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RECENSIONI

ORLEV

URI ORLEV, L’ISOLA IN VIA DEGLI UCCELLI – SALANI, MILANO 2009

Un’infanzia tragica e avventurosa, quella di Uri Orlev (Varsavia, 1931). Nato da genitori appartenenti alla borghesia ebraica, allo scoppio della seconda guerra mondiale la sua famiglia fu internata nel ghetto di Varsavia e la madre venne uccisa dai nazisti. Uri e il fratello minore trovarono riparo presso alcune famiglie polacche. Nel 1943 furono scoperti e condotti nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, da dove vennero liberati nell’aprile del 1945. Dieci anni dopo, i due ragazzi, arrivati da soli in Israele, furono accolti in un kibbutz. Solo molto più tardi il padre, sopravvissuto alla guerra e risposato, si fece vivo con i figli. Uri Orlev lasciò il kibbutz nel 1962 e ora vive a Gerusalemme, dove dal 1975 si occupa di traduzioni dal polacco all’ebraico, e soprattutto di letteratura per l’infanzia. Ha pubblicato più di trenta volumi, per lo più ispirati da esperienze personali o autobiografiche legate alla repressione nazista del popolo ebraico. I suoi libri sono stati tradotti in 38 lingue: nel 1996 ha ricevuto il premio Hans Christian Andersen, nel 2003 il Premio Cento per Corri ragazzo, corri.

Uno dei suoi romanzi più famosi, L’isola in Via degli uccelli, ha conosciuto anche una trasposizione cinematografica. In esso, ambientato negli anni ’40, il protagonista è un bambino ebreo polacco di undici anni, Alex, la cui madre è misteriosamente scomparsa dal ghetto, mentre il padre è stato prelevato dalle SS e fatto partire per una destinazione ignota. Rimasto solo, nel corso di una retata degli occupanti tedeschi, Alex si rifugia in un edificio diroccato, al numero 78 di Via degli Uccelli, nascondendosi in cantina, con la speranza che suo padre, sfuggito ai nazisti, torni a recuperarlo. Come unica compagnia gli è rimasta quella del suo topolino addomesticato, Neve, che porta con sé nella tasca della giacca.

Il ragazzo passa le giornate esplorando gli appartamenti vuoti del palazzo, attento a ogni rumore sospetto; esce di notte dalla sua isola segreta per cercare di procurarsi del cibo, e tutto ciò che trova nelle case abbandonate del quartiere ebraico: candele, libri, coperte, corde, il poco avanzato dai saccheggi di altri disperati come lui. Ingegnosamente scampato a una perquisizione, Alex scopre inaspettatamente un bunker costruito sotto la sua cantina, utilizzato in precedenza da un folto gruppo di rifugiati: riesce così a rifocillarsi per alcuni giorni. Le imprevedibili avventure, gli incontri casuali o minacciosi, le fughe precipitose, i miracolosi ripari dalle perquisizioni poliziesche che è costretto ad affrontare, ne acuiscono l’intelligenza, il coraggio, l’indomabile istinto di sopravvivenza. Nei cinque mesi trascorsi nella casa abbandonata di Via degli Uccelli, Alex impara a conoscere la durezza della vita, la cattiveria degli uomini, la capacità di ribellarsi, e i primi turbamenti d’amore per una bambina spiata dalla finestra mentre fa i compiti. Partecipa a un’imboscata, salva un partigiano ferito, uccide un tedesco, lotta contro il gelo dell’inverno polacco: e alla fine ritrova finalmente suo padre, scampato alla deportazione e unitosi alla resistenza.

Un apologo, questo di Uri Orlev, destinato agli adolescenti, per far conoscere loro le difficoltà e le persecuzioni incontrate dal popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale, e l’eroismo di chi ha saputo superarle, nonostante la giovane età.

 

© Riproduzione riservata          8 gennaio 2020

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RECENSIONI

ORSENIGO

VITTORIO ORSENIGO, MULINO DA PREGHIERA – MIMESIS, MILANO 2023

È sempre difficile recensire un libro di aforismi, riflessioni sparse, illuminazioni poetiche, squarci narrativi, sentenze icastiche: lo è per l’eterogeneità degli argomenti trattati, per la diversità di stili messi in campo, per il ventaglio di sentimenti evocati (dal sarcasmo alla malinconica, dal biasimo all’indulgenza). Lo è in particolare se la ricchezza degli spunti d’ispirazione introdotti si eguaglia alla finezza espressiva della scrittura, per cui a chi commenta si pone imbarazzante il quesito della scelta da compiere, nel citare i più sapidi o toccanti tra i tanti suggerimenti proposti.

Vittorio Orsenigo (Milano 1926), instancabile e versatile produttore di cultura, procacciatore di idee, diffusore di fantasia – è stato regista, pittore e fotografo –, vicino a raggiungere il traguardo del secolo di vita, si cimenta ancora nell’esplorazione del mondo, quello della propria interiorità e quello che lo circonda. Lo fa con invidiabile entusiasmo, sia nell’affondare impietosi strali di disapprovazione, sia nell’alleggerire ironicamente i temi più scomodi.

