DAVIDE CERULLO, L’ORRORE E LA BELLEZZA –  ANIMAMUNDI, OTRANTO 2021

L’orrore e la bellezza è il titolo che Davide Cerullo ha voluto dare al suo ultimo libro, storia della sua vita e del paese in cui è nato e cresciuto: Scampia. L’orrore è quello conosciuto dalla nascita, in un ambiente violento e degradato che l’ha tragicamente condizionato, costringendolo a scelte sbagliate, allo spaccio e poi al carcere; la bellezza (“un altrove possibile”) è stata determinata invece dalla sua rinascita esistenziale e culturale, ostinatamente perseguita, fino al raggiungimento del ruolo oggi riconosciutogli di scrittore, educatore, fotografo.

Al riscatto personale è seguito, e tuttora sta attuandosi, anche quello di Scampia, quartiere di quarantamila abitanti edificato a metà ’900 nell’area a nord di Napoli, salito agli onori delle cronache nell’ultimo ventennio soprattutto perché Roberto Saviano vi ha ambientato la sua opera più internazionalmente famosa, Gomorra. Nella breve nota introduttiva, Erri De Luca definisce Cerullo “il cronista che ha fatto di Scampia un esperimento valoroso, contribuendo alla trasformazione del suo luogo in simbolo”. Autore di diversi libri, pubblicati in Italia e in Francia, Davide a Scampia ha creato l’Albero delle Storie, un’associazione di promozione sociale che si occupa di progetti educativi.

L’autobiografia si sofferma in modo particolare sulla sua infanzia, a partire dalla nascita, avvenuta il 13 agosto 1974 in una famiglia numerosa e indigente: “Casa mia era un casolare di campagna fatto di tufo, pietra vulcanica, come ogni cosa da quelle parti. Aveva due camere, un bagno minuscolo, un cucinotto e due finestre. La mia famiglia era la più numerosa del quartiere: mio padre, mia madre, sei figlie femmine e otto figli maschi. Sedici persone in una casa di sole due stanze e senza neanche il riscaldamento”. Il padre-padrone, un pecoraio violento dallo “sguardo da squalo”, era talmente odiato dai figli al punto da indurli a sparargli, nel fallito tentativo di ucciderlo. Picchiava e tradiva la mamma, che doveva arrangiarsi per il mantenimento dei bambini, lavorando come donna delle pulizie di giorno e come sarta di notte. Una famiglia priva di attenzioni e di affetto (“I miei continuavano la loro solita relazione, sempre litigi, disaccordi, mazzate e infelicità… Sono nato da famiglie salate, scarse in quanto a tenerezza”), quindi il lavoro minorile nei campi come pastore, il trasferimento dal casolare di Mianella alle Vele di Secondigliano, ulteriori traslochi, il ricovero in un istituto: e poi il rifiuto scolastico, il marchio di disadattato e irrecuperabile. “Fu così che la strada diventò scuola e io iniziai a sognare le pistole, la fame di ammirazione, il potere, il denaro, le marche, la voglia di essere qualcuno… La sola cosa che mi faceva sentire vivo, e in cui mi identificavo, era il senso di appartenenza che assorbivo   dalla vita di strada, dagli esempi di persone adulte, criminali,  al cui fascino di onnipotenza non riuscivo a sfuggire: mi piaceva proprio, ne ero pienamente catturato, sedotto”.

La strada come maestra, i camorristi della zona (il Marsigliese, il Topo, il Barone, Davidone, lo Zio, il Milionario), cocainomani e killer spietati come eroi, il miraggio del guadagno facile, e ’a’rraggia, tanta rabbia per le ingiustizie patite, portano il protagonista a collaborare con la malavita già a tredici anni, nascondendo armi per il clan e diventando corriere della droga. A quattordici anni guadagna novecentomila lire al giorno, a sedici si compra una moto seicento di cilindrata: allarga la rete di spaccio al centro di Napoli, si occupa di lotto clandestino e del recupero crediti, spara ed è ferito gravemente alle gambe in un agguato con una banda rivale.

