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RECENSIONI

PEDROLI

GUIDO PEDROLI, IL SENSO E LE PAROLE – CASABLANCA, BELLINZONA 1990

Certamente un importante fattore di giudizio nella valutazione di un testo è costituito dalla sua resistenza nel tempo, dalla sua capacità di non lasciarsi ossidare dalle mode, di mantenere una sua pregnanza di significato anche in diversi contesti culturali. Gli scritti di Guido Pedroli, pubblicati a trent’anni dalla sua morte, in un primo volume curato da vari studiosi per le edizioni Casablanca di Bellinzona, godono di questo raro privilegio, conservano dopo un così lungo periodo di silenzio, e forse di ostracismo, tutta la lucidità teorica e il peso politico di quando furono scritti. Si tratta di articoli, pubblicati tra il 52 e il 62 per lo più sulla stampa ticinese, di contributi a convegni, di introduzioni a volumi, limpidi e decisi nella prosa, correttamente polemici nelle argomentazioni e nei contenuti. Fu un maestro, questo giovane filosofo ticinese, cresciuto alla scuola di Abbagnano e di Paci, a cui solo una malattia crudele e inaspettata ha impedito di diventare una voce autorevole del pensiero e della cultura svizzera di questo secolo. Del maestro aveva la vocazione e la caratura morale: lo possiamo dedurre dalle pagine vibranti di sdegno verso una scuola che isterilisce e non educa, verso una pedagogia «addomesticata alle esigenze produttive di una società che tende a svuotare l’individuo, a ridurlo sempre più al rango di strumento efficiente, di essere che produce servizio (…). L’uomo ha la sua unica espressione nel “Job”, dal suo lavoro riceve l’individuazione, ma è individualità non sua, individualità senz’anima: la pedagogia che ne deriva è quella (…) che si preoccupa esclusivamente di adattare l’uomo alla funzione che esso è destinato a ricoprire nella società (1952)».

Sembra di rileggere i Quaderni piacentini degli anni 70, o Ivan Illich. Ci sono anche altre espressioni che hanno una valenza esplosiva contro la didattica rigida e funzionalistica tanto in voga oggi: «E nemmeno bisogna distogliere il maestro dalla ricerca personale. Più si diventa persona e più si diventa maestro. E un valore conquistato per sé è una valore conquistato per tutti gli altri. L’educazione deve dunque andare contro corrente rispetto all’attivismo moderno. Se il mondo moderno ci svuota e ci esteriorizza, la scuola ha il compito di riportare l’uomo dentro se stesso, di fargli ritrovare la sua natura spirituale e personale».

C’è quasi una foga missionaria in questo compito del docente, che Pedroli individuava non solo nel suo lavoro di professore, quanto proprio nel ruolo di intellettuale al servizio di una regione, di una cultura. Idealismo, certo, ma non donchisciottismo: gli obiettivi a cui mirare erano – e sono – ben concreti, armati, resistenti, gli interessi da scalzare enormi. Pedroli non lottava contro i mulini a vento, e le sue parole assumevano spesso uno slancio cui la morte precoce ha consegnato un senso quasi profetico. Temi privilegiati erano i giovani: «…i giovani quando si aprono al mondo, hanno il diritto di sentirlo davanti a loro come mondo da conquistare. Nostro compito è solo di fornire loro i mezzi tecnici e culturali perché possano orientarsi in esso e trasformarlo, e non già di deprimere i loro entusiasmi e prepararli ad una accettazione supina e rassegnata».

E la politica: «Io sono convinto che democrazia e civiltà si difendono nel socialismo. Alla domanda che cosa ci distingue dai comunisti, risponderei: ‘una diversa concezione dell’uomo’. Anzitutto una diversa concezione della sua individualità. Il comunismo considera la realizzazione di una società senza classi dal punto di vista della storia universale: l’uomo è un elemento trascurabile di questo processo storico assoluto e può quindi essere sacrificato, l’uomo di oggi, alla felicità dell’uomo di domani. Il socialismo invece tiene fermo l’uomo nella sua individualità. La storia è storia di uomini e non di ragione; la nuova società sarà quindi realizzata dagli uomini, non contro di essi)».

Ma è soprattutto la situazione della cultura ticinese, l’ambivalenza di fondo in cui sono costretti a vivere gli intellettuali del suo cantone, a suggerirgli articoli insieme orgogliosi e sprezzanti, comprensivi e infuriati: «Il Ticino è svizzero ma non è la Svizzera, è italiano ma non è l’Italia… C’è un complesso verso l’Italia, che è insieme di superiorità – l’ordine, l’onestà, l’automobile e il frigorifero che abbiamo come Svizzeri – e di inferiorità – la facilità di parola, la fantasia di vivere che si sono appannate da quando non siamo più italiani…- Il protezionismo della cultura, se favorisce la quantità della produzione, non favorisce certamente la qualità. Le acque si fanno stagnanti, si forma un’aria viziata, di serra, la fauna e la vegetazione è troppo fitta e rigogliosa per essere ricca di nerbo, di vita. Ecco allora il Ticino diventare la più provinciale delle province…Come lo scrittore romagnolo e piemontese portano, il più delle volte, l’impronta caratterizzante della loro terra, a maggior ragione la porteremo noi, di questa valle che la frontiera ha reso tanto diversa dalle altre valli italiane. L’Italia non aspetta nulla da noi. Quasi non sa che esistiamo. Ma se le facciamo nascere un fiore, vuole essere un fiore della nostra terra».

Non c’è nulla da riassumere, da tagliare, da contestare: sono considerazioni che hanno l’evidenza della verità, validissime ancora oggi, da sottoscrivere in toto. Un’intelligenza cristallina, quindi, quella di Guido Pedroli, e una moralità altrettanto forte ed esemplare, come si può dedurre dalle poche pagine del diario presentate nel volume. Pagine che rasentano l’altezza degli insegnamenti di Mounier, la severità etica del Sisifo camusiano: «Essere nel mondo e tra gli uomini – questo è il problema che devo risolvere. Oggi non è più possibile per me lasciarmi vivere – porterei sempre con me il senso di sprecare la mia vita, di non fare ciò che appunto il mondo e gli uomini chiedono da me, di sotterrare i miei talenti, pochi o tanti che siano. E d’altra parte debbo superare una volta per tutte la fissazione che per fare “qualcosa”, per non disperdere la propria vita nel mondo, occorre sacrificare il mondo. Non si tratta di fare “qualcosa” – giungere a una cattedra o scrivere un libro importante – si tratta semplicemente di non abdicare al posto che ci è assegnato, non fuggire la responsabilità che abbiamo il dovere di assumerci, esaudire nel modo migliore il proprio compito».

