UMBERTO CURI, PARLARE CON DIO. UN’INDAGINE TRA FILOSOFIA E TEOLOGIA

BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2024

 

In un passaggio del Crizia (107 c-d) Platone afferma che poiché non sappiamo nulla di preciso degli argomenti celesti e divini, ci riteniamo soddisfatti che vengano esposti anche con una piccola parte di verosimiglianza, accontentandoci “di un chiaroscuro indistinto e ingannevole”. Più di due mila anni dopo, Heidegger considera teologia e filosofia due scienze opposte, in quanto la prima si basa su una rivelazione indiscussa e indiscutibile, mentre la seconda si costituisce come ricerca e disquisizione delle basi dell’essere. La teologia afferma una verità, la filosofia ne mette in discussione i presupposti. Ma davvero esiste un solo modo di parlare di Dio, aderendo alle indicazioni della teologia, o se ne può trattare in maniera più complessa? Se lo chiede Umberto Curi, Professore emerito di Storia della Filosofia all’Università di Padova, nel suo volume più recente, Parlare con Dio, edito da Bollati Boringhieri.

A partire dalla ricostruzione della consegna delle Tavole della Legge da Yhwh a Mosè sul Sinai (un dialogo, e non un monologo!), l’autore commenta l’interpretazione tradizionale delle parole e dei silenzi intercorsi tra Dio e le creature, tenendo conto delle inesattezze delle varie traduzioni, dei fraintendimenti involontari o tendenziosi, dalle tesi manipolatorie determinate dai diversi culti religiosi. Nell’impossibilità di accedere alla definitiva verità del testo, “le dieci parole assomigliano più a coloro che le ricevono, piuttosto che a colui che le avrebbe pronunciate; ricalcano dunque i limiti di chi dovrebbe metterle in pratica, più che l’onnipotenza di chi le avrebbe originariamente formulate”.

Anche del libro di Giobbe si possono dare diverse letture. Il protagonista, “persona perfetta e retta, fedele a Dio e nemico del male” ma tormentato da sofferenze crudeli e immeritate, viene quasi sempre esibito come eroe della fede, simbolo di paziente e umile accettazione, mentre si ridimensiona la ribellione espressa dal suo grido di protesta e di accusa, che chiama in causa il Supremo come dispensatore di ingiustizie e dolori. La replica di Yhwh, che riduce l’uomo alla sua irrilevanza di fronte alla grandiosità del creato e all’incomprensibilità dei disegni divini, sancisce l’assoluta e ingiudicabile superiorità di Dio, mettendo a tacere la vittima, che proprio nell’atto finale di obbedienza si vedrà ricompensata dei mali patiti. Giobbe non parla di Dio, ma parla a Dio, spalancando il rapporto con il totalmente altro dall’essere umano. Nell’innovativa esegesi di Kierkegaard non viene ridotto a simbolo di rassegnazione (“Il Signore ha dato e il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”), ma va rivalutato proprio per la sua coraggiosa contesa con il Creatore, che preannuncia il messaggio cristiano, opposto alla logica retributiva tra colpa e pena insita nell’ortodossia religiosa giudaica, e invece foriero di un possibile superamento del dolore grazie alla misericordia divina.

Il silenzio con cui Giobbe mette fine alla sua protesta, è altro dal silenzio fedele e adempiente di Abramo, più di lui eroe della fede in quanto nella sua totale obbedienza, nella sua disposizione all’ascolto (“eccomi!”, ripetuto tre volte a un richiamo difficile da accettare), esprime l’accettazione totale di quello che non riesce a comprendere: la fede inizia là dove finisce la ragione, “la fede altro non è che credere nell’assurdo, accettare il paradosso, convivere con l’angoscia, subire la persecuzione”. Fede come timore e tremore, secondo Kierkegaard; secondo San Paolo “prova di cose che non si vedono”. Con i due personaggi veterotestamentarie di Giobbe e di Abramo si entra in una nuova teologia, più prossima a quella evangelica, in cui l’uomo si pone di fronte a Dio, gli parla e gli ubbidisce, pur senza riuscire a comprenderlo. Prefiguratori del Cristo, Giobbe e Abramo si muovono già nella disposizione etica peculiare del Nuovo Testamento.

La parola chiave, davvero rivoluzionaria, del Vangelo, diventa “misericordia”, mai contemplata dalla legge giudaica. Umberto Curi ne introduce il concetto commentando il brano delle Beatitudini riportato in Mt. 5, 3-12 e in Lc 6, 20-26, conosciuto come il “discorso della montagna” (quante montagne, simbolo di ascesi spirituale, nella Bibbia: Sinai, Or, Ermon, Carmelo, Libano, Tabor, Garizim, Sion, Getsemani, Golgota…). Generalmente considerato come l’antitesi neotestamentaria al Decalogo, espressione dell’etica cristiana più elevata rispetto al formalismo legalitario della morale veterotestamentaria, esso indica un rovesciamento di grande portata eversiva della gerarchia dei valori dominanti nella storia umana: mitezza contro violenza, umiltà contro superbia, sobrietà contro ricchezza, misericordia contro intransigenza. Gesù definisce beati coloro che sono agli antipodi di ciò che abitualmente viene stimato essere importante. Soprattutto beati sono i misericordiosi, che vengono ricompensati non con un premio futuro ma con il riconoscimento attuale della misericordia a loro destinata dal Signore: “Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia” (Mt 5,7).

