SILVIO D’ARZO, CASA D’ALTRI – GARZANTI, MILANO 2023
In questi primi quattro mesi del 2023, sei case editrici italiane hanno ripubblicato Casa d’altri di Silvio D’Arzo: Feltrinelli, Rea, StreetLab, Garzanti, Alter Ego, Gilgamesh. Come mai tanto interesse per un testo di settant’anni fa? Perché si tratta di uno dei racconti più belli del nostro Novecento, definito da Montale “perfetto”, sospeso tra liricità e costruzione romanzesca, e ancora oggi apprezzato dai critici per lo stile sobrio e curato, e perché pur nell’esilità della trama riesce a tratteggiare con maestria lo sfondo naturale in cui si muovono sia i due protagonisti sia la comunità circostante.
Silvio D’Arzo (Reggio Emilia 1920-1952), pseudonimo di Ezio Comparoni, pubblicò in vita un romanzo e molti racconti su riviste, ma non fece in tempo a vedere stampato questo suo capolavoro, il cui primo nucleo compositivo risale al 1948. Rifiutato da Bompiani, Einaudi, Vallecchi, fu infine accettato da Sansoni nel 1953, grazie all’interessamento di Giorgio Bassani.
Ambientato nel paesino di Montelice sull’Appennino emiliano (poche case sparse sulle pendici della montagna, collegate da un’unica strada impervia che si arrampica tra i boschi e un torrente), il racconto si svolge in un periodo indeterminato del secondo dopoguerra, mantenendo però tracce di usanze molto più arcaiche. D’Arzo è attento a rendere l’atmosfera cupa che domina gli scarsi eventi narrati, utilizzando i fenomeni atmosferici e i colori di cui si riveste la natura: “Tutto il giorno era piovuto e piovuto come capita solo da noi… I fossi erano già grigi di acqua, il canale era in piena, dalle gronde rotte l’acqua cadeva a gomitoli, e non una gallina od un cane o una talpa dalla piazzetta fino in fondo alla valle… L’aria cominciava a farsi color neve sporca e le case all’intorno erano più livide e fredde del sasso. Per le strade non c’era nessuno… Adesso era uscita la luna: ma c’era così freddo all’intorno che pareva rabbrividire anche lei… L’aria intorno era viola, e viola i sentieri e le erbe dei pascoli e i calanchi e le creste dei monti…anche i sassi a quell’ora eran tristi, e l’erba, ormai di un color quasi viola, era ancora più triste… I calanchi ed i boschi e i sentieri ed i prati dei pascoli si fanno color ruggine vecchia, e poi viola, e poi blu…”. Le connotazioni paesaggistiche sono sparse simmetricamente e ripetute nelle pagine, così come succede con alcune cadenze dei dialoghi e dei soliloqui, e come le due scene di funerali che aprono e chiudono il testo.
Pioggia, neve, aria e acque torbide. In questo panorama avvilito e deprimente si muove la figura massiccia del protagonista, un parroco sessantenne ormai del tutto assimilato al territorio, che trascina le sue giornate e i suoi uffici tra riti stanchi e una fede vacillante.
In tale modo ne parla a un giovane sacerdote venuto a fargli visita, predicendogli a ragione un futuro di rassegnazione simile al suo: “«E che cosa succede?» mi chiese unicamente per educazione. «Niente, v’ho detto. Non succede niente di niente», cercai di rifarmi. «Solo che nevica e piove. Nevica e piove e niente altro… E la gente – conclusi – se ne sta giù nelle stalle a guardare la pioggia e la neve. Come i muli e le capre»”.
Muli, capre, cani, mucche. Uomini che portano le bestie al pascolo la mattina e rientrano tardi la sera, donne rinsecchite che lavorano nelle stalle o vanno a raccogliere la legna, ragazzini che si divertono facendo i dispetti fuori dalla chiesa. Ecco che però qualcosa accade, improvvisamente. Il parroco aveva osservato in più occasioni una vecchia lavare i panni nel canale: “E lei sempre laggiù, china sopra i lastroni di pietra. Affondava nell’acqua gli stracci, li torceva, sbatteva e via ancora. E senza fretta o lentezza. Così: e senza mai alzare la testa”. Una sera l’anziana lavandaia si presenta in canonica, e gli pone timidamente, quasi vergognandosi, una domanda sulla possibilità che la Chiesa ammetta e perdoni, in casi eccezionali, una grave colpa, un peccato mortale, come ad esempio la rottura del matrimonio. Il prete intuisce che la richiesta della donna nasconde una diversa verità, forse una innominabile sofferenza, ma non riesce a scalfire ulteriormente il riserbo di lei.
Per mesi l’incontro tra i due non si ripete. Il sacerdote continua a vedere l’anziana lavare i panni nell’acqua gelida, sempre più affaticata e scontrosa, e cerca di informarsi su chi sia. Scopre che si chiama Zelinda Icci e, arrivata da poco in paese, vive con la sua capra in una baracca fuori dall’abitato, come “un uccello sbrancato”. Tenta ancora di avvicinarla, confessando però a sé stesso la propria inadeguatezza davanti al dolore altrui: “Ormai io ero un prete da sagre: ero un prete da sagre e nient’altro… Sagre, olii santi, un matrimonio alla buona, ecco il mio pane oramai… E pensai a quel che invece ero a vent’anni, quando leggevo di tutto, e nel Seminario per giunta mi chiamavano il Doctor Ironicus”.
La vecchia si fa viva una seconda volta, portando in parrocchia una lettera che subito dopo torna a ritirare, pentita. A questo punto una spiegazione diventa più urgente e necessaria, e il suo antagonista, reso inquieto dallo strano comportamento di lei, la affronta, esigendo un chiarimento.
Non rivelerò il segreto che l’anziana lavandaia confida all’uomo di Dio, ma invito chi mi legge a trovarlo nelle pagine di Silvio D’Arzo, il quale merita almeno il nostro ricordo, perché se non avesse avuto la sfortuna (tra tante altre) di morire a trentadue anni di leucemia, sarebbe probabilmente diventato uno dei nostri maggiori scrittori novecenteschi. Dirò solo che il titolo Casa d’altri, adombra l’inappartenenza, l’estraneità di entrambi i protagonisti alla vita e alla Chiesa, precari inquilini di un’esistenza appena tollerata, come ribadisce la frase conclusiva pronunciata dal parroco: “Allora mi vien sempre di più da pensare ch’è ormai ora di preparare le valige per me e senza chiasso partir verso casa. Credo d’avere anche il biglietto. Tutto questo è piuttosto monotono, no?”
© Riproduzione riservata «Gli Stati Generali», 19 aprile 2023