Non abdicare, non fuggire, esaudire il proprio compito. Semplicemente.
Fosse facile.

 

«Agorà» (Svizzera), 15 maggio 1991

RECENSIONI

PENTICH

GRAZIANA PENTICH, I COLORI DI UNA STORIA – SCHEIWILLER, MILANO 1993

Si è tenuta a Pavia, nella Sala dell’Annunciata, la mostra “I colori della storia: Alfonso Gatto, poesia e pittura”, curata sapientemente da Anna Modena. L’esposizione ha offerto al pubblico immagini e documenti messi a disposizione dalla compagna del poeta campano, Graziana Pentich. La mostra, e l’elegante volume edito da Vanni Scheiwiller, che ne è spunto, catalogo e sintesi, narrano tredici anni di una vita e di un amore che si intuiscono lacerati e regali, addirittura oltraggiosi nella loro ricerca dell’assoluto. Come tanti, si dirà. Certo, ma questa storia ha qualcosa di più tragico e necessario insieme, che brevi cenni biografici basteranno a illuminare. Alfonso Gatto e Graziana Pentich si incontrano nel dopoguerra, lei pittrice triestina, lui già noto e inquieto poeta dai vasti orizzonti: passano insieme vent’anni, «sempre in piedi sul ciglio di un abisso, ma col coraggio noncurante e divertito degli equilibristi». Hanno un figlio, Leone, «bello e prodigioso, forte e cattivo, delicato, come è la vita, come deve essere». Gatto muore in un incidente stradale nel ’76, il figlio si uccide tre mesi dopo. Per dieci anni, Graziana Pentich si vieta anche solo il recupero mentale di un passato irripetibile e miracoloso, rifiutando ostinatamente la consolazione della memoria. Ma poi le si impone l’esigenza di un risucchio dal nulla e di una comunicazione illuminante agli altri della sua esperienza: «I buoni, i cari gesti della vita resistevano intatti in quegli sparsi disegni e dipinti ritrovati: ogni figura rimossa dal buio e dal disordine alla luce chiamava a sé altre figure, moltiplicava i gesti, le voci, i passi perduti…».

Il volume si apre con lo schizzo di alcuni nomi preparati per il bambino che sta per nascere. Tra essi campeggia, perentorio nel suo stampatello, quello poi effettivamente scelto di Leone, «un nome che avrebbe arricchito di felinità il cognome Gatto». Dopo 280 pagine, il libro si chiude su un ritratto della madre fatto dal figlio dodicenne. In mezzo, riproduzioni di circa trecento disegni, acquerelli, ritratti, poesie, lettere, che stordiscono il lettore quasi con una continua febbre, lo emozionano come la rivelazione di un incanto che si sa destinato a spezzarsi. L’artista che ricompone e cuce gli strappi, che tenta di raggiungere nell’appagamento dei colori un lembo di serenità è lei, Graziana Pentich; e i suoi dipinti sono densi, pieni, sicuri di un bene che si conosce sicuro: orgogliosi della bellezza del figlio, carichi di stupore verso le cose e i colori della vita. Poi ci sono i disegni di Leone, questo ragazzino sorprendente che a otto anni era in grado di raccontare suo padre intero con pochi tratti di matita (Babbo col basco), e di scrivere dediche come questa: «Caro babbo, auguri al tuo quarantottesimo anno di vita, di scrittore e poeta. Il mese quando tu sei nato è caldo come sei tu quando ti arrabbi. Il mese di luglio è bello quanto te babbo perché ha i fiori rossi gialli blu, i vestiti gai dei bambini».

Un bambino che sembrerebbe dover sparire tra un padre e una madre talmente e prepotentemente intensi, e che invece si staglia nitido e imperioso come il suo nome, nobile anche nelle sue impazienze, nei capricci. Infine, il pennello di Alfonso Gatto, che dipinge smanioso e stralunato paesaggi liguri e lacustri, facce tormentate e chiosate con ironia (Graziana che cerca di imitare Alfonso): dipinge quasi per voglia di possesso, per pura brama di vita: «L’irresistibile attrazione che la vista in casa di tavolozze, colori e pennelli esercitava da sempre sul poeta si era addirittura concretata in un suo tacito diritto a impossessarsi di quegli strumenti di lavoro, che in verità appartenevano alla sua compagna. Lei, anche se a malincuore per via dei sicuri strapazzi cui andavano incontro i suoi gelosi, e costosi, materiali per dipingere, lasciava fare un po’ complice, un po’ stregata da quei rapinosi estri del poeta. E finì per considerare questo strano caso, che il più gran gusto di lui doveva essere proprio in quel gioioso, fanciullesco saccheggio dei suoi beni».

La visione di queste immagini, la lettura di questi brani è uno squarcio nella esistenza di questi tre personaggi forti, che sembrano spiarsi in ogni piega dell’anima, che in qualche modo si cibano misticamente di se stessi, sbranandosi per troppo amore.

 

«L’Arena», 2 dicembre 1993

 

