto / insegue un guizzo che nell’iride vola, / il sangue che ti trema nella gola, / il tuo ventre che esulta, dalle catene della mente sciolto”.

Ci troviamo davanti a una carambola di occhi, seni, capelli, gambe che costituiscono un vero inno alla vita e alla felicità, chiosato da un verso-viatico-programma esistenziale: “misura per amare è amare, sempre, senza misura”. A questo imperativo fa da contraltare un richiamo ossessivo alla morte, al disfacimento del corpo, temuto eppure aspettato. Gli accenni alla fine sono così ripetuti da sembrare quasi apotropaici: (“Giovanni Orelli è morto? No, per Zeus, ma è giù di forze”, “Morirai, e sarà libero un posto…”, “due volte con le sue ali mi ha sfiorato / nostra sorella morte…”, “Ovunque il guardo giro è, per metastasi, un diffuso odore / di morte…”), ma comunque anch’essi travolti da un incoercibile amor vitae.

Il volume è corredato, in chiusura, da una serie impressionante di note, che rimandano alle letture da cui sono scaturiti i sonetti: letture le più varie, di antropologia, scienza, storia, filosofia o religione, a indicare la molteplicità e la varietà degli interessi dell’autore, oltre che la sua abilità a sfruttare per fini poetici qualsiasi argomento, con un distacco razionale dalla materia egregiamente dominata e asservita.

Giovanni Orelli appare qui un innamorato entusiasta, che nei versi mostra le tenerezze e le improvvise rabbie di tutti gli amanti: “così vi insulto miei versi, veterosonetti / vi chiamo rimbambiti libidinosi antipatici avari / male invecchiati trasandati: sì, ciabatte, / voi versi siete le mie capre malnate / e io il becco che dovrebbero castrare. / C’è un punto, sotto il sole, tutto per voi: voi fate latte”. Un latte nutrito da timo maggiorana e altre sapide erbe, che il vulcanico poeta-narratore-saggista ticinese ha lasciato in eredità ai tanti lettori che tuttora avvertono la sua mancanza.

 

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SoloLibri.net › … › Né timo né maggiorana di Giovanni Orelli              22 gennaio 2023

 

 

RECENSIONI

ORELLI

GIOVANNI ORELLI, L’ALBERO DI LUTERO – MARCOS Y MARCOS, MILANO 1999

I cugini letterati Giorgio e Giovanni Orelli hanno animato la vita culturale ticinese per più di cinquant’anni. Entrambi coltissimi, erano tuttavia profondamente diversi sia caratterialmente sia nella produzione letteraria. Giorgio (1921-2013), docente di italiano, critico e traduttore, fu uno dei più raffinati rappresentanti della poesia post-ermetica del ‘900. Giovanni (1928-2016), anch’egli insegnante al Liceo di Lugano, fu romanziere di successo – insignito del prestigioso Premio Schiller –, poeta in lingua italiana e in dialetto, esponente del Partito Socialista e  deputato al Gran Consiglio del Canton Ticino. Il primo composto e garbato, il secondo irruente, provocatorio, generoso.

Giovanni Orelli ebbe il merito di reinventarsi il più tradizionale e collaudato genere poetico, il sonetto, pubblicando alla fine del secolo scorso due volumi editi da Marcos y Marcos: Né timo né maggiorana (1996) e L’albero di Lutero (1999), entrambi di sessanta composizioni. Il sonetto veniva da lui utilizzato e giustificato “come un giuoco per far rigare dritto il tessuto narrativo, il discorso della logica e quello della morale”. Una gabbia formale, insomma, in cui costringere temi e toni esuberanti, vivacissimi, scoppiettanti di ironia, di verve polemica, di gioia di vivere. Ottimismo, entusiasmo e speranza sono già evincibili dal titolo del volume di cui ci occupiamo, L’albero di Lutero: “Se sapessi che il mondo è domani che finisce / pianterei lo stesso un albero di melo: / così Lutero”. Una gaia filosofia del carpe diem tinge di ritrovata giovinezza la raccolta, nei motivi tipici rincorsi in ogni opera orelliana: la donna, l’amore, il sesso, la natura, la storia, la vita ticinese, e l’idiosincrasia per il sacro, il canonizzato, il codificato.