Già il titolo scelto per la raccolta delle sue divagazioni si presenta come un provocatorio ossimoro: Mulino da preghiera accosta l’immagine clemente del perdono e dell’invocazione a quella roteante della macina che smuove le acque o setaccia la crusca dal grano. Il libro si compone di tre capitoli: il primo, suddiviso in cinque tempi, dà il nome alla raccolta, Mulino da preghiera. Il secondo, I pizzini di Amblar, allude minacciosamente a qualche realtà segreta e infida. Il terzo, Le cancellerie, suona di beffarda derisione nei riguardi di ogni pomposa diplomazia ufficiale.

Ecco dunque alcuni esempi tratti dalle varie sezioni del volume.

“Il futuro non ci sembra mai abbastanza esagerato. Se riuscissimo ad immaginarlo come un frammento di presente caduto in avanti, avremmo idee meno stravaganti su di lui”, “Il fumo del caffellatte appanna gli occhiali. Sono vecchio. I sorsi di quella bevanda infantile vezzeggiano. Non possono più nutrire”, “Parlo troppo spesso di orrore: dunque non ci credo più e le piramidi d’ossa scoperte qua e là da un contadino alla semina delle patate costituiscono appena qualche intralcio al furore delle radici”, “Esposizioni: non sempre riguardano i girasoli di Van Gogh: ieri mi sono trovato di fronte in macelleria la lingua del bue che (un’idea vale l’altra) avevo visto brucare erba di alpeggio a quota milleseicento fra genziane e stelle alpine”, “E le Cancellerie? In coscienza, ognuno sa bene cosa dovrebbero cancellare: le guerre, ma figuriamoci se proprio loro si perdono in un tale bicchierozzo d’acqua! Non sono certo neonate ma vien da chiedersi: sono davvero così brave nel loro mestiere? Con i cassetti riforniti dall’Economato di gomme per cancellare Marca Pelikan (siamo all’eccellenza), battono la classica, stracca, mala pianta dell’ Apparato Burocratico. Per dirla tutta, fanno e disfano un quasi zero che, tuttavia, vale la seggiola o la poltrona”, “Nessuno è tanto intelligente da proibirsi le piccole, medie e grandi crudeltà”.

Saggezza, amarezza, nostalgia, disdegno: tutto concorre alla fondamentale esigenza di condividere idee e immagini, con chi sappia ascoltare e abbia voglia di fermarsi a pensare.

 

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SoloLibri.net › … › Mulino da preghiera di Vittorio Orsenigo               24 marzo 2023

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ORTESE

ANNA MARIA ORTESE, MISTERO DOLOROSO – ADELPHI, MILANO 2010

Incantata e incantevole favola di Anna Maria Ortese, raccontata con l’elegante sobrietà di stile che ha fatto di questa autrice un autentico classico della nostra letteratura.
Mistero doloroso, il lungo racconto inedito pubblicato da Adelphi nel 2010, dodici anni dopo la morte dell’autrice, ripropone temi e atmosfere tipici della scrittrice napoletana. La sua città, quindi, magica e sospesa in un’eternità di colori tenui e sentimenti forti, ambientati a fine 700, tra la reggia borbonica e la plebe di Santa Lucia e i Gradoni di Chiaia: “Il popolo vi era un po’ infelice ma garbato; la borghesia, piccola e grande, quieta; l’aristocrazia si divertiva, come sempre, in modi finissimi, e credeva e amava la stessa cosa che il popolino. La Fede era grande”.

Appunto, la Fede. La devozione che sa sedare gli animi turbati, quasi anestetizzandoli. Nessuna ribellione, in questo racconto, verso le ingiustizie del destino, le malattie e le morti precoci, i fallimenti economici, lo sfruttamento delle classi inferiori. Aleggia ovunque una rassegnata accettazione della storia e della sofferenza, del Mistero doloroso che è la vita tutta, a cui nessuno può sottrarsi.
Mare e cielo, amore e pianto, in una fiaba che sembra rimodellarsi su quella di Cenerentola, ma privata del lieto fine. Giustamente la postfatrice Monica Farnetti vede nella protagonista adolescente, Florì, quasi un calco della Silvia leopardiana, nel suo virgineo pudore, nella tranquilla e silenziosa operosità accanto alla madre sarta, nei primi non sopprimibili trasalimenti amorosi. E tutti i personaggi vengono descritti con uguale accurata lievità: dalla mamma Ferrantina, solida e modesta, presto vedova dopo un matrimonio infelice; al giovane Cirillo, nipote del re, che si invaghisce della spirituale bellezza della ragazzina, ma rinuncia a lei per obbedire alle convenzioni sociali, perché sa che solo “nell’acqua stellata dei sogni vivono gli ultimi regni, passano gli ultimi arcangeli. Il resto, non è che una grande noia”.

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/Mistero-doloroso-Ortese.html        26 settembre 2016

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ORTOLEVA

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OSWALD

ALICE OSWALD, MEMORIAL – ARCHINTO, MILANO 2021

Alice Oswald è nata a Reading nel 1966, ha studiato lettere classiche a Oxford, dove ora è Professor of Poetry. Ha pubblicato diverse raccolte di versi e vinto premi prestigiosi, raggiungendo il maggiore successo con Memorial, una rivisitazione in versi dell’Iliade. Proprio questo libro è stato da poco edito da Archinto con testo inglese a fronte, traduzione e cura di Rossella Pretto e Marco Sonzogni, che nella postfazione offrono un ritratto dell’autrice, incontrata a Bristol nel 2019 (“Ha lunghe mani nodose e capelli d’argento… un viso severo, epico nelle sue spigolosità, e occhi scavati e che scavano, di un blu insondabile”). Lo scavo è citato anche nel sottotitolo del libro, Uno scavo dell’Iliade, a indicare quanto profondo sia stato lo scandaglio emotivo con cui la poeta ha riportato alla luce il travaglio di vita e morte dei guerrieri protagonisti del poema omerico. Alice Oswald sottolinea di non aver voluto recuperare, nei suoi versi, la vicenda della guerra di Troia, ma di essersi proposta di renderne l’atmosfera, l’energia infuocata, privandola “delle sue parti narrative, come se si togliesse il tetto a una chiesa per ricordare ciò che si sta venerando”.

