SERGIO GIVONE, SULL’INFINITO – IL MULINO, BOLOGNA 2018

Nell’originale e stimolante collana “Icone” de Il Mulino, curata da Massimo Cacciari (sono già usciti due volumi, dello stesso Cacciari e di Paolo Legrenzi), ogni autore, partendo dal commento di un quadro famoso, allarga e nello stesso tempo focalizza la sua indagine filosofica e sociale su un argomento teoricamente rilevante nella storia del pensiero: la divinità, il corpo, la giustizia, o – nel caso di cui ci occupiamo ora – l’infinito. Sull’infinito si intitola appunto il saggio di Sergio Givone, professore emerito di Estetica all’Università di Firenze, che nei suoi testi scientifici e narrativi ha affrontato a più riprese i temi del nichilismo, del divino, della libertà e del nulla. Sulle copertine fronte-retro e all’interno del volume è riprodotto il famosissimo Viandante sul mare di nebbia che Caspar David Friedrich dipinse nel 1818, e che secondo Givone aprì «un nuovo capitolo della storia dell’arte occidentale» nella definizione dello sfondo e della prospettiva, dando ad essi una più rilevante impronta di ricerca interiore. «Se in un paesaggio non saprai vedere qualcosa che giace nel profondo della tua anima, non vedrai nulla», aveva scritto l’artista, animato da un’inquietudine religiosa e metafisica già impregnata di romanticismo.

Del Wanderer protagonista del quadro non conosciamo il volto. Lo vediamo ritratto di spalle, in elegante abito nero, appoggiato a un bastone da passeggio, sicuramente saldo sulle gambe in cima a uno sperone di roccia. Non sembra stanco, o reduce da una faticosa arrampicata. Intuiamo in lui un signore di città che si è spinto in vetta a una montagna e da lì osserva il “mare di nebbia”, fissando l’oltre e l’altro da sé (il chiarore dell’alba intuito tra le montagne, i sassi intorno, lo scenario indistinto nella foschia): forse è uno scienziato, un uomo di cultura, o un “turista dello spirito”. Certamente sta riflettendo su ciò che vede: un panorama né idilliaco né minaccioso, contraddistinto da luminosità e silenzio, che lo proietta in una «vertiginosa profondità» di sguardo, di pensiero, di sentimenti. La natura sconfinata, nei suoi elementi grandiosi e incontrollati, spaventa per la vastità e per la potenza; davanti ad essa l’uomo avverte la sua piccolezza e insignificanza: tale consapevolezza lo deprime e umilia, ma nello stesso tempo lo commuove ed esalta, perché pur cosciente della propria fragilità, si riconosce parte del mondo che osserva, e lo può comprendere. È, per dirla con Pascal, «uno stelo pensante»

L’analisi di Givone utilizza contributi di letterati (Goethe e Leopardi) e filosofi (da Anassimandro a Plotino, da Giordano Bruno a Kant, da Fichte a Hegel, e infine da Schopenhauer a Nietzsche), che nel corso dei secoli hanno negato o conferito realtà al concetto di infinito, di per sé indefinibile e irrappresentabile, non solo artisticamente, ma anche scientificamente. La contraddizione che sorge meditando su di esso «è quella tra una totalità chiusa, onnicomprensiva, e una totalità aperta, progressivamente aumentabile»; tra il mare del nulla in cui si lascia dolcemente naufragare Leopardi, e la concretezza di un universo reale che tutto comprende in sé, come lo definiva Hegel; tra «l’annichilimento nichilistico dell’io» e il suo «potenziamento dionisiaco». Il Viandante di Friedrich, di fronte allo spettacolo dell’infinito, sperimenta esteticamente il Sublime, senza annullarsi, senza esaltarsi, ma prendendo coscienza della propria capacità di pensarlo: «E che cosa vede, in sé stesso, se non il campo sconfinato e illimitato di tutte le esperienze possibili? L’anima non ha confini, aveva detto Eraclito l’oscuro…». L’essere umano possiede l’idea dell’inconoscibile, alla sua ragione «è dato di conoscere secondo verità e alla volontà di agire secondo verità», e prima di scoprire l’infinito fuori di sé deve averlo già scoperto in sé stesso. Ma dall’interiorizzazione si deve passare all’esteriorizzazione, dal dentro al fuori, dall’io al mondo, dall’infinito ideale all’infinito reale. Perché esistono, secondo Sergio Givone, due infiniti: uno negativo e uno positivo. Il primo, privo di significato e finalità, può produrre uno smarrimento metafisico e il dissolvimento di ogni valore, il secondo offre una pienezza di senso, una riappropriazione della vita, per cui «cessa di essere ipotesi mentale e diventa oggetto di esperienza».

Cambiando prospettiva, l’infinito si converte da «limite negativo a positivo illimite», da cifra del nulla e del vuoto, a volto di una realtà traboccante di presenze e tracce divine, capace di abbracciare «luce e buio, visibile e invisibile, terra e cielo». Allora il mare di nebbia osservato dal Viandante è il visibile più prossimo all’invisibile, illuminato da una luce di trascendenza che lascia irrompere l’infinito nel mondo, trasformandolo, liberando il tempo dal suo passato e dal suo futuro e tuffandolo nel mare dell’essere.

 

© Riproduzione riservata        «La poesia e lo spirito», 2 marzo 2018