Un accento originale assume quindi in questi sonetti l’esacerbato anticlericalismo, che riecheggia gli sberleffi della nostra tradizione dialettale, da Carlo Porta al Belli, in omaggio a un paganeggiante inno all’eros: “Amore cosa sei? Vetriolo su carne non mai spenta, / mosca pantera nuda caduta nella rete, / occhi di ragno alla sua preda intenti? / amore cosa sei? / acqua salata alla mia sete? // Amori fuori del sacramento, dicono i preti, è guerra / sozza, ossessione, libido d’unghie, manicomio, / è il maligno, una Furia che gira per la Terra”; “O sacra unione coniugale, dove tua quiddità? / Se atto naturale è, e così è, viva natura. / Natura, nel parlar materno, è vulva, è duro / parto cui femmina in dolore sottostà. //… Voi preti lo chiamate sacro? A tanta enormità // non tremano i pilastri del mondo? E sacra unione / allora non vi attira? Perché non vi sposate? // … Vostre benedizioni / et laus et jubilatio sacri fanno così e pene e pube”.

È proprio la donna (anzi, il corpo, il sesso di lei) che merita i più alti peana della poesia di Orelli, e un ironico self-portrait dell’artista maturo ma non domo, come nel divertente sonetto d’apertura, dedicato alla provocante vicina di casa che si sporge in mutandine sul balcone, in un assolato mattino d’agosto: “O pompieri, gendarmi, / arrestatela: saracinesche giù, idranti, tra me e la vampissima”. O ancora, in versi che si esaltano della loro stessa sensualità, rasentando un linguaggio volgarmente plebeo: “Sentirai il solletico sulla guancia, sul molle / del volto, un bacio come un ragnetto in festa / ti correrà sul collo… // Dirai ‘cerca!’ piegando un poco la testa, / Avremo tutto il tempo per trovare la bestiolina / che cammina cammina…”; “ho macinato l’acqua nel tuo bel mulino, / ho sbattuto, come sull’alpe fa il mungitore, / col suo bastone su e giù nel foro, / dentro il tuo corpo-burro sulla terra supino”; “E sono al ventre, al varco, al tuo cancello / del paradiso, e un lieve epitaffio / scrivo, il pennino trema, sulla pelle; // sono alla coscia, ai piedi, e torno al graffio, / a diteggiare tra i versi capelli / serpenti già indomabili per Saffo”.

L’animalità del corpo scopre un suo contraltare nell’animalità tout-court, nella descrizione partecipe del brulicante regno zoologico: a farla da padrone sono gatti, uccelli, cervi, lucciole e serpi, presi sempre a esempio di libertà, di fame di vita, di felicità e innocenza brutale nell’accoppiamento: “La biscia intanto / presso il muro la vecchia pelle ha abbandonato, / una cravatta di lusso. Potessi fare io lo stesso / con pelo e pene, riavere un selvatico sesso”.

Un Orelli carnale, quindi, quello di queste poesie, ma che in alcuni sonetti sembra dibattersi ancora nel dubbio se concedersi o meno alla spiritualità, al volo alto, alla sublimazione del desiderio: ma sempre con un eccesso di vitalità, lontanissimo dall’esangue misticismo di chi sacrifica se stesso all’ Altro da sé: “Alla fine chi voglio? Venere con voluptas o la pace / domestica di Psiche?”; “voraginosa Notte del Giudizio: / un attimo anzi che sia cenere tra cenere / chi invocherà quel Giovanni, chi? Vergine o Venere?”

Lo scarso interesse metafisico di Orelli è comunque tutto cerebrale e intriso di scetticismo, se l’unico sonetto dedicato a un tema religioso si interroga causticamente sul tempo libero di Gesù, e se la dichiarazione programmatica del suo credo suona cinicamente così: “Noi uomini siam l’animale supremo e l’infimo. In letargo / ci lascia un dio che bisogno non ha di noi, che timidi o tumidi / di vanità per un poco di soldi o letame in lungo e in largo, // non abbiamo riguardo per lui. L’uomo fatto di humus / va sicuro come se sulla morte ci fosse lunghissimo embargo / poi nel volgere di un quarto d’ora è tutto cenere e fumo”.

Anche l’adesione, senz’altro progressista e democratica, ai temi sociali ha una sua valenza terragna, fisica, di solidarietà ai poveri, ai loro odori e sudori, ai loro riti collettivi, in una sorta di affresco da Pellizza da Volpedo. Mentre alla cultura da rotocalco patinato, ai cellulari e alla moda della medio-alta borghesia, al suo linguaggio servile e asservito, ai miti finanziari e pubblicitari è riservata l’ironia più feroce, il sarcasmo più impietoso.