Il volume si apre su nove pagine in cui sono elencati, uno sotto l’altro, in stampatello, i nomi dei combattenti caduti, da Protesilao a Ettore, scarna litania di duecentoventotto eroi per lo più sconosciuti o irrilevanti, ma di cui sono poi brevemente raccontate le biografie, a imitazione delle lamentazioni greche modulate dai rapsodi durante le celebrazioni funebri. Un “cimitero orale”, viene definito da Oswald il suo testo, composto parafrasando l’originale omerico.

Ecco dunque questa Spoon River omerica, inaugurata da un commovente cameo: “Primo a morire fu PROTESILAO / uomo risoluto che presto s’avventò nel buio / … Morì nel balzo di chi cerca per primo l’approdo / Lasciò la casa costruita a metà / La moglie corse fuori artigliandosi il viso…”. Numerose altre descrizioni di guerrieri condensano in poche e asciutte righe i tratti salienti di un’intera esistenza votata agli affetti domestici e poi travolta dal turbinio della guerra, per concludersi nel sangue, lontano da casa: “ASSILO figlio di Teutrante / passò la vita nel ridente porto di Arisbe /… Tutti conoscevano quell’uomo paffuto / Seduto sul gradino spalancata la porta / Lui che tanto amava gli amici morì”, “IFIDAMANTE ragazzotto ambizioso / Diciottenne irrequieto / Dalla famiglia fu subissato d’amore /… Povero Ifidamante ora non è altro che ferro / Che dorme sonno ferrigno”, “Torna nella tua città SOCO / Hai padre ricco allevatore di cavalli e casa /… In faccia piume d’uccello / Ti disfano a colpi di becco / Gli occhi ti divorano i tuoi aperti occhi / Che tua madre avrebbe dovuto chiuderti”.

Infine l’eroe per antonomasia: “E anche ETTORE morì come gli altri / … Ettore amava Andromaca ma infine / Il suo viso stornò dalla mente / A lei ritornò cieco / Spossato spento / Solo volendo esser lavato e arso / E che avvolte in soffici stoffe / Le sue ossa tornassero alla terra”.

L’originalità del classicismo di Alice Oswald, in questa rielaborazione dell’Iliade attraverso la strage di tante giovani vite, risiede soprattutto nell’accompagnare le secche note biografiche con similitudini di trasparente lirismo, proprio dello stile omerico. In tale maniera la sofferenza umana (la crudele agonia, il lutto dei familiari, il crollo di ogni speranza nel futuro, il disonore della sconfitta) viene confrontata e assorbita nel dolore di tutti gli esseri viventi, animali e piante, e nello scorrere imperturbabile del tempo cosmico. Il “come” introduttivo a ogni metafora è insieme livellante e consolatorio, e acuisce l’emozione che tutti proviamo di fronte a qualsiasi definitivo epilogo dell’esistenza: “Come quercia colpita dal fulmine / Lancia le braccia in aria e arde”, “Come bimba s’aggrappa / Ai vestiti della madre che ha fretta / Vuole aiuto vuole braccia / Non vuole lasciarla andare”, “ Come famiglie d’uccelli che becchettano al fiume / Centinaia d’aironi e oche e cigni dal collo lungo / Quando un tizzone d’aquila famelico carbone rovente / Giù dal cielo si fionda in ali erompendo”.  E infine: “Come foglie chi può scrivere la storia delle foglie / Il vento ne soffia a terra i fantasmi / E primavera alita nuova foglia nei boschi / Migliaia di nomi migliaia di foglie / Quando li si ricorda si ricordi questo / Corpi morti ne sono il lignaggio / Che conta non più delle foglie”.

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 11 agosto 2021

 

