EMILY DICKINSON, IL GIARDINO DELLA MENTE – LA VITA FELICE, MILANO 2017
Nell’empatica introduzione al volume, il curatore Silvio Raffo definisce Emily Dickinson «la più pura vestale della lirica metafisica d’Occidente», e insistendo sull’«esercizio ascetico», sull’«attitudine alla contemplazione, all’interiorità dello sguardo» della poetessa di Amherst, propone una scelta di versi focalizzati sull’illuminazione estatica, sul superamento del dato empirico nella visione di una verità trascendente e atemporale: «la gioia di sfiorire – / è per me sufficiente – / sfiorire io – svanire nel Divino / e morire per tutta la vita // fin dove l’occhio giunga – / anche avendo soltanto / l’infima sua attenzione».
Un’estrema umiltà, in Emily, che a trent’anni si recluse volontariamente nella propria stanza, vestendosi solo di bianco e limitando i propri rapporti sociali alla famiglia e a una fitta corrispondenza epistolare con pochi amici: l’umiltà di chi si sa creatura mortale, effimera, transitoria nella sua fisicità: «Fu la mia sola gloria – / lascia che / sia ricordata: / io appartenni a Te», «Ho paura di possedere un corpo – / ho paura di possedere un’anima – / profonda ma precaria proprietà, / possesso non richiesto», «Indifferente sono a ogni tortura – / la mia anima è libera. / Dietro questa mortale trama d’ossa / un’altra vi s’intreccia ben più forte». La stessa modestia che la convinse a tenere chiuse nel cassetto 1775 poesie, pubblicate solo dopo la sua morte dalla sorella Lavinia: una discrezione consapevole tuttavia della propria irriducibile unicità, dignità e forza: «Ostacolarmi non può la montagna – / non il mare – / Chi è il Baltico? – / Chi Cordillera?».
Alla ricchissima sensibilità interiore corrispose sempre in Emily Dickinson una «singolare capacità visiva… un’attenzione dello sguardo» rivolto non tanto alle persone e alle loro trascurabili vicende umane, quanto al paesaggio naturale, all’avvicendarsi delle stagioni, ai fiori e ai piccoli animali, messaggeri di bellezza e di gratuità felicità: «Ho un uccellino in Primavera / che per me sola canta», «Questa piccola rosa nessuno la conosce. / Potrebbe essere una pellegrina / se non l’avessi tolta ai suoi sentieri / e serbata per te», «Quanti fiori appassiscono nel bosco / e rovinano giù dalla collina / senza la grande gioia di sapere / che sono belli –», «L’Aria non ha dimora, né vicini / non orecchie, né porta / non timore d’estranei – / Aria felice!», «I graziosi inquilini dei boschi / da amica mi ricevono. // Più forte ridono i ruscelli quando arrivo – / più sbarazzine giocano le brezze; / perché il tuo argento mi annebbia la vista, / perché, giorno d’estate?».
Degli esseri umani sembrava interessarle soprattutto il momento del trapasso, la pace raggiunta nell’ immobilità eterna della morte, il transumanarsi in una spiritualità libera da ancoraggi terrestri: così dedicò splendidi versi al sonno «lieve e profondo» di una piccola compagna di scuola, e a una «massaia indolente» che giaceva immobile tra le margherite. Addirittura descrisse sé stessa nel dopo, in una premonizione del misterioso passaggio all’Infinità, sicura che «l’orrendo chiodo» non sarebbe stato per sempre e che «C’è un altro cielo, / sempre limpido e bello, / e c’è un altro rilucere di sole, / anche se è fitta, lì, l’oscurità»
«CriticaLetteraria», 10 giugno 2017