GIOVANNI GIUDICI, IL RISTORANTE DEI MORTI – MONDADORI, MILANO 1981
Quattro anni fa, recensendo per il Quotidiano dei Lavoratori Il male dei creditori di Giovanni Giudici, osservavo come l’aspirazione dello scrittore a farsi voce di una coscienza collettiva (particolarmente vivace e in tensione nel ’77) non si realizzasse, soccombendo di fronte a un privato totalizzante e accecante, e negavo a quel libro la possibilità di una lettura in chiave politica. Il volume appena uscito da Mondadori invece si offre anche a una interpretazione critica di questo tipo, perché si pone in una prospettiva diversa: se i temi sono quelli soliti di Giudici – la donna, il ricordo, l’Altro -,
mutato è l’approccio nell’affrontarli: meno indulgente, a volte addirittura risentito. Il titolo di una sezione della raccolta (L’ordine) doveva essere, in un primo tempo, il titolo del libro stesso; l’ordine che ci costruiamo addosso ma anche l’ordine in cui ci murano gli altri, difesa e condanna, costrizione che ci salva: «Mi guardo nell’ordine edificato / Con voglia di sbatterlo all’aria – purché / Un’evenienza intervenga per me. / Ma quale altro in suo luogo? / Avere avuto così / Fretta di chiudersi in cornice per paura».
Molto più felice è la scelta definitiva, Il ristorante dei morti, da cui, al di là della prima infondata impressione beckettiana che può suscitare, si possono ricavare molte delle tematiche del libro. Il ristorante, intanto, è luogo di incontro e di comunicazione: ma Giudici non ci vede il convivio pagano, quanto piuttosto la “tavola” cristiana, l’eticità espressa dal momento ecumenico del nutrirsi insieme. In una delle ultime poesie, prendendo come spunto una colazione con Elvio Fachinelli «esploratore e scienziato del dentro», Giudici rievoca un passato personale che è diventato storia di tutti: nello stesso ristorante, vent’anni prima, aveva cenato con due personaggi ora scomparsi, Giacomo Noventa e Don Milani. In tutta la poesia si avverte questa interazione tra interno ed esterno, tra privato e politico: «Quanto di storia mi è transitato addosso / A me che sono un privato». E’ un incoraggiamento a credere nella nostra immersione, anche involontaria e inconsapevole, ma sempre inevitabile, nel flusso della storia. Ma in questa storia, di adesso, Giudici si sente isolato, aggrappato a un’idea di paleocomunismo che non trova con chi confrontarsi, legato sentimentalmente a un passato politico in cui i ruoli da giocare erano più definiti: si trova, insomma, a dialogare con i morti. C’è un’epigrafe a Temporis acti (la più esplicita fra le poesie politiche) tratta da Stevenson: «Noi siamo tra vecchi amici; e non vivremo abbastanza, ormai, per averne dei nuovi», che sembra suggerire un’interpretazione generazionale di questo amore del passato: «Ma essere / Nell’attesa di vivere o in quella di finire / E’ una capitale differenza: / Come fra la ingorda visione giovanile / E il tardo orecchio che incolpa / L’epoca barbara e sorda – laddove / E’ la generazione che mostra la corda».
Per chi attende di finire, la tentazione di abbandonarsi al qualunquismo è forte: Giudici mette tutti insieme in un’isteria e in una crudeltà collettiva che non salva nessuno (P38, pentiti, Craxi, il papa), ma soprattutto condanna il compagno intellettuale, grillo parlante che «ha fottuto l’immaginazione». «Dove sono gli intelligenti mentre inizia / L’inventario degli assenti?». A uno in particolare di questi intelligenti dedica «Da un banco in fondo alla classe», poemetto provocatorio sia nella forma (20 strofe di ottave in versi ottonari, a cui il duplice accento ritmico dà un vago sapore retrò, ironico se non parodistico), sia nel contenuto. Si tratta di una lunga arringa che si trasforma man mano in requisitoria, rivolta a un intellettuale in cui si può facilmente riconoscere un importante teorico della nuova sinistra, che agli occhi di giudici riveste il ruolo di primo della classe, di coscienza pungolante e perciò anche di severo censore. L’antipatia del lettore viene indirizzata verso questo «Genio giustiziere» che tiene conto con pedantesca pignoleria e muta riprovazione di ogni vizio e di ogni passo falso dell’inquisito. Davanti a tale «infallibile Cadì» Giudici si prostra «giuggiolevole» in una autoflagellazione ostentata dei suoi patetici errori, ripercorrendo il suo cammino in discesa («morbido cliname»), lontano dalla strada maestra, dalle prime colpe infantili ai grandi tradimenti dell’adulto:«Prono al cenno del potente / Sempre in posa genuflesso / Riverisco il presidente / Faccio vento alla contessa Marionetta appesa al chiodo / Seduttore un po’ codardo / Impiegato già in ritardo //…Non gattopardo, ma gatto /…nel male resto agli inizi».
Que sto “mea culpa” ammiccante di chi tutto sommato si sente dalla parte «della decenza e dell’umile intelligenza», di chi invoca a propria giustificazione l’essere «un brusio in fondo alla classe», «uno che porta pesi e paga le tasse», uno come tutti, finisce per sembrare una excusatio non petita, rivolta con un certo risentimento a una coerenza morale e di pensiero che un po’ si vuol prendere in giro ma in realtà si invidia. Nel poemetto si intuisce la sofferenza cattolica di chi si sente in colpa e non vorrebbe, e tenta di risolvere in ironia il complesso non superato, fallendo perché l’ironia che ne deriva è pesante, quasi acidula. Per questo, le cose più belle del volume sono da cercare altrove, ad esempio nelle due sezioni Persona femminile e Toledo, dove il rapporto con la donna è finalmente sciolto, abbandonato in una solidarietà che è ricerca comune di risposte, di punti fermi, e insieme scoperta reciproca, adorazione del corpo che ha qualcosa di religioso. Colpisce anche l’ultima sezione, Pascoli, nella quale, partendo da un’affettuosa identificazione con il poeta romagnolo, Giudici approda a un autobiografismo più controllato, che lascia spazio a un “fuori”, a un “altrui” da sempre latenti e in attesa nella sua poesia.
«Quotidiano dei Lavoratori», 19 giugno 1981