RECENSIONI

OTTIERI

OTTIERO OTTIERI, POEMETTI – EINAUDI, TORINO 2015

Einaudi ripubblica tre poemetti di Ottiero Ottieri (usciti nell’ 88, nel 91 e nel 93), con un’esauriente prefazione di Valerio Magrelli. Ottieri, nato a Roma nel 1924 da una nobile e ricca famiglia toscana, romanziere di successo, sceneggiatore e figura di spicco dell’editoria, sposò Silvana Mauri, nipote di Valentino Bompiani, da cui ebbe due figli: la scrittrice Maria Pace e Alberto, attuale presidente di IBS e Messaggerie Libri. Breve premessa per inquadrare il milieu intellettuale e sociale in cui si mosse, con tormentata inquietudine, l’autore di questo libro, vissuto tra Roma, Milano, Ivrea, Pozzuoli e la Versilia, con frequenti ed estemporanei soggiorni all’estero. Ideologicamente orientato a sinistra, pativa tuttavia una sua esclusione dal mondo del proletariato proprio a causa della sua elitaria appartenenza all’ ambiente alto-borghese, in qualche modo finendo per vantare narcisisticamente questo suo dualismo culturale e di classe. Tutti e tre i poemetti, composti in cinque anni di ossessivo scavo interiore, con soffocanti tentativi di ancoraggio morale e politico, ruotano esclusivamente e angosciosamente intorno alla sua biografia, con l’esibito desiderio di costruire un personaggio da celebrare e offendere, da straziare con uno scandaglio psicologico di implacabile severità, e da consolare con divertito ma orgoglioso autocompiacimento. Lo stile, che Ottieri stesso definì «scivolosa…prosa rimata» e «funambolismo verbale», è coerentemente narrativo, veloce, colloquiale, con frequenti inserti di locuzioni quotidiane e termini volgari, quasi logorroico e sempre autoreferenziale, talvolta ironicamente allusivo alla più collaudata tradizione letteraria.
La prima raccolta, Vi amo, consta di nove composizioni dedicate a vari amori: i figli («io vi amo non voluti figli…Terribili pubblici ministeri / voi siete…»); antiche amanti suicide; le spiagge tropicali; diversi personaggi principeschi; la passione per i cocktails e la vita mondana; la sua Milano odiosamata («città senza cielo / terrore d’ansia e di suoni»), con la seducente attrattiva dell’elegantissima Via Spiga.
Nella seconda sezione, L’infermiera di Pisa, Ottieri si confronta, servendosi di una spiazzante e vivace leggerezza, con il tema sofferto dei frequenti ricoveri in cliniche psichiatriche, dopo anni di sedute junghiane a Milano e a Zurigo, per cercare di vincere il suo male oscuro, non provocato solo da depressione e bipolarismo, ma soprattutto dalla dipendenza dal sesso e dall’alcol, e da un costante sentimento di inadeguatezza («Tra nevrosi e psicosi, / analisi e benzodiazepine, trascorsero decenni»; «Mantiene psichiatri, psicoanalisti, / psicologi, assistenti sociali, / infermieri, tassisti e baristi»). Preso da una senile e incontenibile passione erotica per un’infermiera pisana, il poeta sbeffeggia se stesso e il suo «sessuale delirio» («Voglio con atletico cazzo / penetrare una stupida fica»), duellando testardamente contro le imposizioni mediche dei luminari della casa di cura, che sfotte sarcasticamente chiamandoli per nome (Cassano, Perugi, Mignani….), convinto che l’unica sua possibile salvezza risieda nelle cure amorose della bella toscana in camice blu.
Il terzo e più esteso poemetto, Il palazzo e il pazzo, torna sui temi assillanti delle precedenti raccolte: il sesso («Il mio dongiovannismo sordido / e tremebondo») e la psicanalisi («Nella mania e nella malinconia / io sono implacabile»). Ma a queste ossessioni se ne affiancano insistentemente altre: l’alcol («Bevvi / dodici bottiglie di rosso di seguito; io non concepisco / le realtà senza birra») e la passione politica («Ho sempre sostenuto che la classe operaia / non deve fidarsi / degli intellettuali»). Prendendo a pretesto un solitario rientro nel palazzo di famiglia a Belverde, nel senese, motivato dalla decisione dei suoi figli di vendere la proprietà, Ottieri, allergico a qualsiasi aspetto pratico-amministrativo dell’esistenza, si misura con il presente e il passato suo personale e dell’ambiente che lo circonda. I «cari luoghi» della sua adolescenza gli appaiono dopo anni oltraggiati dal capitalismo nella natura, nel paesaggio e nel carattere degli abitanti, da cui il poeta si sente estraniato e osservato con sospetto e rancore («tutto il paese mi considera / un verme»). A chi scrive non resta ormai nessuna fede, né in Marx («L’orrido mito marxiano non termina / che con il termine della povertà mondiale. / Allora la televisione potrà tutto; Insomma, che fa / un ex comunista?»), né in Freud («Mentre si cercano / le terapie brevi, le si fanno / interminabili»). Rimane soltanto un’adesione sofferta a una corporeità vissuta come condanna, e la devozione a un IO «scorticato vivo», che spadroneggia imperioso e fragilissimo: unica verità cui ancorarsi. «Sono un uomo senza fantasia,  / autobiografico perso».

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Poemetti-Ottiero-Ottieri.html;     19 settembre 2015

 

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OTTIERI

OTTIERO OTTIERI, DONNARUMMA ALL’ASSALTO – GARZANTI, MILANO 2014

L’interesse di Ottiero Ottieri (Roma 1924-Milano 2002) per la psicanalisi si coniugava con quello per la sociologia, ed entrambi animarono la sua produzione letteraria a partire dagli anni ’50, anni di vivace sviluppo industriale e di apertura verso nuovi modelli interpretativi dei comportamenti individuali all’interno della collettività. Assunto all’Olivetti nel 1953, in un ambiente professionale sensibile al contributo intellettuale di altri nomi di rilievo del mondo della cultura italiana (Geno Pampaloni, Paolo Volponi, Giovanni Giudici, Franco Fortini), venne poi inviato a Pozzuoli per seguire la creazione di un nuovo e avveniristico stabilimento, con l’incarico di selezionare il personale. Durante il periodo trascorso al Sud approfondì le tematiche relative al mondo del lavoro, all’alienazione operaia, allo sfruttamento capitalistico. Ne trassero linfa creativa due romanzi che diedero avvio al filone della cosiddetta “letteratura industriale”: Tempi stretti (1957) e Donnarumma all’assalto (1959), quest’ultimo pubblicato da Bompiani, dopo un rifiuto dell’Einaudi, determinato dal giudizio negativo di Calvino.

