BIANCAMARIA FRABOTTA, DA MANI MORTALI – MONDADORI, MILANO 2012
In un suo recente articolo uscito sul sito dell’editore Lietocolle, Biancamaria Frabotta ha scritto: «Ciò che non si può spiegare è spesso solo il sintomo di un fallimento, di una scorciatoia che l’anima prende di fronte ai rischi della semplicità. La semplicità, dice Pasternak in una poesia esemplare, «più d’ogni cosa è necessaria agli uomini / ma essi intendono meglio ciò che è complesso».
Una dichiarazione di intenti, quasi a prendere le distanze da quello che è stato finora il procedere poetico di quest’autrice, finalizzato soprattutto alla ricerca e alla sperimentazione linguistica – talvolta anche provocatoria, comunque sempre innovativa, e di non facile interpretazione. In quest’ultimo libro, in effetti, la complessità dello stile e l’oscurità formale si sciolgono in una discorsività più piana e comunicativa, benché il dettato dei versi non si possa definire “semplice”. Ma è il contenuto, il messaggio che ora balza in primo piano, più che il gioco e il collaudo sulla lingua: un interesse più partecipe a ciò che ci circonda, alla natura, agli uomini, alle cose. Ed è proprio nella prima sezione del volume che la poetessa tocca il vertice più alto della sua scrittura, in questo rapporto riscoperto con la vegetazione, osservata con ammirato stupore, quasi con religiosa contemplazione e solidarietà: «una foglia / pende ancora a lato del legno, trema, / si rimette al vento con l’astuzia dei deboli», «udire il mormorio della terra che dorme / quando sibila la sofferenza delle piante. / Potessi, ospite impensierita, dal pietrisco salvare la salvia /…accorrere dove il ramerino implora una sponda…».
Allora la missione del poeta diventa quella di guardare la vita dal basso (biancospini, ortaggi, molluschi, chiocciole..), collaborando con la misteriosa divinità positiva che protegge e recupera l’innocenza delle sue creature («il fieno / dorme senza diffidenza»), opponendosi all’artificiosità cittadina e metropolitana, alla freddezza delle sue convenzioni. Ed è proprio alla voce dei poeti («acquattati nel pelo del mondo… // scovarli, stanarli / dai loro nascondigli / i pochi (troppo pochi!) poeti») che Biancamaria Frabotta demanda il compito di uno sguardo più puro e salvifico sull’esistente: li nomina, li ringrazia, i suoi amici poeti, se ne circonda nelle pagine e nella vita. Dall’amato Giorgio Caproni che sembra sorvegliare dall’alto una sua irriconoscibile Genova («le gallerie di colpo senza / golfi, seni azzurranti, rive / mancate come ragazze viziate»), alla compianta Giovanna Sicari, ricordata nel martirio della sua malattia, ad altri raccontati nei loro incontri-scontri, nelle frequentazioni reciproche. Le esistenze private, gli amori, i gesti quotidiani comuni a tutti si ripetono come le stagioni, i cicli lunari, in un avvicendarsi di giorni e notti, di sonno e veglia, di vita e morte : «Alzarsi nel buio, strisciare nell’obbligata trincea / lungo le pareti, senza centro, né gravità, arrancare / prendere un po’ d’acqua, perderne altrettanta».
Personale e politico si intrecciano: cronache cittadine e storia ufficiale (dagli echi del declino di un impero romano corrotto alla visita di G.W.Bush in Italia), siccità naturali e terremoti distruttivi, citazioni omeriche e ritratti severi del mondo intellettuale e politico, versi d’occasione e poemetti-testimonianza, con l’unico rischio che al lettore vengano presentati troppi stimoli, troppe circostanze e immagini diverse, troppe emozioni da rielaborare. E se nelle ultime sezioni del volume Biancamaria Frabotta presta la sua voce a un dio umano, eccessivamente umano, anche nella sua impotente incapacità di opporsi al male e di soccorrere al bisogno («Sono le mie debolezze, le mie imperfezioni / a illuminare la mia oscura sintassi»), è forse in questa crudele e dolcissima metafora il significato più vero della sua scrittura: «A nord, lungo il filare dei cipressi / una trave di quercia lentamente / marciva nascosta fra le erbe. I tarli / hanno lavorato, ma il nocciolo è sano. / Certo sosteneva una casa in pericolo».
Ecco: perché la casa pericolante non crolli, può forse bastare la trave bagnata della poesia, la sua indistruttibile forza interiore.
«Leggendaria» n.106, luglio 2014