Tutta la famiglia, abbandonata al proprio destino dal padre eclissatosi in un’altra regione, viene coinvolta in traffici illeciti: la prima a essere arrestata è la madre, quindi fratelli e sorelle dipendenti dall’eroina. “Morire non ci faceva paura, come non ce ne faceva nep pure la galera, perché quello che temevamo davvero era la   miseria”. La gente di Scampia li protegge e difende, vede nella camorra l’unica soluzione per sopravvivere, si genuflette davanti ai boss “in segno di ringraziamento e di riconoscenza”.

Davide viene arrestato due volte, e a diciotto anni è condannato al carcere di Poggioreale: “Cella, bagno, cucina, passeggio, colloqui, tristezza, tristezza”. In cella ha una specie di rivelazione, leggendo negli Atti degli Apostoli il nome del re d’Israele uguale al suo, e il versetto “Dio  lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte,  perché non era possibile che questa lo tenesse in suo pote re”.

Uscito di prigione ventenne, riprende i rapporti con la malavita del suo quartiere: “Con le Vele, per storia mia personale, ho un rapporto particolare, non è odio, non è amore. È radice. Chiedete a un albero se ama o odia le sue radici”. Viene però avvicinato anche da personaggi nuovi, che gli lasciano immaginare prospettive diverse per il futuro: un pittore, una suora, una ragazza che lo ama dall’adolescenza, un frate camaldolese. Qualcuno lo convince a recidere i legami con il passato, a lasciare la Campania, trasferendosi in una casa famiglia al nord. Il 25 febbraio 1996 prende il treno per Modena: “La cosa più importante che ho fatto      nella mia vita è stata quella di trasformare il peggio di me nel meglio di me”.

Le ultime quaranta pagine del volume sono dedicate a una galleria fotografica che rimane forse il commento migliore alla descrizione dell’ambiente e delle vicende che hanno fatto di Davide Cerullo un uomo responsabile e impegnato.

In una recente intervista ha dichiarato: “Provo con quella che è la mia conoscenza, la mia esperienza, ad abitare il territorio di Scampia praticando la strada e tessendo relazioni. Lo scrivo e ne parlo tutti i giorni, ma è soprattutto nel concreto e nella pratica quotidiana, pur con tutto il carico dei miei limiti e la complessità dei problemi di un territorio con molte zone depressive, che mi sento di rappresentare una Scampia vera, che si trova proprio a un livello diverso ormai rispetto alla narrazione di Roberto Saviano. Io a Scampia voglio la bellezza, la poesia, il teatro, le librerie. Voglio un ambiente dove si fa musica, si sta insieme in un modo diverso, voglio creare dei punti di ritrovo per i giovani. Scampia è un serbatoio anche di creatività. Ci sono giovani che vogliono fare musica… Per me la società civile è questa, sono realtà come il Centro Hurtado, il Mammut, Gridas e poi L’Albero delle storie, che ho fondato, che è un atto rivoluzionario e di magia totale. Ci sono gli animali, il bosco, la scuola all’aperto, il gioco e funziona. Però non riceve alcun sostegno. Perché nessuno qui vuole il cambiamento… Le istituzioni? La polizia cerca droga, come se il problema qui fosse solo la droga. La politica non c’è, non c’è una politica che voglia realizzare una comunità, il fare insieme. Perché invece di riempirci la bocca con la parola legalità non parliamo di lavoro, di investimenti, di creare qualcosa? Denunciare, fare repressione senza fare prevenzione è una perdita di tempo… Scampia può essere un serbatoio di consenso perché non ha la parola. La peggiore forma di oppressione è essere muto. Il problema è l’istruzione. Se non hai il sapere sei spacciato e automaticamente diventi un serbatoio di consenso per ciò che è negativo. D’altra parte chi invece ha il potere del sapere non lo usa per sostenere, ma per creare degli assistiti. Lo hanno fatto anche Sepe e la chiesa napoletana. Ma la chiesa ai poveri deve fare giustizia, non la carità…A volte ho la sensazione che quando si “campa” solo di denuncia del male, alla fine si voglia perpetuarlo, anche a spese di chi lo subisce. Oggi Scampia non ha bisogno di essere illuminata per le sue catastrofi, o salvata dai suoi traffici… Non si può pensare di continuare a offrire solamente un’immagine deformata di un territorio fragile, dando forza al fascinoso luogo comune per la divulgazione retorica e pubblicitaria del proprio nome”.

 

© Riproduzione riservata        «Il Pickwick», 4 dicembre 2021