Riproposto da Garzanti in varie edizioni a partire dal 1990, il romanzo rimane il più celebre e celebrato tra i molti usciti dalla penna dell’autore, non solo per le problematiche relative al contrasto tra il progresso tecnico ed economico del nord e l’arretratezza culturale del meridione, ma anche per lo stile spaziante tra il resoconto cronachistico, l’introspezione psicologica e la critica politico-ideologica.

Scritto in forma autobiografica, narra l’esperienza di uno psicologo delegato da una grande azienda settentrionale a scegliere il personale da assumere in una nuova filiale impiantata in Campania, vagliando quarantamila domande presentate da aspiranti diversissimi: contadini analfabeti, infermieri, attori di varietà, donne di fatica, “pescatori, baristi, bagnini, custodi dei Riformatori”: tutti motivati dal miraggio di ottenere un’occupazione stabile e remunerata. Scisso tra il dovere di ottemperare alle esigenze dell’industria per cui lavora e la crudele realtà di un modello imprenditoriale indifferente ai destini individuali delle maestranze, oscillante ideologicamente ed emotivamente tra pietas e irritazione di fronte all’eterogeneità delle situazioni esaminate, il protagonista redige un diario della sua tormentosa vicenda professionale, che iniziata un lunedì di marzo, si protrae fino ad autunno inoltrato. “Sono entrato per la prima volta, all’improvviso, nel laboratorio psicotecnico. C’erano i candidati, seduti ai banchi, e hanno alzato il capo dai fogli dei test per osservarmi”. La scelta degli uomini e delle donne da impiegare è condizionata da rigide regole imposte dall’azienda, e lascia poco spazio di intervento al selezionatore: di ogni candidato si valutano le attitudini mentali e fisiche, senza tener conto delle sue condizioni economiche e familiari. Sottoposti a prove scritte e di coordinazione manuale, gli esaminandi sono in difficoltà nei colloqui e nei test verbali, a disagio con l’italiano ufficiale che risulta loro estraneo. “Mi scusate, dottore. Ma voi siete il pizzicologo? Dicono che quando vi avvicinate voi, capite se uno è intelligente o scemo”. Tentano ogni strada per ottenere il posto, dalla raccomandazione alla corruzione, dalle minacce alla supplica, dall’ossequio alla rivolta: “Io sono alfabeta, lì dentro c’è scritto. Io sono alfabeta con sette figli, ma mi piace di faticare, devo mangiare. Io vi servo più di tutti gli altri”. Il funzionario riflette su se stesso e sulla sua mansione, teso tra solidarietà e rabbia, compassione e sospetto: “Non è facile avere tutta la coscienza tranquilla”, riflette assolvendosi, consapevole di dover decidere tra le reali abilità e “una graduatoria del bisogno”.

Lo stabilimento diventa insieme moloch e totem, a cui sacrificare la propria esistenza e individualità, la coscienza e il rispetto di sé, in omaggio alle esigenze capitalistiche della produzione: “Sulla collina sopra il paese, esce, sorge la fabbrica: come un castello orizzontale di vetro, fluorescente di luci fredde. C’è il neon dietro i vetri. Gli abitanti della costa, i pescatori possono vederla così irraggiungibile da ogni punto del golfo”. Visitato quotidianamente nei vari reparti da “turisti stranieri, giornalisti, ministri, sociologi e architetti” (anche un disincantato e idolatrato Eduardo Dee Filippo rende omaggio al personale e alle macchine), diventa il fiore all’occhiello della lungimirante generosità dell’imprenditoria settentrionale nei riguardi del Sud. Che tuttavia nei suoi abitanti e nelle istituzioni rimane recalcitrante, sospettoso, e sostanzialmente inadeguato alle aspettative padronali. “Questo stabilimento è venuto a sollevare le nostre miserie. È anche un’opera di misericordia”, afferma un prete nel corso di una cerimonia, sorvolando sui turni massacranti, sull’alienazione prodotta dai movimenti ripetitivi, sull’assenza di rapporti interpersonali.

I candidati si chiamano Accettura, Bonocore, Santoro, Rubino, Bellomo, Papaleo, Straniero, e appunto Donnarumma.  Antonio Donnarumma fa la sua comparsa esattamente a metà romanzo, prototipo del disoccupato meridionale degli anni ’60, privo di qualifiche ma convinto del suo diritto naturale al lavoro: rifiuta le trafile burocratiche e il rispetto delle regole, contesta le gerarchie, diffida della carta stampata, è pronto a provocare con la violenza chi gli nega attenzione e ascolto: “Io debbo lavorare, io voglio faticare, io non debbo fare nessuna domanda. Qui si viene per faticare, non per scrivere”. Anche fisicamente risponde a uno scontato cliché: “Aveva il petto quadrato in un maglione, i capelli grigi a spazzola, gli occhi duri… con la faccia atona e regolare sotto la fronte bassa”.

