IVICA ÐIKIĆ, METODO SREBRENICA, BOTTEGA ERRANTE, UDINE 2020
Un romanzo-documentario, quello che Ivica Đikić (Tomislavgrad 1977), giornalista ed editore bosniaco, ha scritto nel 2016 per raccontare come è avvenuto l’eccidio di Srebrenica, e secondo quali modalità pratiche sono state uccise 8000 persone nell’arco di quattro giorni, dal 12 al 16 luglio 1995.
In quella tragica estate, Đikić si era appena iscritto alla facoltà di scienze politiche a Zagabria, e il genocidio operato dall’esercito serbo l’aveva solo sfiorato emotivamente: viveva imbozzolato nel dolore dopo quattro anni di guerra e inedia, la morte precoce del padre e la paura del futuro per la propria famiglia: “Si moriva, erano mancati alcuni nostri cugini, vicini di casa, amici, gente che conoscevamo. Le granate cadevano per la strada, potevo vedere da vicino corpi di morti sfigurati su cui volavano le mosche”. Srebenica si trovava a 400 km di distanza dalla sua città natale, nella Bosnia orientale, e solamente dieci anni dopo il massacro si era recato a visitarla, insieme a due colleghi. “La guerra restringe e sminuisce ogni cosa”, e il giovane reporter per molto tempo si era accontentato, come altri intellettuali e la maggior parte dell’opinione pubblica, delle versioni ufficiali fornite da vari governi, e dei resoconti confusi dei media internazionali. La responsabilità dell’eccidio veniva genericamente attribuita al generale Ratko Mladić e al presidente della Repubblica Serba Radovan Karadžić, ritenendo gli esecutori materiali semplice e oscura manovalanza.
In Metodo Srebrenica, Ivica Đikić ha ricostruito poi, sulla base di minuziose ricerche sul campo, “i procedimenti minimi ed elementari, davvero concreti, di tante persone in carne e ossa: dall’espressione sul viso delle vittime al momento dell’uccisione a quella di chi pronuncia l’ordine di uccidere, fino alle parole e ai codici che vengono utilizzati nella comunicazione fra le persone coinvolte nell’esecuzione della strage”.
La prima parte del volume ricostruisce puntualmente le vicende storiche dei conflitti nella penisola balcanica, iniziati alla morte di Tito nel 1980 e intensificatisi a partire dal decennio successivo, con la proclamazione dell’indipendenza dall’ex Jugoslavia della Bosnia Erzegovina, di Slovenia e Croazia nel 1992, e l’inizio della guerra civile, nell’aprile dello stesso anno, con l’aggressione della Serbia alla Bosnia-Erzegovina già dilaniata da tensioni etniche ed esasperati nazionalismi, che opponevano i serbi ai musulmani e ai croati.
Srebrenica contava allora trentasettemila abitanti, al 73% musulmani, al 25% serbi, ed era considerata un obiettivo strategico per collegare le parti nord e sud della Repubblica Serba attraverso un corridoio da creare lungo il fiume Drina. Benché i musulmani costituissero la maggioranza degli abitanti, le formazioni serbe volontarie e quelle mercenarie erano riuscite ad assumere il comando nella cittadina,
dove i bosgnacchi venivano uccisi in esecuzioni sommarie, cacciati di casa e deportati, o si riducevano a vivere in condizioni disumane per la carenza di cibo e l’allarmante situazione igienica.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 16 aprile 1993 proclamò Srebrenica “zona protetta”, sotto la tutela militare dell’ONU, composta da cinquecento militari, cui nel gennaio del 1995 si unì il battaglione olandese dell’UNPROFOR.
L’operazione serba (denominata in codice Krivaja 95) per l’eliminazione dell’enclave protetta della regione ebbe inizio la mattina del 6 luglio, nella totale impreparazione e passività delle forze delle Nazioni Unite, incapaci di opporsi all’assalto delle truppe di Mladić. L’11 luglio circa venticinquemila civili bosgnacchi trovarono rifugio nella base delle truppe dell’ONU, convinti di trovarsi al sicuro. Altre migliaia di persone, soprattutto maschi adulti, cercarono riparo in villaggi vicini e nel bosco di Buljim, nella zona nord-occidentale della regione. Il mondo occidentale non reagì in alcun modo alla strage successiva, sebbene documentata dalle immagini satellitari delle uccisioni in massa e della realizzazione delle fosse comuni.