RECENSIONI

PERISSINOTTO

LUIGI PERISSINOTTO, WITTGENSTEIN. UNA GUIDA – FELTRINELLI, MILANO 2008

Questa guida che Luigi Perissinotto ha dedicato al pensatore austriaco ha conosciuto in più di dieci anni diverse edizioni di successo, dovute al fatto che in essa si tenta con acutezza di “illustrare Wittgenstein con Wittgenstein”, esponendo con chiarezza e puntualità le principali tappe del suo pensiero. Il volume è diviso in due parti, dedicate alle due opere fondamentali del filosofo: Il tractatus logico-philosophicus e le Ricerche Filosofiche, pubblicate a trent’anni di distanza, nel 1921 e nel 1953. Le vicende biografiche di Wittgenstein sono raccontate in maniera essenziale, come merita la sua esistenza totalmente votata allo studio e alla ricerca. Dalla nascita a Vienna nel 1889 da una ricca famiglia ebrea, ai suoi studi di fisica e matematica, ai rapporti con gli intellettuali austriaci, e poi con Russel e Frege all’epoca del suo trasferimento a Cambridge; per seguire con la partecipazione alla prima guerra mondiale, all’anno di prigionia a Cassino, all’interruzione decennale del lavoro di ricerca per dedicarsi all’attività di maestro elementare, per poi tornare all’impegno filosofico e universitario. L’attenzione dell’autore si concentra soprattutto sulla volontà di chiarire l’orizzonte di pensiero in cui si muoveva Wittgenstein, portando il lettore a sviscerare punto per punto i nodi essenziali di quel “piccolo libro di grande difficoltà” che fu il Tractatus, attraverso la comprensione paragrafo per paragrafo delle sette proposizioni che lo compongono, tese a distinguere, all’interno del linguaggio, il senso dal nonsenso, le regole sintattiche, l’essenza della logica, con una riflessione rigorosa su quale sia la funzione di verità, e quindi l’eticità, di ciò che esprimiamo con le parole. Con un’attenzione severa a tutto ciò che compete alla riflessione umana, così come viene definita dalla prima e dall’ultima proposizione del Tractatus, famosissime nella loro perentorietà: “Il mondo è tutto ciò che accade” e “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.”

IBS, 23 agosto 2011

RECENSIONI

PERRENOUD – GIANCOTTI

MADDALENA STABILE PERRENOUD, ALTRE ATTESE – CREA EDITORIAL, 1990
ELIO GIANCOTTI, LA VITA OLTRE IL MITO – LUIGI PELLEGRINI  – 1990

 

Secondo l’ultima indagine dell’Istat, numerosissimi sono gli italiani che scrivono poesie (uno su cinque, pare); più al centro-nord che al sud, più uomini che donne (queste ultime, se coniugate, si firmano sempre con due cognomi…). La percentuale dei lettori di poesia è invece risibile, vergognosamente bassa: Zanzotto, dei suoi libri pubblicati nella prestigiosa collana Lo specchio di Mondadori, non riesce a vendere duemila copie. Questo perché il linguaggio poetico è arrivato a una densità espressiva e a una difficoltà interpretativa tali, che il lettore medio italiano – già poco propenso a grosse fatiche intellettuali – tende a evitare di lasciarsi mettere in crisi, rinuncia a priori ad approfondire, a svecchiare le sue conoscenze letterarie. Si può allora pensare che il pubblico della poesia sia costituito dai poeti stessi, ma anche questo non è sempre vero; mentre è indubbio che a un certo -basso- livello di produzione letteraria chi scrive versi legge solo quelli che lui stesso produce, non avvertendo minimamente l’esigenza, umile ma doverosa, di coltivarsi, perché no?, di “studiare” poesia, così come un medico studia anatomia, o un programmatore si aggiorna su riviste e pubblicazioni specializzate. A questo mi viene da pensare quando ricevo in omaggio volumi di versi, con la preghiera, talvolta imperiosa e assillante, di una recensione, che ovviamente deve essere SEMPRE positiva ed esaltante, pena odio eterno e strali feroci. Allora leggo, annoto, postillo, rileggo cercando di trovare tra le pagine tutti i preziosismi letterari e le recondite armonie promesse da prefatori entusiasti e un po’ troppo generosi.. Scusate la lunga digressione, e prendetela come sfogo di una tizia che ama molto leggere poesia, e a cui piacerebbe anche scrivere molto e bene di poesia, e non sempre ci riesce, certo per sua personale insensibilità verso la genuina e strabordante vena poetica di chi scrive… E arriviamo a parlare di due volumi di versi appena pubblicati da scrittori che già si sono messi in luce nell’ambito dell’emigrazione: Maddalena Stabile Perrenoud e Elio Giancotti, con Altre attese e La vita oltre il mito. La Stabile Perrenoud, calabrese ma con una storia che ha conosciuto diversi orizzonti, vive, lavora e scrive a Neuchâtel, e ha con la poesia un rapporto intenso, quasi fisico e sensuale, di donazione totale, di confessione irrefrenabile. Le sue sono poesie con una forte sensibilità pittorica e un’ altrettanto forte sensibilità religiosa, rivolta verso un dio creatore onnipresente nella bellezza del creato. Si tratta di visioni, sogni, preghiere permeate di gratitudine stupefatta nei riguardi dell’esistente, del miracolo di un mondo sempre uguale e sempre nuovo nello stesso tempo, dietro cui è difficile decifrare il silenzio divino: «Nulla resta / il presente ci sfida immobile. // Tu che domini il tempo / vivi e non esisti…»; «Lontana come una stella, / mi guida questo pianto, / questo gridare dell’anima, / un’ultima preghiera / al Dio degli uomini»; «Aspetto che mi parli / che strappi questo velo, / il sigillo / che chiude la porta della mente». Ci sono immagini icastiche, assolutamente giuste nel far scattare quel quid che definiamo poesia, soprattutto negli attacchi delle singole composizioni: «Sarà sera fra poco, / gli alberi immobili / l’attendono. // Ho vinto l’impulso / di cercare casa , / d’accostarmi come un lupo solitario, / per carpire / e rassicurarmi in un’immagine»; «L’autunno / è la guerra degli alberi. // La sconfitta», ma curiosamente sembra che l’autrice sia tentata dalla sovrabbondanza e dalla ripetizione, preferisca il diluire che il condensare, la tradizione della retorica all’originalità più scabra, dimenticando che la poesia è data dall’intensità, e mai dalla banalità. E così leggiamo espressioni datate che finiscono per danneggiare il libro nel suo complesso: «paradiso di luce; lacrime di madreperla; l’ultimo raggio di sole al tramonto; spighe di grano / ondeggiano / al vento della passione», e altre ridondanti immagini del genere che vanificano il timbro più personale e dotato della Stabile Perrenoud.
Elio Giancotti, lui pure calabrese, professore nei Corsi di Lingua e Cultura Italiana a Berna, tre anni fa ha pubblicato un romanzo ambientato nella Svizzera inquieta della terza generazione, a cui nuoceva forse l’eccesso di storie e situazioni, di elucubrazioni socio-psicologiche e di bozzetti narrativi. Troppe cose con troppe parole, insomma, per un libro solo, e non abbastanza sorvegliato stilisticamente. Quella prima impressione di allora mi viene ora consolidata da questi versi, stranamente retrò con una robusta impostazione classicheggiante, quasi che le letture dell’autore si siano fermate a Vincenzo Monti, o a Prati e al tardoromanticismo: «La tua grazia, Velia / m’inebriò di gioia celeste. / Sfiorandomi la tua mano / ch’ora invano cerco / stringer nel sonno / sentii fendermi il petto»; «Nella lubrica china del tempo / s’è lacerato l’amoroso idillio»; con curiose rimembranze da Michelangelo («È preferibil cosa / l’esser di sasso») o da Foscolo («Or son vent’anni, Calabria mia, / adolescente ti lasciai»). Severi settenari iniziali («O fervide colline, / dai limpidi orizzonti») si sfilacciano presto in un’assoluta dimenticanza e noncuranza di ritmi e clausole metriche; le frequenti anastrofi («Ivi i nati figli; I proibiti frutti; dalle feraci valli; il mio ardente petto») fanno il verso, non si capisce se ironicamente o meno, al traduttor dei traduttor d’Omero: «E rubiamo teneri afflati a zefiro / e calami d’oro al sole / e scriviamo messaggi ineffabili / che il complice Favonio apporta». Eppure anche Giancotti ha un timbro suo, personale e piacevole, che trascura o non mette in evidenza quanto dovrebbe, preferendogli l’elegia e la retorica: è nella parte finale del volume che l’autore si riscatta, nelle  Satire che recuperano con finezza e ironia il tono di certe epistole in versi del latino imperiale (da Orazio a Marziale a Giovenale, ma senza dimenticare Catullo); e fustigando i vizi dei più, manie e memorabilia di amici e nemici, assume toni scherzosi e simpaticamente denigratori, tenendo in serbo l’aculeus finale («tante botte e senza retribuzione / mi domando se sei un duro o un coglione») nella migliore delle tradizioni classiche.