L’indagine sociologica dello scrittore-psicologo Ottieri ammette tutti i propri pregiudizi nei confronti dell’oscurantismo dei meridionali, ritenuti pigri, immaginosi, disorganizzati, sensuali, svogliati, scialacquatori, superstiziosi, intellettualmente sterili: “tutti i luoghi comuni intorno al mezzogiorno mi tornano a galla, veri”. Ma l’industrializzazione forzata è considerata l’unica possibilità di sviluppo e salvezza, contro il male atavico della disoccupazione, della miseria, dell’ignoranza: “In fabbrica miglioriamo, loro e noi. Ci comprendiamo e ci assomigliamo, uniti dalla stessa produzione, cioè dalla stessa sorte. Quando si sta in officina ognuno al proprio posto, si smorzano i loro fuochi pirotecnici e le nostre sciocche, fredde presunzioni si riscaldano. Lo stabilimento fa gli uomini uguali, asciuga gli umori, riduce i vizi del carattere”. Quando le assunzioni vengono infine completate e il selezionatore, esaurito il suo compito, può tornare al nord, rimane l’inquietudine degli esclusi dal reclutamento e dal progresso, una rabbia feroce che si esprime in piccoli sabotaggi e infantili attentati, minacce verbali, telefonate anonime e persino tentati suicidi.

Giuseppe Montesano, nella sua analitica ed appassionata prefazione al volume garzantiano, afferma che “c’è qualcosa di oscuro, in Donnarumma all’assalto, una sorta di sordo brontolio minaccioso che non esplode mai in tempesta”, ed è il contrasto insanabile tra l’irosa sfiducia dei disoccupati che aspirano a un posto di lavoro e “il funzionario che ha fede nella fabbrica-modello, nella razionalità di un nuovo umanesimo e nell’efficacia della psicologia industriale”. Nord contro Sud, specializzazione contro dequalificazione, città contro campagna, progresso contro arretratezza. “Lo psicologo sa che il suo lavoro è «immorale» perché è una difesa contro il dolore altrui, e perché dove la Storia ha piegato gli uomini non può esserci neutralità”, scrive ancora Montesano. Tale dilemma, se dopo settant’anni non riguarda più il nostro meridione, rimane invece pressante nel baratro che divide l’Occidente iper-sviluppato e le zone del mondo tuttora deformate dalla povertà e dalla sofferenza. L’utopia di un progresso giusto ed egualitario grazie alla crescita tecnologica e finanziaria, continua a sopravvivere solo nel limbo dell’irrealtà.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 3 agosto 2021

 

 

 

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OTTO MARZO E MIMOSE

OTTO MARZO E MIMOSE

Vengo da una famiglia di donne, ho frequentato solo classi femminili, sono madre di due bambine, e questo ha senz’altro determinato una mia sostanziale estraneità al misterioso universo della mentalità maschile. Nutro il dubbio di aver addirittura scelto mio marito come compagno di vita perché mi è parso subito lontanissimo dallo stereotipo della virilità comunemente intesa. Ho vissuto il femminismo con la naturalezza un po’ sventata di chi si trova a lottare per idee che considero ovvie, per conquiste che ritiene scontate.

Solo ora, da questo privilegiato osservatorio dell’emigrazione svizzera, e davanti all’amara constatazione di una sostanziale débâcle dell’utopia dell’uguaglianza, mi accorgo che tali idee e conquiste ovvie e scontate non sono. Ricordo altri 8 marzo della mia vita: caroselli di ragazze infiorate, con zoccoli neri e gonne coloratissime, che si scioglievano per intrecciarsi di nuovo (ridenti, irridenti) in Piazza del Duomo a Milano, cantando slogan più sfrontati che minacciosi («Tremate, tremate, le streghe son tornate…»). Oppure il mio primo 8 marzo da mamma, a Roma, con una stupenda e canuta ultrasettantenne che copriva di mimose la carrozzina della mia bimba. Quell’allegria di essere donna (orgoglio della propria femminilità, sensazione di sorellanza complice con le altre) io non sono più riuscita a ritrovarmela intorno (o dentro?) qui in Svizzera. Colpa del rigido sessismo, della evidente discriminazione legislativa vigente nel paese che ci ospita? Colpa dell’ambiente emigratorio, ancorato a concetti retrivi quando non francamente ottusi e persecutori, per cui il ritornello dei miei nonni veneti «che la piasa, che la tasa, che la staga in casa» è tuttora il più calzante sulla piazza e nelle mura domestiche? Da una Milano provocatoriamente “rosa” mi sono trovata catapultata in una grigia Zurigo-little Italy. In cui la domanda più insistente nelle presentazioni continua a essere «Signora o signorina?», l’augurio più esaltante ai matrimoni «Figli maschi!», il commento più acuto di fronte a una violenza subìta «Se l’è cercata…»; un mondo in cui l’arma di offesa più utilizzata è la battuta volgare o la telefonata/lettera anonima, in cui il pettegolezzo, l’invidia, la maldicenza trovano nella donna (soprattutto se non perfettamente “allineata” alle aspettative ed esigenze comuni) il capro espiatorio preferito.

