OTTAVIO FATICA, VICINO ALLA DIMORA DEL SERPENTE – EINAUDI, TORINO 2019
Ottavio Fatica, nato a Perugia e tornato a vivere in Umbria dopo lunghi anni trascorsi a Roma, è considerato tra i maggiori traduttori italiani dall’inglese e dal francese. Collabora con molte case editrici, e ha curato testi classici e contemporanei (Melville, Poe, James, Kipling, London, Fitzgerald, Joyce, Tolkien, Auden, Cassian, Céline, Girard…), vincendo importanti premi nazionali. Oggi, consulente editoriale per Adelphi, insegna pratica del tradurre letteratura. Nella collana bianca di Einaudi aveva pubblicato nel 2009 un primo volume di versi, Omissioni, e ora propone questo funambolico Vicino alla dimora del serpente. Funambolico non solo perché la figura dell’acrobata e la metafora dell’equilibrismo siano ricorrenti nelle poesie, ma perché stile e temi si susseguono compositi e frammentati, poliedrici e provocatori, sempre sul fil di lama – per dirla in termini montaliani – di una soluzione prima perseguita e poi raggirata. L’illusione di una ricomposizione contenutistica e formale viene irrisa continuamente: a ragione nella quarta di copertina si fa riferimento alla poesia di Ripellino come antesignano di questa inventività ironica e spiazzante. Soprattutto sembra venir presa di mira la coerenza stilistica, poiché le sei sezioni di cui si compone il volume utilizzano timbri poetici diversi e persino discordanti.
In alcune pagine iniziali la finalità che si propone il poeta appare principalmente etica: una riflessione sconfortata sul destino dell’uomo, in bilico tra bene e male, volontà di purificazione e di espiazione da un lato, attrazione verso la colpa e la dannazione dall’altro. Il lettore si trova davanti a un continuo moto ascendente e discendente, a un innalzarsi e a un precipitare nell’abisso: la metafora dell’affondamento, del diluvio, dell’alluvione rovinosa che si abbatte e non lascia scampo, travolgendo tutto, fa da pendant al volo in un empireo sconfinato e indifferente, per nulla protettivo, in «cieli senza rete»: «l’arduo / gioco che dalla base terra / avrà l’ardire e l’ardenza / del cielo come meta», «Poi in un baleno / viene giù il Diluvio e poi / il lutulento / lento decorso, la / conta dei danni e / dei condannati», «l’universo / favo ronza e bulica / sulfureo in un via vai di fuchi / e di operai spersi / per i buchi sporchi di morchia / di materia oscura / di materia losca / del bugno».
I sostantivi utilizzati esprimono perlopiù minaccia e aggressione (squarcio, schianto, sbrago, torchio, graticola, rovi, lama, forbici, crepaccio, gabbia), inganno e sporcizia (morchia, mucillagini, catrame, crosta, ragnatela). Chi scrive avverte «tutto il peso del mondo», e come suggerisce il titolo, si riconosce Vicino alla dimora del serpente. Frequenti sono i rimandi alla Sacre Scritture, mai con intenzioni consolatorie, poiché prevale invece l’immagine demoniaca di un Lucifero spaesato, quasi vittima di se stesso più che di una divinità indecifrabile: «e io da scuro / a scuro scorribanderò / anima scalza / di balza in balza», «come / faremmo senza fuoco o morte?», «pure una sera / insieme al gregge reduce / allo speco / non mancherò al raduno / ad uno ad uno in tempo / per soffriggere».
Ma aldilà della pregnanza metafisica dei versi, si avverte in Ottavio Fatica la lusinga dell’esibizione linguistica, la giocosità della sorpresa nell’uso ossessivo delle rime e delle allitterazioni, negli enjambement imprevedibili, nella vistosa negazione della punteggiatura, nel flusso di associazioni visive e sonore, nei sapienti arcaismi e neologismi. Il gusto del grottesco lo avvicina a una poetessa da lui tradotta recentemente, Nina Cassian, che si era addirittura inventata una lingua tutta sua (lo “spargano”), con l’evidente volontà di stupire il lettore, in uno pseudo-surrealismo basato sulla fascinazione della parola recitata, canzonatoria e sarcastica: «come il roggio / in ruggine si strugge / la ragione / la vita che rifugge», «per questo quello / invoca invano invidia / inventa Tazio / o no?», «quand’è tutt’un / mondo che duole / che vuole far male / e che può (si salvi / chi può) non va più / non va proprio giù», «per entro uno sghembo pertugio / ridotto o rifugio / per tutti e anzitutto / per me sotterfugio / perché quest’assolo spergiuro / perento / che indugia al centro».
Proprio riguardo al suo apprezzatissimo “mestiere” di traduttore, paventando di non possedere parole proprie, e temendosi esiliato dalla sua stessa esistenza e lingua, scrive: «come una spia un ipocrita / un transfuga un liberto / come tutti il traduttore / lotta per avere ragione / della ragione / della ragione e lascia / il certo per l’incerto e torna / schiavo e come tutti più / di tutti muore irrassegnato». L’idea di esclusione e autoesclusione dal mondo è spesso ribadita, e riconosciuta come colpa personale e collettiva, che chiude il genere umano in un’autoreferenzialità autistica («A bordo dello scafo / non si scorge nessuno / che ami nessun altro / più di sé», «Risucchiato / ti avviti su te stesso», «c’è mondo e non / c’è modo di smentirlo / con la vita»). Tuttavia la salvezza può insperabilmente arrivare dall’istintività ingenua del mondo animale, da un abbandono più disarmato e fidente alla vivezza del sentimento amoroso, o al ricordo dell’infanzia e di luoghi cari. Così nelle ultime sezioni del libro prevalgono temi più docilmente affettivi (l’immagine di una «gattina smarrita», un «bestiario onirico» aggirantesi in boschi fiabeschi, una gara ciclistica, la memoria di Natali trascorsi, una «musichetta stenta», i fiocchi di neve, il primo amore degli undici anni), e toni che corteggiano la filastrocca, la cantilena, lo stornello, l’aforisma moraleggiante o perfino l’elegia: «Qui sotto la mia cupola / di cielo i panni stesi / indorano al tramonto / sanno d’aria / di luminosità».
Se l’esperienza della scrittura appare spesso incomunicabile («Il cieco scrive / e dovrà farsi leggere / quello che ha scritto / se altri capirà / o capiranno / le zampe d’uccelletto / sulla neve»), resta salda la vocazione all’innamoramento fugace, alla comprensione della bellezza nell’altro da sé («noi / nostalgici ostaggi / un mondo d’ansie e primule / fatto per struggerci», «Vita diletta, anima / finitima alla mia / cuore pulsante / d’intima estraneità / mi duole di tristezza / tutto il corpo»). E rimane il dovere di esprimersi comunque: «io lancio sassi / contro i vetri del cielo / così imparo / a fare sempre meglio / quello che / non si può fare e che / pure va fatto». Ottavio Fatica in questo suo libro così pieno di immagini, voci, echi letterari, sapienza meditativa, ci ricorda continuamente la nostra caducità e la nostra immortalità, corpi animaleschi e angelici come siamo: «la vita è un piede a terra / e uno al piano nobile».
© Riproduzione riservata «SoloLibri», 18 giugno 2019