 

«Agorà» (Svizzera), 20 marzo 1991

RECENSIONI

PERSE

SAINT-JOHN PERSE, L’OSSESSIONE CELESTE – MEDUSA, MILANO 2021

Le edizioni Medusa hanno dedicato un elegante volume, curato da Laura Madella, a Saint-John Perse: L’ossessione celeste.

Saint-John Perse (pseudonimo di Alexis Léger; 18871975), poetascrittore e diplomatico francese, figura intellettuale in Italia colpevolmente trascurata, fu insignito nel 1960 del Premio Nobel per la Letteratura “per l’ambizioso volo e le evocative immagini della sua poesia”. Appartenente a una famiglia aristocratica, proprietaria di piantagioni di caffè e di canna da zucchero in Guadalupa, trascorse con la famiglia un’infanzia paradisiaca nelle Antille francesi fino al 1899, a stretto contatto con il mare, la vegetazione e gli animali, sviluppando una sensibilità particolare per la libertà e gli spazi aperti della natura. Costretto a trasferirsi in Francia in seguito al tracollo economico della famiglia, si sentì sempre e ovunque un esiliato, definendosi “uomo d’Atlantico”. Erudito, elegante, di una raffinatezza inattuale, coltivò molti interessi in ogni campo dello scibile, frequentando i più importanti artisti contemporanei: Odilon RedonJacques RivièreAndré Gide, Paul Claudel, Paul Valéry. Impegnatosi nella carriera diplomatica, viaggiò a lungo in Europa e in Cina, approfondendo un percorso morale affine alla spiritualità orientale. Oppositore del nazismo, nel 1940 venne rimosso dall’incarico di segretario generale al Ministero degli Esteri e privato della cittadinanza, per cui si trasferì negli Stati Uniti, tornando in Francia solo dopo la liberazione. Della sua vita politicamente tormentata, rimane scarsa traccia nella produzione letteraria, orientata invece a un continuo superamento della contingenza verso temi immaginosamente metafisici.

Il libro di cui ci occupiamo raccoglie lettere, memorie, brevi saggi, dissertazioni: tra questi, il discorso tenuto a Stoccolma in occasione del conferimento del Nobel. Si tratta della sua prosa più conosciuta in assoluto, una vibrante celebrazione della Poesia intesa come “strumento conoscitivo alternativo e complementare alla scienza”, secondo la definizione della prefatrice, ma forse alla scienza addirittura superiore nella capacità di esplorare i misteri insondabili della natura e dell’animo umano. Il poeta è, secondo Perse, “la cattiva coscienza del suo tempo”, voce profetica e visionaria che si eleva aldilà di ogni futile apparenza, e aiuta ad essere consapevoli della propria inviolabile e impenetrabile unicità. “Alla domanda che sempre ritorna: ‘Perché scrivete?’ la risposta del Poeta sarà sempre la più breve: ‘Per vivere meglio’”, affermava nel 1955.

Cinque anni dopo, apriva la celebre allocuzione per il Nobel con queste parole: “Solo per la poesia ho accettato l’omaggio che le viene reso in questa sede, e che bramo di restituirle”. Sottolineando lo scarto tra la gratuità dell’arte poetica e “l’attività di una società sottomessa alle servitù materiali”, Saint-John Perse rivendicava alla poesia e alle sue “folgorazioni dell’intuito”, la stessa dignità di ricerca e di immaginazione delle altre scienze. “Figlia della meraviglia”, operando con “pensiero analogico e simbolico”, la poesia è in grado di sondare il mistero dell’essere, e di renderlo percepibile attraverso la grazia del linguaggio: “È azione, è passione, è potenza, è innovazione quando sposta i confini”.

Tale appassionata considerazione nei riguardi della scrittura si ritrova nelle lettere antologizzate in questo volume, dirette a corrispondenti prestigiosi (Stravinskij, Riviére, Larbaud, Ungaretti, Paulhan…), a cui attribuiva la sua stessa acuta sensibilità e il suo stesso rigore compositivo. E sapeva mettere in luce, con pochi calzanti cenni critici, le principali peculiarità stilistiche degli scrittori presi in esame (Eliot, Gide, Claudel, Tagore, Ocampo, Borges Cioran, Bousquet, Char), tributando loro un riconoscente omaggio.