Festeggiamo l’8 marzo? Festeggiamo l’8 marzo! Non brinderò, tuttavia, al compagno aperto e femminista che però non c’è una volta che se li lavi lui, i calzini; né alla donna emancipata, manager in carriera che sfida il maschio usando i suoi metodi peggiori, i suoi colpi più bassi; né al gene XX in quanto tale, capacissimo di farsi più male di quanto gliene abbia mai inflitto il gene XY. Brinderò alle bambine, a tutte le bambine, da quelle in gestazione alle adolescenti, augurando loro di non dover pagare qualsiasi atteggiamento anticonformista quanto continuano a pagarlo le loro mamme, di non doversi sentire in colpa se aspirano ad esercitare la loro intelligenza autonomamente, di non doversi scusare se nutrono qualche ambizione che non sia puramente casalinga… Brinderò in particolare alle mie figlie, che nel 2000 avranno quindici e ventun anni, e l’8 marzo dell’anno scorso mi hanno regalato una rosa dell’ EPA che suonava «Tanti auguri a te» se le si premeva un petalo. Per loro due, streghine dolcissime, tornerò a cercare mimose, intonerò canzoni passate di moda, come quella spavalda e innocente «sebben che siamo donne, paura non abbiamo…».

 

«Agorà» (Svizzera), 8 marzo 1989

RECENSIONI

OZ

AMOS OZ, IL RE DI NORVEGLIA – ZOOM FELTRINELLI, MILANO 2012

Tra i racconti di Amoz Oz (romanziere e saggista israeliano, nato a Gerusalemme nel 1939, influente intellettuale dalle posizioni politicamente conciliatorie e social-democratiche), questo Il re di Norvegia è uno tra i più felici, per acume psicologico, levità descrittiva e delicata ironia. Si sorride, leggendolo, non si ride: e anzi ci si sente coinvolti in un sentimento di solidale e comprensiva simpatia umana per l’evidente inadeguatezza del protagonista nel rapportarsi con il prossimo.

Zvi Provizor, scapolo cinquantacinquenne, fa il giardiniere nel kibbutz Yekhat, e ama in maniera incondizionata il suo lavoro, a cui dedica ogni attenzione, cura e pensiero. “Si alzava ogni mattina alle cinque, spostava gli innaffiatoi, rastrellava la terra nelle aiuole di fiori, piantava e potava e bagnava, tagliava l’erba con quella macchina rumorosa, spruzzava i disinfestanti chimici, spargeva e interrava letame e fertilizzante”. Emotivamente sensibile e introverso, si rivela particolarmente propenso e interessato a qualsiasi avvenimento tragico accada nel mondo, andando a scovare nei quotidiani e nelle cronache radiotelevisive proprio le notizie più drammatiche, scandalose e catastrofiche che vengono riportate, per poi riferirle a chiunque incontri sul lavoro o al bar: “terremoti, aerei precipitati, crolli di edifici con vittime, incendi e alluvioni”. Raccoglie necrologi e immagazzina nella memoria i lutti di tutto il kibbutz, creandosi così una fama funerea di menagramo tra i colleghi, che tendono a isolarlo anche a mensa, e ne commentano sarcasticamente la riservatezza e la sessuofobia. Inaspettatamente però, Zvi Provizor incontra una vedova, Luna Blank, insegnante dall’indole artistica e romantica, e stabilisce con lei un rapporto di reciproca e casta amicizia, fatta di scarse confidenze e molti sospiri. “Lui si sedeva sulla destra della panchina di sinistra, in fondo al prato, e lei non lontano, sulla sinistra della panchina di destra. Lui le parlava e strizzava gli occhi, lei stropicciava il fazzoletto fra le dita”. Quando tuttavia Luna azzarda un approccio fisico appena più confidenziale, il mesto giardiniere si ritira spaventato, e alla donna delusa non resta che lasciare il kibbutz, rifugiandosi all’estero. Zvi Provizor, quasi sollevato dalla partenza di lei, torna alla sua monotona esistenza, tra fiori e piante grasse, immergendosi con sempre più angosciata e morbosa curiosità nella cronaca nera dei notiziari e dei giornali: per lui la notizia della morte del re di Norvegia, da tempo malato di tumore, rimane il massimo della sofferenza sopportabile con cui confrontarsi.

Amos Oz osserva, racconta, scuote la testa, sorride.

 

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https://www.sololibri.net/Il-re-di-Norvegia-Oz.html           15 ottobre 2018

 

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RECENSIONI

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AMOS OZ, RESTA ANCORA TANTO DA DIRE – FELTRINELLI, MILANO 2023

Amos Oz (Gerusalemme 1939Tel Aviv 2018), tra i più noti  scrittori e saggisti d’Israele, poco prima di morire tenne una conferenza all’università di Tel Aviv, il cui testo è stato pubblicato da Feltrinelli con il titolo Resta ancora tanto da dire. È interessante rileggere questo documento, che mantiene pregi e difetti di ogni comunicazione orale trascritta per la lettura (vivacità, arguzia, improvvisazione, ma anche disorganicità e gusto provocatorio), nei giorni terribili che il mondo sta vivendo a causa della guerra in corso.

