PASQUALE DI PALMO, TRITTICO DEL DISTACCO – PASSIGLI, FIRENZE 2015

Con la prefazione di Giancarlo Pontiggia e un’intensa postfazione di Maurizio Casagrande, Pasquale Di Palmo (Venezia, 1958) ha pubblicato nel 2015 Trittico del distacco, volume di versi che adombra già nel titolo una dichiarazione programmatica. L’esergo iniziale tratto da Sant’Agostino (“Quale uomo farà intendere ciò ad un altro uomo? Quale angelo a un angelo? Quale angelo a un uomo?) esemplifica ulteriormente il messaggio sotteso all’intera raccolta.

Grava su tutte le creature una condanna ingiustificabile, irreparabile, inconsolabile: l’inevitabilità del dolore, il suo misterioso perché, la sua possibile/impossibile redenzione. Soffriamo per una perdita, una malattia, un’immeritata sopraffazione, un’ingiustizia patita, un distacco. Appunto al distacco Di Palmo dedica il suo trittico poetico, mantenendo nella tripartizione del testo un’allusione alla sacralità espressa dall’iconografia cristiana. Nelle tre sezioni della raccolta la separazione definitiva da chi si amava (il padre – assistito in un Centro Alzheimer -; amici, parenti, case e luoghi perduti; l’infanzia e la giovinezza trascorse e non più recuperabili), è tuttavia anche allontanamento dalla pena, che osservata empaticamente negli altri, può venire infine superata e vinta, nella caparbia determinazione di continuare a vivere comunque.

Il primo gruppo di poesie, raggruppate sotto il nome di Mirco, cugino morto suicida perché incapace di uniformarsi alle aspettative della società, hanno come protagonisti gli ultimi, i vinti, i disadattati, per cui “l’esistenza ridotta / a una semplice opzione” non ha alternative se non il puro perpetuarsi in una livida elementarità di gesti e parole. Sono i gruppetti di ragazzi down spaesati che “si inebriano per un gelato, / piangono per un nonnulla”, oppure è il senzatetto sdentato e claudicante che importuna i passanti chiedendo “sinque euro per un panin”, o i bambini che giocano a calcio sul cemento in un torrido pomeriggio estivo, o ancora il geniale artista incompreso che regala le sue sculture alla città indifferente. Sullo sfondo, negozi semideserti, un ospedale, un cantiere in disuso, un canale, giardini frequentati da clandestini e tossicomani: la periferia immobile in cui è cresciuto il poeta. Mestre, Marghera, dove “il cielo ha un colore schiacciato, di decomposta aringa”.

La terza sezione della raccolta, I panneggi della pietà, è riservata a una serie di brevi prose liriche modulate ancora sul tema della solidarietà e della compassione verso gli sconfitti, i senza storia cancellati dall’inventario del successo e del profitto economico. Il nonno paterno, da cui Pasquale Di Palmo ha ereditato il nome, morto giovane in guerra e riscoperto solo durante intimorite visite al cimitero; la foto della mamma diciottenne già incinta di lui primogenito; bottegucce artigiane nella cui penombra sopravvivevano pallidi scampoli di umanità; patetici emuli calcistici nei campetti di un oratorio; il compagno di scuola morto precocemente e salutato dagli amici in un malinconico funerale. Da loro, resi eterni nel loro nulla, il poeta impara “la felicità degli ebeti”: “stendersi in un prato, sedersi sulla panchina di un parco suburbano contro un cielo sereno”.

Ma è senz’altro la parte centrale del libro quella in cui vibra maggiormente un sentimento di tenera pietas, quando l’addio al padre ridotto a rudere silenzioso dalla demenza senile, trascina con sé il figlio “verso il fondo / verso il fondo / verso il fondo”. I quindici componimenti dedicati alla figura paterna, dialogo muto e tardivo con chi non può più ascoltare né rispondere, sono incastonati tra due poesie in dialetto veneto, primo codice comunicativo familiare, recuperato nel pudico abbraccio della fine. Il padre divenuto figlio, il figlio diventato padre si ritrovano nelle sale asettiche di un Centro Alzheimer, tra altri malati e infermiere premurose, condividendo impotenti una vita che si dimentica di essere vita: “Adesso ti xe un albero, papà, / un albero grando / sensa nome / dove le seleghete va a ripararse / quando ghe xe vento / e la vita se desmèntega de la vita”.

Il distacco, altre volte preannunciato nelle inevitabili incomprensioni esistenti in ogni rapporto filiale, diventa definitivo: tragico ma forse anche liberatorio, assoluzione da mancanze reciproche, e ritrovato affetto, ritrovata gratitudine.

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1 settembre 2021