JEAN GENET, POESIE – GUANDA, MILANO 2018
Su Jean Genet si è scritto di tutto. Lui stesso ha scritto di tutto sulla sua vita memorabile, oscena, truffaldina, illegale, blasfema, autodistruttiva, vagabonda, fuori controllo. Nato a Parigi da padre ignoto nel 1910, affidato dapprima all’assistenza pubblica, quindi adottato da una famiglia contadina premurosa e attenta, già dall’infanzia manifestò atteggiamenti antisociali e ribelli, macchiandosi di piccoli furti ed esibendo provocatoriamente la sua attrazione per uomini più adulti, specialmente se violenti o emarginati. I frequenti arresti e la detenzione in diverse prigioni, cristallizzarono in lui sia le inclinazioni omosessuali, sia una morbosa fascinazione verso le manifestazioni di brutalità fisica. Arruolatosi nella Legione Straniera, furono i paesaggi africani e mediorientali, e l’indigenza dei popoli oppressi dal colonialismo occidentale, ad acuire il suo già risentito disagio verso la civiltà e i costumi francesi. Tornato a Parigi, si avvicinò a posizioni filonaziste e collaborazioniste, diventando l’amante di un SS, e continuando a vivere di stratagemmi e di furti, soprattutto a danni di biblioteche, musei e negozi di antiquariato.
Negli anni 40-50, iniziò a pubblicare, spesso in forma anonima e clandestina, poesie (Il Condannato a Morte, 1942), romanzi (Il miracolo della rosa, 1944; Nostra Signora dei Fiori, 1946; Querelle de Brest, 1947; Diario di un ladro, 1949), opere teatrali (Le serve, 1947; I negri, 1958): testi ritenuti pornografici e iconoclastici, che gli procurarono successo e pesanti critiche, censure e prestigio. Apprezzati in particolare dall’intellettualità francese più impegnata, vennero celebrati per il loro ingenuo ma eversivo primitivismo da Jean Cocteau, Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre. Proprio a quest’ultimo Genet dovette la sua consacrazione letteraria, determinata dalla pubblicazione del saggio Santo Genet. Commediante e martire, del 1952. In esso, Sartre innalzava a paradigma l’intera esistenza dello scrittore capace di trovare nella bassezza e nell’abbrutimento un’ascesi verso la libertà del pensiero e della creazione, persino contraffacendo la sua stessa biografia, in un camuffamento trasgressivo del guitto che brama fare di sé una leggenda vivente, un mito, e appunto un santo. Gli ultimi anni di Jean Genet furono votati alla lotta politica in favore dei movimenti progressisti e rivoluzionari: le Pantere Nere negli USA, i Palestinesi dell’Olp, la Rote Armee Fraktion, gli sfruttati e i diseredati. Visse deliberatamente ai margini della società, alloggiando in alberghi di quart’ordine, o facendosi ospitare da compagni di lotta in giro per il mondo: infine, debilitato dall’abuso di droghe e psicofarmaci, morì di cancro in un hotel parigino nel 1986 e fu sepolto per suo volere a Larache, in Marocco.
Il libro di poesie recentemente pubblicato da Guanda, con testo francese a fronte, raccoglie versi che si riallacciano ai temi della produzione narrativa e teatrale, fortemente ideologizzati in senso antiborghese e anarchico. La critica totale al sistema sociale dell’Occidente trova qui una corrispondenza formale sia nel recupero di toni classicheggianti, quasi barocchi, sia nell’approdo all’oniricità fantastica del surrealismo. La tensione provocatoria si esprime nella scelta di un linguaggio crudo, di. termini gergali, di descrizioni che rasentano l’oscenità: i sei poemetti presentati, quasi tutti in quartine regolari, spaziano nei contenuti dalle esperienze carcerarie all’amore, dalle descrizioni dei bassifondi al rifiuto di ogni convenzione sociale. Il primo poemetto, forse il più noto, è Il Condannato a Morte, del 1942, dedicato a un giovane e affascinante compagno di prigione, giustiziato nel ’39 nel carcere di Saint-Brieuc. L’attacco manifesta una luminosa e inquieta visionarietà, che spesso ritorna, con metafore ispirate soprattutto alla natura, nei versi successivi: «Il vento che trascina un cuore sul lastrico delle corti; / Un angelo che singhiozza impigliato su un albero, / La colonna azzurra inquadrata dal marmo, attorcigliata, / Nella mia notte fanno aprire uscite di sicurezza». Ma i momenti idilliaci vengono subito corretti da insistite metafore erotiche, da esplicite esaltazioni di genitali maschili, da descrizioni di amplessi violenti: «Adora in ginocchio, come alla gogna sacra, / Il mio torso tatuato, adora fino alle lacrime / Il mio sesso che urta colpendoti come un’arma, / Adora il mio bastone che adesso ti penetra».