Il generale Mladić proclamò con orgoglio davanti alle telecamere: “Eccoci in questo 11 luglio 1995 nella città serba di Srebrenica. Alla vigilia di un’altra grande festa serba, offriamo al popolo serbo questa città. E finalmente è venuto il momento, dopo la rivolta contro i condottieri giannizzeri, di vendicarci dei turchi proprio in questi luoghi”. L’identificazione dei bosgnacchi con i turchi ottomani che avevano governato nei Balcani per quasi cinque secoli, era tornata a rivivere anche prima di allora nella propaganda, nelle menti e negli animi dei serbi, che manifestavano l’odio, il disprezzo e la sottostima tramandati di generazione in generazione per chi li aveva discriminati in passato.
A dirigere e organizzare lo sterminio fu il colonnello Ljubiša Beara, capo della Direzione di sicurezza nel Comando supremo, già capitano di vascello di stanza a Spalato: a lui Ivica Đikić dedica la seconda parte del libro, non solo in una ricostruzione fedele dei fatti avvenuti nei quattro giorni del massacro, ma anche ripercorrendo la vita del criminale prima e dopo la guerra, attraverso numerose testimonianze e documenti processuali. Occhialuto, massiccio, stempiato e brizzolato, proprio quel 14 luglio 1995 Beara compiva 56 anni: era stato sempre ciecamente fedele agli ordini che gli venivano impartiti, e non aveva messo in discussione nemmeno per un attimo la disposizione affidatagli di annientare la popolazione maschile dell’enclave di Srebrenica.
Da quali motivazioni fu spinto a tali atrocità? Sentimento di lealtà alla Repubblica Serba, sete di vendetta e odio etnico verso i bosgnacchi, fanatismo religioso, megalomania e vanità, pressioni esterne e debolezza, carrierismo e fascinazione nei confronti di Mladić, ingannevole assimilazione dei concetti di devozione e onore, abuso di sostanze e di alcol, o il subdolo tentativo di provocare uno shock internazionale che avrebbe portato alla conclusione della guerra?
Sua prioritaria preoccupazione fu individuare le località dove effettuare l’esecuzione dei prigionieri, occultandone i cadaveri senza lasciare tracce. Đikić elenca nomi e ruoli di chi collaborò con Beara nell’ideazione e realizzazione dell’eccidio: autorità politiche, ufficiali dell’esercito serbo, reparti speciali di polizia, paramilitari regionali e locali, mercenari e volontari. In particolare agirono in tal senso il sessantacinquesimo reggimento motorizzato di difesa e il decimo reparto guastatori. Più di cento uomini furono implicati a vario titolo nella strage, altrettanti nel seppellimento dei corpi.
Oltre a Srebrenica, teatro della carneficina erano stati i paesi di Kravica, Cerska, Zvornik, Bratunac, secondo le stesse modalità di azione, evidentemente imposte dai vertici militari. I maschi giovani e adulti (ma tra le vittime ci fu anche un undicenne), separati dalle donne, dai bambini e dagli invalidi, vennero ammassati in camion e autobus, portati in campi di raccolta, in scuole, magazzini, fabbriche dismesse, poderi agricoli, cave di ghiaia, e poi sterminati con raffiche di fucili automatici, mitragliatrici e bombe. Nel frattempo si impiegavano operai e macchinari nello scavo di fosse comuni in cui gettare i cadaveri, ricoperti con terra e sabbia. Dal 12 al 16 luglio 1995 furono uccisi ottomila musulmani bosniaci: fino ad oggi sono stati identificati e sepolti circa settemila trecento corpi, e si continuano a cercare le ossa delle restanti vittime.
I principali responsabili del genocidio furono condannati all’ergastolo dal Tribunale internazionale per i crimini di guerra dell’Aja: tra loro, ovviamente anche Ljubiša Beara, che si ostinò a respingere tutte le accuse, sostenendo che in quei giorni si trovava a Belgrado per festeggiare il suo compleanno.
© Riproduzione riservata «Gli Stati Generali», 17 marzo 2023