SERGIO GIVONE-REMO BODEI, BEATI I MITI PERCHÉ AVRANNO IN EREDITÀ LA TERRA
LINDAU, TORINO 2013
Due filosofi, Sergio Givone e Remo Bodei, il primo credente il secondo ateo, affrontano il tema della mitezza sotto il profilo filologico, teologico e storico. Commentando il brano di Matteo 5,5 che pone questa dote al terzo posto nella scala delle Beatitudini (“Beati i miti perché erediteranno la terra”), entrambi i due autori concordano nel ritenere l’essere miti un valore, anziché un difetto o una debolezza, come oggi viene prevalentemente intesa dalla maggioranza delle persone, e dall’ideologia politica e sociale dominante.
Givone definisce il mite “colui che sopporta non per rassegnazione, ma per convinzione… non dispera neppure di fronte alle difficoltà più gravi e quando tutto sembra perduto… sa essere comprensivo, benevolo, ospitale nei confronti del suo prossimo e perfino del suo nemico: in una parola caritatevole”. La mitezza è un dono dello spirito, la più alta delle virtù, la meno compromessa con le tentazioni del mondo e la più vicina al cuore di Dio: essa si manifesta in atteggiamenti non aggressivi, pazienti, aperti al confronto, tolleranti. Mite per eccellenza è Gesù, l’Agnello che porta su di sé i mali e i peccati degli uomini, giusto e insieme indulgente, umile, semplice, puro. Se nel Medioevo si predicava la mitezza nella sua accezione ascetica e mistica, oggi la si interpreta soprattutto in chiave etico-politica, in ubbidienza alla teoria e alla pratica della nonviolenza, con riferimenti al pensiero di Tolstoj e di Gandhi. Tra i filosofi novecenteschi che più si avvicinano a tale visione di impegno morale, Hans Jonas contrappone il “principio responsabilità” al “principio disperazione”, indicando nell’azione umana tesa a preservare l’ambiente e la vita il comportamento più responsabile e generoso nei confronti delle generazioni future. Givone ritiene che la ricompensa evangelica fatta ai miti di ereditare la terra, non sia ovviamente una promessa di vantaggio materiale, ma denoti invece la prospettiva di abitare la casa di Dio nella pace, facendosi carico di ciò che l’esistenza terrena è, in totale accoglienza e totale consenso con il prossimo e con il Signore.
Remo Bodei, offre al lettore un’interpretazione laica della mitezza, insistendo sulla forza e l’audacia di tale valore, che rende chi lo incarna capace di controllare le proprie passioni, di resistere al male con fermezza e senza scoraggiarsi, rinunciando all’ira, alla violenza e alla vendetta. “I miti sono le persone pazienti, quelli che non chiedono niente per sé… che non si credono importanti e non si gloriano di sé stessi, che sono capaci di superare ogni difficoltà e che proprio per questo erediteranno la terra”. Bodei indaga l’etimologia del termine greco praous (mite) così come viene usato nei Vangeli, in Aristotele, nello stoicismo, nella teologia, per cui la mitezza non ha il significato negativo che le attribuiscono i moderni: di passività, apatia, rassegnazione imbelle. È invece consapevolezza sicura di sé, serenità, autodisciplina, moderazione, discrezione. Tra i pensatori del ’900 che più hanno rivalutato questa virtù cita Schweitzer, Bonhoeffer, Bobbio, Giuliano Pontara e Gustavo Zagrebelsky, ciascuno dei quali ha dato una sua definizione della scelta attiva e propositiva della mitezza.
Tra le tante proposte, quella che personalmente preferisco è “lasciare che l’altro sia sé stesso”.
© Riproduzione riservata 4 novembre 2019
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