Di Dante, con la solennità e l’autorevolezza che era la sua cifra distintiva, scrisse nel 1965 un elogio rimasto celebre: “Poeta, uomo di assenza e di presenza, uomo di rifiuto e di concorso, poeta, nato per tutti e da tutti nutrito, sempre inalienato, egli è fatto di unità e pluralità… Destino prodigioso, per un poeta creatore del suo linguaggio, essere anche l’unificatore della lingua nazionale, assai prima dell’unità politica che questa annuncia. In Dante, il linguaggio restituito a una comunità viva, diventa la storia vissuta di un intero popolo in cerca della sua verità. Quale poeta, per la sola eminenza della sua poesia, ha mai rappresentato, nella storia di un popolo orgoglioso, un tale elemento di forza collettiva?”

In Saint-John Perse la consapevolezza della missione della scrittura si univa alla coscienza del proprio valore di letterato, autore di un’opera “evoluta al di fuori di uno spazio e di un tempo”, nella stessa misura eterna e universale.

 

© Riproduzione riservata        SoloLibri.net › Ossessione-celeste-Perse      14 settembre 2021

 

 

 

RECENSIONI

PESSOA

FERNANDO PESSOA, POESIE – NEWTON COMPTON, ROMA 2014

In una curata veste grafica con testo portoghese a fronte, e ad un prezzo addirittura risibile, l’editore Newton Compton propone ai lettori una cospicua scelta della produzione poetica orto-eteronima di Fernando Pessoa (1888-1935). Orietta Abbati ne ha curato con appassionata partecipazione sia la documentata nota biobibliografica sia l’approfondita introduzione, mentre a Piero Cacucci è stato affidato l’incisivo commento finale, indagante lo sguardo metonimico su interno ed esterno dell’esistenza e dell’ideologia pessoana, simboleggiato dalla persistente metafora della finestra. A entrambi gli studiosi si deve la traduzione dei testi. Ne  Il libro dell’inquietudine, sotto lo pseudonimo di Bernardo Soares, così Pessoa descriveva la frantumazione identitaria che albergava nella sua interiorità: «La mia anima è una misteriosa orchestra: non so quali strumenti suonino e stridano, dentro di me: corde e arpe, timballi e tamburi. Mi conosco solo come una sinfonia». E a questa sinfonia, a questo suo teatro mentale, offrivano le loro voci tre controfigure poetiche, con caratteri, timbri e vicende esistenziali assolutamente diverse e originalissime: Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Álvaro de Campos. Il volume in questione ne testimonia la grandezza e la peculiarità stilistica e ideologica: a cominciare dal primo eteronimo, quell’Alberto Caeiro presente con ventuno componimenti, e considerato il maestro degli altri due. Una sorta di autodidatta rurale, orgogliosamente privo di ogni speculazione metafisica, immerso paganamente nello splendore della natura, e fedele solo al richiamo delle sensazioni. Proprio all’innocente esperienza sensoriale, infatti, Caeiro demanda la possibilità di conoscere il mistero della vita e dell’anima umana: «Sono un pastore di greggi. / Il gregge è i miei pensieri / e i miei pensieri sono tutti sensazioni. / Penso con gli occhi e con gli orecchi / con le mani e con i piedi / con il naso e la bocca. // Pensare un fiore è vederlo e odorarlo / e mangiare un frutto è saperne il senso».

Agli antipodi si pone la lezione estetica del secondo eteronimo, Ricardo Reis, che costruisce con rigore neoclassico una poesia antimodernista, modulata sulla lezione degli antichi, in particolare di Orazio. Equilibrio e misura sembrano essere le parole d’ordine della produzione reisana, insieme a un’istanza pedagogica tesa a educare alla saggezza epicurea dell’atarassia: «Oggi, quali servi di lontani dèi, / in casa d’altri, senza il giudice, / beviamo e mangiamo. / E domani accada quel che accada». Il terzo membro della famiglia eteronomica, Álvaro de Campos, si staglia imperiosamente nella sua singolarità di ingegnere navale innamorato della modernità e del progresso, da lui trionfalmente esaltati con espressioni iperboliche e deflagranti, secondo il suo dettame di dover «sentire tutto in tutte le maniere», «O ferro, o acciaio, o alluminio, o lastre di ferro ondulato! / O moli, o porti, o treni, o gru, o rimorchiatori! // Ehilà grandi disastri ferroviari! / Ehilà crolli di gallerie di miniere! / Ehilà deliziosi naufragi dei grandi transatlantici!…». Questi tre specchi deformanti del sentire poetico di Pessoa trovano una loro ricomposizione nelle sue poesie ortonime, caratterizzate da un’angoscia esistenziale indicativa della sua complessa interiorità spirituale e intellettuale: «Ho graduato le influenze, ho conosciuto le amicizie, ho udito, dentro di me, le discussioni e le divergenze di opinioni, e in tutto questo mi pare che sia stato io, creatore di tutto, ad essere il meno presente. Mi sembra che tutto sia avvenuto indipendentemente da me. E mi sembra che ancora avvenga così».

La disgregazione del soggetto, il crudele processo di spersonalizzazione e il conseguente anelito alla simulazione e contraffazione, vengono evidenziati in versi quasi programmatici: «Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che giunge a finger che è dolore / il dolore che davvero sente», «Sono una vita oscillante / sulla coscienza d’esistere», «Oggi che estraneo a tutto e a me stesso, / posso, alla luce del dì vasto e ricco, / verificare che fui uno a casaccio, / è ancora a casaccio che lo verifico. // Tutto è estraneo; quanto sono o fui / un altro da me e senza me sospinge». Ecco quindi che la poesia pessoana diventa emblema e simbolo della devastante crisi filosofica e ideologica che interessò le coscienze e la produzione artistica mondiale nel XX secolo, incarnandone la sofferenza e l’ambiguità.

«Poesia» n.298,  novembre 2014

RECENSIONI

PETRIGNANI

SANDRA PETRIGNANI, LE SIGNORE DELLA SCRITTURA – LA TARTARUGA, MILANO 1984-2022

Il volume Le signore della scrittura, che restituisce la voce ad autrici fondamentali del nostro Novecento letterario, mettendo in luce non solo il loro alto spessore intellettuale, ma anche la loro personalità, è giustamente dedicato dall’autrice a Laura Lepetit, coraggiosa fondatrice delle edizioni La Tartaruga, che lo aveva pubblicato nel 1984 e, prima di venire a mancare lo scorso anno, ne ha voluto la ristampa.