D’altra parte, cosa ci si poteva aspettare da chi ha bistrattato il sonetto, esempio fulgido della storia letteraria italiana? L’albero di Lutero non mostra alcun rispetto per la metrica, e l’uso di rime e assonanze è assolutamente dissacratorio (ad esempio, nel primo testo: mattino-mutandine; Dio-follia-Caino; stoccafisso-Calipso-vampissima). L’omaggio che Giovanni Orelli ha reso nel volume alla nostra letteratura rimane in realtà un ironico e coraggioso omaggio a se stesso, intellettuale non organico, non intruppato, capace di burleschi e ammiccanti (ma quanto eruditi!) brindisi alla vita.

 

© Riproduzione riservata              Gli Stati Generali, 31 marzo 2023

 

RECENSIONI

ORFINI

MARIO ORFINI, AMARTI È COME ENTRARE AL CINEMA ‒ ARCHINTO, MILANO 2019

 Mario Orfini (Lanciano,1936), tra i più importanti fotografi italiani di reportage degli anni Sessanta e Settanta (inviato soprattutto per L’Espresso), è stato anche sceneggiatore, regista, produttore televisivo e cinematografico. Ha prodotto molte pellicole di successo (Il mistero di Bellavista, Il pap’occhio, Così parlò Bellavista, Porci con le ali) e diretto tra gli altri Jackpot, l’ultimo film interpretato da Adriano Celentano nel 1992.  

Il volume di versi edito da Archinto, Amarti è come entrare al cinema, è corredato da alcune sue splendide fotografie, tratte dall’album Anni felici, pubblicato nel 2011: in copertina una suggestiva immagine del molo di Trieste, in conclusione otto ritratti in bianco e nero di famosi poeti e scrittori. Questa raccolta di circa quaranta poesie mantiene la cifra che è stata quella più professionalmente riconosciuta dell’autore, nell’impronta di fulminei flash fotograficoi o di repentine inquadrature di film.

Versi brevi, separati da lunghi spazi bianchi, che ovviamente suggeriscono pause, addirittura silenzi, attribuibili a una sorta di pudore, alla paura di dire troppo. Sono tutte poesie d’amore, nella quasi totalità riferite a figure femminili, verso cui Orfini prova un forte sentimento di nostalgia e rimpianto, talvolta anche di rimorso: “Quanto poco ho apprezzato la tua presenza / che leggera attraversava ogni cosa / non muovendo nulla / ma sfiorando tutto con una lieve carezza / che era un brivido indelebile sulla pelle. // Mai più saprò incontrare il tuo sguardo. / Perché ti ho tolto il sorriso dagli occhi, / ho increspato il tuo viso di piccole malinconie”.

Il senso della caducità della vita, dell’inesorabile trascorrere del tempo e del buio della fine attraversa le pagine, cadenzando anche il ritmo dei versi: “altro / non sono // che // il fuggevole / inganno // di uno specchio”, “Aspetto / la parola fine, / per dimenticare / subito”, Notte fonda, Il sonno sopra ogni cosa, Me ne andai, Caduta libera, Inizio e fine, Scorrono anni, La vita ci lascia, Autunno, Tu non torni, sono alcuni degli emblematici titoli di queste composizioni, in cui il senso del distacco non riguarda solo il momento conclusivo dell’esistenza, ma anche lo schermo che inevitabilmente allontana dagli altri, persino dalle persone più amate.

Ogni incontro si risolve in una separazione dolorosa (“Ho attraversato / più volte / lo spazio / del tuo pensiero // fallendo / ogni volta / l’incontro”), e un’estraneità sostanziale divide anche dalla banalità quotidiana delle esistenze altrui: “voglio capire / perché camminano / avanti e indietro / tutti i giorni. // Tutti i giorni / si guardano / senza mai riconoscersi”, “Quella che eri / è un’altra / che incontro / per strada / e / non riconosco”. La madre morta dopo una lunga malattia, l’animale domestico che torna a casa dopo un’assenza perché sa di non avere più tempo davanti a sé, il figlio a cui si porge una carezza, l’amico edicolante mancato d’improvviso, e anche una bambina appena sbocciata alla vita portano tutti il segno di una fugacità malinconica e rassegnata. Le immagini dell’esistenza di Mario Orfini, così ricca di esperienze e di sentimenti, scorrono veloci nella “parola poetica, per sua natura compressa, rarefatta, da cui sembra essere stato spremuto ogni succo”, come scrive nella prefazione Mario Nicolao. Scorci veloci di un film privato, in cui anche amare – come suggerisce il titolo della raccolta – è come entrare nel buio di un cinema, per rubare attimi di consolazione e di luce.

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/Amarti-e-come-entrare-al-cinema-Orfini.html           1 ottobre 2019