La traduzione meditatamente intensa del curatore Giancarlo Pavanello ha scelto di rendere in maniera sobria ed equilibrata l’alessandrino molto ritmato e rimato dell’originale francese, che invece evidenzia una cadenza quasi ossessiva, come ossessivamente tornano immagini e concetti legati al desiderio sessuale, all’esplorazione dei corpi, alla volontà di possesso, nel dominio e nella sottomissione. Genet, nella costrizione di una cella, esplode in inni panici alla libertà e alla fisicità negate, con una sensualità rabbiosa e irrefrenabile: «Divaga, mia Follia, per la mia gioia partorisci / Un consolante inferno popolato di bei soldati, / Nudi fino alla cintola, in braghe resèda, / Butta i pesanti fiori il cui odore mi folgora. // Strappa da non si sa dove i gesti più folli. / Rapisci giovanetti, inventa torture, / Mutila la Bellezza, sfregia i volti, / E ai ragazzi da’ appuntamento alla Guyana»; «Incolla il corpo estasiato sul mio che muore / D’inculare la più tenera e dolce canaglia. / Palpando incantato i rotondi biondi coglioni, / Il piolo di marmo nero ti entra fino al cuore».
C’è sadismo e terrore, brama e cupio dissolvi, in queste poesie, che mantengono evidenti reminiscenze di Villon, Sade, Rimbaud, Artaud. Muri, passaggi sotterranei, brande, cancellate, sbarre sono gli elementi oggettivi degli interni, insieme al buio, al tanfo, alla nausea: l’esterno è parimenti minaccioso, con i cieli in tempesta, nubi, folate fredde di vento e il richiamo imperioso del mare. Nel terzo poemetto, La Galera, quello di Genet è tuttavia un mare letterario e antico, che ricorda molto Coleridge, popolato da velieri e ciurme, masnadieri e galee, stive e furfanteschi mozzi, nella memoria mai sopita di amplessi giovanili con esuberanti marittimi, già celebrati in Querelle de Brest (1947), mito omoerotico portato sullo schermo da Fassbinder nel 1982: «Un ragazzotto ben piantato fra onda e vento / Con la bocca scheggiata dove spesso vedevo / Impigliarsi la pipa alle mie femminee sottane / Questo mino passava terribile fra le orifiamme… La testa mi si impantanava fetida, solitaria, / Nel fondo del mare del letto del sogno degli odori / Fino a non so quale assurda profondità».
Il fascino seduttivo dell’acqua torna nell’ultima composizione, Il pescatore del Suquet, dialogo amoroso dedicato all’innocenza impudica di un ragazzo posseduto tra i canneti di una spiaggia: «Intorno a lui il tempo, l’aria, il paesaggio divenivano incerti. Steso sulla sabbia, ciò che scorgevo fra i rami divaricati delle gambe nude tremolava. La sabbia conservava la traccia dei suoi piedi, ma conservava anche la traccia di un sesso commosso dal calore e dal turbamento della sera. Luccicavano i cristalli… Da quella notte amo il fanciullo malizioso, leggero, lunatico e vigoroso il cui corpo fa fremere, avvicinandosi, l’acqua, il cielo, gli scogli, le case, i ragazzi e le ragazze. E la pagina sulla quale scrivo». Poeta del corpo e della fame feroce di corpi, Jean Genet ha trovato la sua santità nella celebrazione del male, come scrisse Sartre, a cui abbandonarsi senza coscienza e senza resistenza. Voluttà di perdersi perfettamente espressa negli ultimi versi di questo libro: «Perché scorro via diventando palude / Dove la notte va a illividire i fuochi fatui / Lingua di fuoco che veglia il mio passaggio».
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 11 settembre 2018