Rileggere, dopo quarant’anni, le interviste che Sandra Petrignani fece a undici grandi scrittrici italiane per il quotidiano Il Messaggero, ci riporta a metodi di lavoro, ad atmosfere culturali, a stili di vita pubblici e privati di altro livello rispetto a quelli odierni, e decisamente da rimpiangere.

Le signore che qui si raccontavano – alcune con aperta cordialità, altre con scontroso ritegno, altre ancora con pungente ironia –, avevano in comune l’età avanzata (dai settant’anni in su), lo stesso giudizio amaramente severo sulla loro contemporaneità, e una giustificabile acredine verso “l’assenza di vero prestigio… l’imperdonabile mancanza di autentico riconoscimento” da parte dei critici, degli editori e dei lettori italiani, prevenuti riguardo al loro essere donne.

In realtà, almeno quattro di loro (Morante, Ginzburg, Ortese, Romano) sono oggi considerate appartenere a ragione al nostro Olimpo letterario, e anche delle altre sette si riconosce unanimemente il valore. Anna Banti, Maria Bellonci, Laudomia Bonanni, Fausta Cialente, Alba de Céspedes, Livia De Stefani, Paola Masino godono attualmente di grande stima e interesse, vengono antologizzate, studiate, addirittura imitate. Probabilmente quarant’anni fa non era così, se Petrignani asseriva nell’introduzione all’edizione del 1984: “Ciò che raccontano di sé disegna nell’insieme una comune condizione di isolamento, delle donne fra gli uomini, ma anche delle donne fra le donne. Sono quasi tutte isolate sulla roccia dei libri che hanno scritto, nel silenzio che le circonda o di cui hanno voluto circondarsi”.

Pressoché tutte le intervistate hanno iniziato a scrivere molto precocemente, dall’adolescenza se non persino dall’infanzia, trovando però grandi difficoltà nel farsi pubblicare e nell’avere successo. Erano state lettrici onnivore, appassionate di storia e di arte, curiose di politica, ma arrivate alla vecchiaia vivevano isolate, con pochi amici, snobbando le cerimonie ufficiali e i salotti mondani, timorose di esibire la loro fragilità fisica, la loro stanchezza mentale. Elsa Morante così confidava: “Sono una vecchierella che vuole essere lasciata in pace. Sono aumentata di peso, ho i capelli bianchi, sono malata… Io detesto il mio corpo”.

Nei giudizi espressi sulle altre donne e sul femminismo indicavano spesso una notevole disistima. Anna Banti: “Non sono sempre e comunque dalla parte delle donne. E le dirò questo: le donne sono cattive verso le altre donne. Sono invidiose. Non sopportano che un’altra si distingua in qualcosa”; Elsa Morante: “Sarò stata sfortunata, ma non ho mai conosciuto una donna veramente intelligente. Le donne pensano solo a se stesse e alle loro faccende private, scimmiottano l’uomo, ed è un segno della loro stupidità voler essere come i maschi: spregiano le loro grandi qualità femminili diventando spregevoli”.

Valutazioni decisamente risentite e sprezzanti erano rivolte al mondo degli intellettuali, degli accademici, dell’editoria. “La figura del critico autorevole, ‘infallibile’, del critico padre, è in estinzione. Ora i critici sono più vicini, più simili agli scrittori, meno distaccati e forse più soggetti a infatuazioni e cecità” (Ginzburg); “Ma cosa vuole che creda nell’immortalità letteraria! Non vede che stiamo andando verso la distruzione dell’intero universo?” (Morante); “Oggi scrivere non basta più. Uno scrittore per prima cosa deve sapersi promuovere da solo, darsi d’attorno… Autori e critici che una volta erano considerati seri, oggi non si vergognano ad avallare sotto prodotti letterari ignorando opere migliori” (Bonanni); “Si perde del tempo prezioso a leggere quanto oggi gli editori sfornano. I classici dobbiamo leggere. E rileggere” (Masino).

Molte di loro avevano avuto compagni importanti: Anna Banti era la moglie del critico d’arte Roberto Longhi, Maria Bellonci del giornalista Goffredo Bellonci, Fausta Cialente del compositore Enrico Terni, Paola Masino dello scrittore Massimo Bontempelli, Lalla Romano del banchiere Innocenzo Monti, Elsa Morante di Alberto Moravia. In generale, tuttavia, non parlavano con entusiasmo della loro vita di coppia, essendosi sentite spesso trascurate, o non prese nella dovuta considerazione come scrittrici nella stretta cerchia familiare.

Colpisce l’estrema saggezza di alcune frasi lapidarie di queste anziane scrittrici. Lalla Romano affermava: “Vivere con passione e raccontare la vita con distacco… Bisognerebbe coltivare l’indifferenza rispetto al rumore del mondo, alle chiacchiere, ai giudizi sbagliati. Il distacco dalla vanità e dalla compiacenza”, e Alba de Céspedes: “Il grande segreto della vita è eliminare. Proprio così: eliminare tante cose inutili, quelle che ci fanno perdere tempo. Bisogna avere la forza di dire di no, se si vuole riuscire in qualche cosa”, Anna Maria Ortese, alle cui riflessioni è concesso lo spazio più ampio nel libro, condensava con saggezza antica e acuta sensibilità la responsabilità morale che ogni essere umano dovrebbe provare nei confronti di qualsiasi elemento del creato: animali, vegetali, aria, acqua, rendendo continuamente grazie alla bellezza dell’universo, e rifiutando la violenza, l’inganno, la corruzione: “Questo vivere è cosa sovrumana… Tutto respira e tutto ha diritto di respirare”.

Sandra Patrignani, riproponendo dopo quarant’anni queste testimonianze di vita, ci ha permesso di incontrare non solo eccezionali signore della scrittura, ma anche maestre del pensiero: un invito pressante a riscoprirle nelle pagine straordinarie che ci hanno lasciato.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 5 aprile 2022

 

RECENSIONI

PETRUZZELLI

PINO PETRUZZELLI, L’ULTIMA NOTTE DI DIETRICH BONHOEFFER – ARES, MILANO 2022

 Il pastore luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) trascorre l’ultima notte della sua breve esistenza nel lager di Flossenbürg, in attesa di venire giustiziato per aver partecipato al fallito attentato contro Hitler, nell’operazione Walchiria. A raccontare le tragiche ore che lo separano dall’esecuzione è Pino Petruzzelli (Brindisi,1962), drammaturgo, regista e attore, fondatore – insieme a Paola Piacentini – del Centro Teatro Ipotesi di Genova; lo fa recuperando elementi biografici, itinerari ideologici e percorsi di fede del protagonista, con la volontà di renderne un ritratto psicologico e morale, sullo sfondo delle emozioni vissute nei drammatici momenti che precedono la sua impiccagione.