Curi cita in particolare due episodi dei Vangeli in cui la misericordia esprime empatia, pietà e compassione per l’infelicità o gli errori dell’altro: la parabola del buon Samaritano (Lc 10,37) e la difesa dell’adultera (Gv 8, 1-11). Il buon Samaritano è un “fuori casta”, un uomo senza identità, un pagano che soccorre il viandante ferito trovato per strada, mentre prima di lui un sacerdote e un levita gli avevano negato qualsiasi assistenza. Il discorso che Gesù rivolge alla donna adultera (“neppure io ti condanno”) annulla l’ineludibile corrispondenza veterotestamentaria tra colpa e pena, opponendo al castigo la sovrabbondanza della misericordia divina.

Non sarà irrilevante notare come l’autore citi, a suffragare le sue tesi, testimonianze filosofiche e letterarie che spaziano dai presocratici ai classici greci e latini fino a Heidegger, da Sant’Agostino a Derrida, da Kierkegaard a Cacciari, ripercorrendo attraverso un’esegesi approfondita e sapiente tutte le Sacre Scritture, a partire da Genesi per arrivare all’Apocalisse.

La riflessione sul tempo, dalle accezioni più antiche (aión, chrónos, kairós per i greci) si modifica sostanzialmente con il cristianesimo: non più eternità, divenire, occasione, bensì compimento, irriducibile alle categorie del prima e del dopo. Tempo come ciò che già è, dispiegato e manifesto dinanzi a noi, presente che si fa storia. Per il cristiano, responsabilità del restare in attesa che si manifesti ciò che era nascosto: apocalissi significa appunto rivelazione, svelamento.

Negli ultimi due capitoli del volume, Umberto Curi si misura con le domande fondamentali dell’esistenza, indagando il perché del dolore, dell’ingiustizia, del male, attraverso la figura di Cristo, che ha rivoluzionato non solo il concetto di tempo, dandogli una prospettiva di riscatto, ma anche quella dei singoli destini mortali, aprendo loro la possibilità di spezzare, attraverso il perdono e la misericordia, la condizione fallimentare della colpa e della condanna. Le pagine dedicate alla Passione di Gesù nel Getsemani affrontano la sua sofferenza di creatura, la paura e il dubbio, la delusione dell’abbandono e del tradimento, l’estrema solitudine: aspetti angosciosi di un umanissimo tormento che la parola non riesce completamente a rendere, nella sua univocità e asciuttezza. Più duttili ed espressive risultano le arti: pittura, musica, cinema.

Utilizzando le proprie competenze di studioso non solo di filosofia, ma anche di estetica, Curi compie un interessante excursus sulle varie modalità con cui le arti hanno affrontato il mistero della Croce e della morte del Deus patibilis che soffre, ma nella sofferenza assume su di sé il peccato del mondo e lo espia, salvandolo ed elevandolo nell’infinito celeste. Vengono citati quindi “Il compianto sul Cristo morto” di Giotto, che – al pari degli altri capolavori di Botticelli, Perugino, Signorelli, Mantegna sullo stesso tema – non trova alcuna rispondenza nella narrazione evangelica. Tra i film, l’autore commenta criticamente quelli di Mel Gibson e di Pasolini, entrambi poco fedeli all’austera e composta descrizione degli evangelisti. Solo nella Passione secondo Matteo di Bach, Curi riesce a trovare un intenso afflato religioso che rimanda alla trascendenza dell’evento più irrappresentabile del Nuovo Testamento.

A conclusione dell’indagine filosofica e teologica proposta dal volume, Curi ritorna sul quesito iniziale: “È possibile rappresentare Dio senza rappresentarlo? È possibile far luogo all’eccedenza senza sanare l’eccedenza riportandola a normalità? Si può dire ciò che per definizione è l’indicibile?”

La domanda su quale sia il rapporto fra fede e ragione, tra credenti e non credenti, e se sia possibile un dialogo paritario tra posizioni tanto differenti, trova forse una risposta nell’esigenza di cercare la verità in maniera aperta e problematica, senza illudersi di possederla per sempre. Rimane il silenzio, come possibilità o scelta estrema per avvicinarsi a Dio, disposizione all’ascolto in attesa che Lui parli: “Nella triangolazione fra il silenzio come ascolto, il tempo come cancellazione del divenire e l’ascesi come esercizio, si condensa il monito a ricercare la verità nel ritorno alla propria interiorità”.

 

© Riproduzione riservata                     «Gli Stati Generali», 2 luglio 2024