Prima di addentrarci nella disamina del pamphlet in questione, è forse opportuno ricordare qual è stata la vicenda biografica di Amos Oz. A partire dal suo vero cognome, Klausner, ripudiato per l’insanabile contrasto che lo contrappose al padre, sionista di destra, dopo il suicidio della madre avvenuto quando lui aveva solo dodici anni, con la conseguente decisione di lasciare la casa di famiglia e di entrare nel kibbutz di Hulda. “Oz” in ebraico significa “forza”, e il ragazzo Amos ne ebbe molta, riuscendo a conciliare i lavori agricoli nei campi sia con gli studi, conclusisi con la laurea a Gerusalemme e poi con la specializzazione a Oxford, sia con la scrittura, praticata assiduamente dai ventidue anni in poi. Sposo di Nilli e padre di due figli, docente di letteratura alla Università Ben Gurion del Negev, aveva prestato servizio di leva nelle forze di difesa israeliane sia nella guerra dei sei giorni sia durante la guerra del Kippur.

Le sue posizioni sono sempre state conciliatorie nella sfera politica e social-democratiche nella sfera socio-economica. Tra i primi intellettuali israeliani a sostenere la soluzione dei due Stati, aveva dichiarato in un articolo del 1967 sul giornale laburista Davar: “Anche un’occupazione inevitabile è un’occupazione ingiusta”. Nel 1978 fu uno dei fondatori di Peace Now. opponendosi all’attività colonizzatrice sin dall’inizio e sostenendo gli Accordi di Oslo e le trattative con l’OLP, con simpatie per le posizioni laburiste di Shimon Peres. Se nel luglio 2006 Oz aveva appoggiato l’esercito israeliano durante la guerra con il Libano, più recentemente in una conferenza comune con Grossman e Yehoshua dichiarò invece che Israele aveva esaurito il suo diritto all’auto-difesa.

Autore di romanzi di successo che indagano soprattutto le relazioni di coppia o generazionali (l’autobiografico Una storia di amore e di tenebra, Michael mio, Un giusto riposo), si è occupato della situazione politica del suo paese in molti interventi sulla stampa internazionale e nei due saggi In terra di Israele (1983) e Contro il fanatismo (2004), quest’ultimo stampato, distribuito e tradotto in varie lingue a sue spese per favorirne una diffusione capillare. I concetti fondamentali di Contro il fanatismo (secondo cui il conflitto israelo-palestinese non è una guerra di religione o di culture, ma piuttosto una controversia possessoria da risolvere con un compromesso) sono stati ripresi appunto nella conferenza del 2018, e si riducono principalmente a tre.

Lontano in ugual misura da ogni fanatico estremismo come da un pacifismo imbelle, Oz non ritiene che il male assoluto sia la violenza, bensì l’aggressività e la sopraffazione, che vanno decisamente fermate con la forza. Hitler non è stato sconfitto da una colomba con il rametto d’ulivo nel becco, ma dalla forza militare. Tuttavia non è con l’esercito che si può curare una ferita, e la ferita putrescente aperta da un secolo tra Israele e Palestina va sanata, non con “il bastone” dell’oppressione, della deterrenza, dell’esibizione muscolare, ma attraverso l’uso di una lingua di cura, una base di colloquio comune, nella comprensione e accettazione dei reciproci diritti ad esistere.

In secondo luogo, è necessaria, ineludibile, la creazione di due stati: “Se non ci saranno qui, e piuttosto presto, due stati, allora ce ne sarà uno solo. E se dovesse sorgere qui un solo stato, non sarebbe uno stato binazionale. Sarebbe, prima o poi, uno stato arabo dal Mediterraneo al Giordano”, con gli ebrei ridotti a una minoranza senza rilevanza politica, così come è successo ai cristiani in tutto il Medioriente. Non esiste la possibilità di un unico stato multietnico prospero e pacifico, eccezione realizzata nel mondo solo dalla Svizzera. Tutti gli altri stati multietnici che hanno tentato la strada della bi-nazionalità sono incorsi in rovinosi fallimenti, e solamente la Cecoslovacchia è riuscita a creare due repubbliche separate senza spargimento di sangue.

Oz come terzo punto della sua lezione affronta la questione del sionismo, contestando l’idea che il rientro in Israele degli ebrei dispersi dalla diaspora sia stato determinato da un malinteso sentimento nostalgico di “ritornismo” o dalla ricerca di una spiritualità originaria. In realtà, era stata la consapevolezza (avvertita anche dai suoi nonni ucraini) di non avere un “altrove” in cui essere accolti, a spingerli a stabilirsi nella “Terra dei Padri”, pur sapendo che non avrebbero potuto trovare nello spazio qualcosa che si era perduto nel tempo. Non avrebbero lasciato l’Europa “se non fosse stato per la sofferenza, le persecuzioni e la scoperta che non c’era alternativa se non la reclusione nel ghetto o la totale assimilazione. Tutto ciò non deriva dal desiderio di ritorno. Non deriva soltanto né principalmente da ‘l’anno prossimo a Gerusalemme’. La verità è che non c’era altro luogo dove andare”.

Dopo essersi soffermato, con profonda tristezza, sull’odio secolare che gli ebrei hanno catalizzato su di sé in ogni epoca e luogo, Amos Oz conclude tuttavia il suo saggio con una nota di speranza non illusoria: “Nulla è irreversibile”, si può sempre cambiare. Mentalmente, caratterialmente, culturalmente, politicamente. Una diversa leadership in Israele e in Palestina potrebbe finalmente indicare la strada di un accordo: “Su, dai, facciamolo. Sarà difficile, complicato, doloroso, ma facciamolo e chiudiamo la faccenda una volta per tutte”.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 28 ottobre 2023