Si tratta di un monologo in cui Dietrich parla a se stesso e a Dio, lasciando che la paura, lo sconforto, la tentazione di una resa, affiorino alla sua mente e alle sua labbra insieme alla supplica. L’impianto della narrazione è volutamente teatrale, quasi che l’autore abbia progettato una futura rappresentazione sulla scena: si svolge infatti per quadri, scanditi in sei ore, dall’una di notte del 9 aprile 1945 fino all’alba, quando i carcerieri verranno a prelevare il prigioniero per condurlo al patibolo. E ogni atto, privo di azione e voci diverse, rievoca un passaggio dell’esistenza di Dietrich, intervallando le illuminazioni della memoria con brani evangelici, preghiere, poesie.

La prima, fondamentale e affettuosa ricostruzione, è quella dell’ambiente familiare, con la numerosa famiglia nell’elegante villa di Bratislava, il padre illustre psichiatra, la madre premurosa e attenta educatrice degli otto figli, l’amorevole ma austera formazione culturale e cristiana impartita ai ragazzi: musica, libri, rispetto per la natura, e soprattutto un costante impegno a vivere con dignità il proprio ruolo di cittadini democratici. I ricordi del fratello Walter ucciso da una bomba sul fronte durante la prima guerra mondiale, degli appassionati studi di teologia, dei seminari di qualificazione in Europa e in America, e quindi del servizio pastorale rivolto a soccorrere la sofferenza dei più poveri, lottando contro le ingiustizie sociali e contro il razzismo verso neri ed ebrei, si susseguono limpidi e nostalgici. Bonhoeffer ripercorre, in un puntuale esame di coscienza, i momenti che l’hanno portato ad assumersi la responsabilità convinta e decisa di opposizione al nazismo: gli articoli giornalistici, le trasmissioni radiofoniche, le omelie dal pulpito, i rapporti sempre più stretti con la resistenza europea. Gli scrupoli di coscienza che lo avevano tormentato negli ultimi anni riguardavano ovviamente la possibilità di conciliare la propria fede in Cristo con la decisione di eliminare Hitler, partecipando a un complotto pianificato per rovesciare la dittatura, all’interno dei servizi segreti dell’Abwehr. Messo di fronte al silenzio complice del luteranesimo tedesco se ne era allontanato con disgusto, aderendo alla Chiesa Confessante e scegliendo la lotta clandestina e lo spionaggio. L’arresto avvenuto nel 1943, l’internamento dapprima nel carcere di Tegel, quindi nel lager di Flossenbürg, avevano segnato il momento di più profonda depressione, non solo per la nostalgia di casa, della fidanzata diciannovenne Maria, e per la consapevolezza dell’inevitabile condanna, ma soprattutto per l’impossibilità di continuare a combattere, impedito com’era ad agire, chiuso in una cella buia di sette piedi per tre.

Nell’attesa della morte, l’uomo di Dio si appella alla fede, con i versi toccanti delle poesie che verranno pubblicate postume nel suo libro più famoso, Resistenza e resa: “Signore, povero tu fosti / e come me prigioniero e abbandonato, / degli uomini conosci ogni patimento, / ti sento accanto in questa solitudine. / Non mi dimentichi, mi cerchi, / ti riconosco e a te mi rivolgo, / donami la fede / che dalla disperazione salva”, “Quando un profondo silenzio ci avvolge, / facci udire il suono pieno del mondo”, “Non le sopporto più queste prigioni buie. / Sono malato come un uccello in gabbia. / Ho fame di colori, di fiori, di canti d’uccelli. / Ho sete di parole buone, di compagnia / e sono anche stanco e vuoto nel pregare. / Sono solo pronto a prendere congedo da tutto”. Il congedo dal mondo avvenne per Dietrich Bonhoeffer nelle prime ore del mattino del 9 aprile 1945: secondo le testimonianze raccolte, fu affrontato con dignità, coraggio e fiduciosa speranza nella risurrezione promessa dal Vangelo.

© Riproduzione riservata              11 aprile 2022

RECENSIONI

PICCA

AURELIO PICCA, ARSENALE DI ROMA DISTRUTTA – EINAUDI, TORINO 2018

«Quando la vidi non sapevo fosse Roma… La luce del mattino timbrava ogni oggetto. Anche l’asfalto era una pista. Ma nessuna macchina o moto la percorreva. Il cielo, molto alto, sono sicuro che aveva abbandonato con gentilezza l’alba e andava a rincorrere il sole di giugno». È l’avvio, poeticissimo, dell’ultimo romanzo di Aurelio Picca (Roma 1957), Arsenale di Roma distrutta, in cui l’autore narra di un bambino treenne che, scendendo da un autobus sulla via Appia insieme alla tata, ha la sua prima fatale e prodigiosa visione della capitale. Da qui nasce il suo rapporto di passione e dipendenza viscerale con la città, durato l’intera esistenza. Roma dai mille attributi: a testa alta, spaccona, paracula, livida, gialla, nera e nera, macera, frollata, femminona o meretrice o transessuale, elettrica e metallica, feroce e cadaverica. Metropoli e suburbio, in cui il protagonista ripercorre gli anni tronfi e trionfanti della sua infanzia e giovinezza, attraversati da personaggi pubblici e privati mai banali, mai comparse, sempre prepotentemente incardinati nella loro provocatoria sfida al decoro borghese, al conformismo, all’acquiescenza.

Una Roma violenta e viva, che nei luoghi deputati dello sport «sapeva di tabacco, di cessi, di segatura umida, di piscio pieno di emazie», di botte tra tifoserie contrarie, di nomi urlati negli stadi e nelle palestre, nei campetti di calcio e nei bar col biliardo (Giorgio Chinaglia, Re Cecconi, Nino Benvenuti). Che negli ospedali vedeva sfilare una dolorosa umanità proletaria, rachitica e rassegnata. Che si nutriva di musica popolare (Franco Califano, Antonello Venditti, Riccardo Fogli) o prendeva d’assalto i primi concerti rock, e si divertiva con i film di Franchi e Ingrassia. Nel passato di «quando Roma era Roma», e non ancora quella odierna che cresce e muore assediata da burocrazia e arrivismo, Aurelio Picca indaga le facce dei «macellari», delle portinaie e dei pescivendoli del mercato, dei «pederasti che fumavano col bocchino», dei papponi e dei pizzicagnoli, delle «signoracce con le unghie rosse mangiucchiate, la tinta fatta in cucina, il rossetto sbavato». Ne celebra criminali e artisti, che «sono una cosa sola. Feroci, spietati, nudi, estremi, senza paura, pronti a morire per cercare l’assoluto…Uccidevano perché contro il mondo. Scrivevano e dipingevano per lo stesso motivo». Gli artisti di allora si chiamavano Pasolini, Schifano, Angeli, Festa. I malavitosi erano armati di bombe a mano, fucili a canne mozze e mitra; erano rapinatori, terroristi, sequestratori, assassini, stupratori: la banda della Magliana, il clan dei Marsigliesi, i Cimino, Laudovino De Santis. «Adesso Roma è piena di criminali in pantofole, inciviliti: tipi che, se devono fare il lavoro sporco, lo fanno fare addirittura ai politici. Sono identici ai preti pedofili».

Città plebea e pagana, coloratissima e vociante di giorno; minacciosa, tossica e blasfema di notte. L’autore ne rimpiange i nights, le discoteche dall’«atmosfera di carne cotta e solitudine», le gare rocambolesche con le auto, gli eccessi fisici e comportamentali. «Roma ha bisogno dell’orgoglio, delle sfide, di fasti cesarei e papali. Qui bisogna riprendere a sfottere il Mondo». Picca, che tra diario e leggenda ha sempre spavaldamente esibito la sua vita spericolata, le sue amicizie sbandate, la sensualità più trasgressiva e azzardate dipendenze, in una continua sfida al perbenismo, in questo romanzo alterna sapientemente il freddo resoconto cronachistico a termini coloriti, dialettali e addirittura triviali, il gusto per il macabro ai riferimenti mitologici, il lirismo descrittivo all’imprecazione, l’autobiografia nostalgica allo scherno più arrogante, offrendoci una singolare rassegna di personaggi insoliti. L’adolescente Lilly timorosa e vogliosa di perdere la verginità, la novizia pentita e transfuga, due signorine straniere di facili costumi e languide carezze, il sor Paolo grossolano d’animo e di corpo. Figure ai margini, non marginali, di una Roma carnale, arcana e gaglioffa.

 

© Riproduzione riservata                   «Il Pickwick», 12 luglio 2018

RECENSIONI

PICCINI

DANIELE PICCINI, INIZIO FINE – CROCETTI, MILANO 2013

Il titolo di questa raccolta poetica di Daniele Piccini (Città di Castello, 1972) ben riassume il tema unificante delle varie sezioni: una riflessione pacata, malinconica, di meditativa interrogazione sul significato dell’esistenza, nel suo sorgere e nel suo finire. La morte, quindi, «Solo la morte le contiene tutte / le infinite varianti delle storie», «Pensa: occuparsi solo della fine, / non ingannare o ingannarsi di dare / inizio ad altro che si finga nuovo», «Dopo la morte la vita è un immenso/ geroglifico opaco traversato/ da segni incomprensibili». Morte osservata in un cimitero di campagna o attraverso le finestre di un ospedale periferico, morte incomprensibile e sofferta di una persona amata («ma la morte che toglie via il più caro / è come un buco nella tela, o altro / che si può dire / così: niente è più uguale… // Niente è più uguale, il mondo / pullulante / non sarà più lo stesso senza quello / che non ha avuto il tempo / di darti un solo abbraccio andando via»): ma anche la constatazione della «vanitas vanitatum», del transeunte a cui nulla si sottrae («che cosa può durare? //… il fiore non fiorisce che è già gelo»). A questo destino di consunzione, di annullamento a cui non sfuggono nemmeno gli animali («Il non sapere nulla della morte / non salva gli animali dalla morte»), nemmeno le stelle e l’universo tutto («L’enorme solitudine delle stelle / somiglia forse a quella / d’uomini alla deriva», «stelle morte / che bussano alla porta. / Ascoltale, perdonale»), il poeta vorrebbe contrapporre, come unica ipotesi di salvezza, un ritorno all’origine, quasi uno scorporamento che ci disincarni dalla corruttibilità della materia: «Sempre la scelta è fra venire a riva / e perdersi nel gorgo, / rinunciare, non essere mai nati», «Deve sempre andare avanti lo show? / Fermatevi pianeti, / cessate lune e mondi di ruotare / davanti alla morte della creatura». Rinunciare, ritornare, sono termini ricorrenti in questi versi; l’aspirazione a una libertà che sollevi dal peso vincolante della riproduzione, della nascita e del disfacimento (l’eco dei Four Quartets eliotiani: “In my end is my beginning”…): «Un soffio nel creato, senza centro, / che non leghi più altri alla catena… // una bolla senza più genitura / che le accolga tutte quante le cose/ orfane e smenticate, che le medichi…». Allora l’espediente retorico più utilizzato a ribadire il proprio convincimento, nel desiderio forse inconscio di renderlo più sicuro e incontrovertibile, è la ripetizione: «nel sangue-con il sangue», «era scritto, scritto in cielo», «Guàrdali, guàrdali che si perdono!», «Fa’ che chiuda, fa’ che chiuda le mani». Daniele Piccini, critico letterario e filologo, studioso di poesia medievale e contemporanea, propone un uso consapevole e originale della tradizione, in particolare nella sezione più convincente del volume, Cellule, in cui una trentina di sonetti mascherati, privi di rime, ma aperti tutti da melodiosi endecasillabi, ripercorrono con raffinata eleganza e sospesa delicatezza i temi dell’intera raccolta, un dialogo assorto con la natura e il divino, con la scrittura e il pensiero, il corpo e lo spirito, l’inizio e la fine: «un andare verso, un terminare».

 

«Incroci» n.29, giugno 2014