PIERRE HADOT, LA FILOSOFIA COME MODO DI VIVERE ‒ EINAUDI, TORINO 2008
Pierre Hadot (Parigi, 1922–Orsay, 2010), cresciuto a Reims in una famiglia di fervente fede cattolica, dopo gli studi di filosofia e teologia, prese i voti nel 1944. Dieci anni dopo lasciò il sacerdozio, si sposò, impiegandosi dapprima come bibliotecario e in seguito come ricercatore al CNRS. Direttore della École pratique des hautes études dal 1964 al 1986, fu poi nominato professore (per iniziativa di Michel Foucault) al Collège de France nel 1982. I suoi campi di interesse furono rivolti soprattutto alla filosofia antica, all’orfismo e al neoplatonismo, ma si occupò anche di letteratura (Goethe) e di pensatori novecenteschi (Bergson e Wittgenstein). Una delle sue tesi principali consiste nel ritenere che la filosofia debba servire agli uomini come metodo per vivere bene, evitando per quanto possibile sofferenze inutili, illusioni, ambizioni sfrenate. Tale era l’insegnamento degli antichi greci, come ha illustrato in uno dei testi più noti, Che cos’è la filosofia antica?. In esso afferma che il pensiero dei greci non era volto tanto alla costruzione di sistemi ed edifici concettuali, lontani dalla realtà vissuta dalle persone comuni. Le varie scuole filosofiche greche guidavano gli allievi lungo un percorso di saggezza da attuarsi attraverso la pratica di “esercizi spirituali”, tendenti non tanto ad accrescere le nozioni delle varie scienze, quanto a formare gli individui, perfezionandoli, trasformandoli nel carattere e nell’agire per raggiungere il benessere interiore ed essere di sostegno alla comunità. In Socrate, Epicuro, Marco Aurelio fino ai contemporanei, Hadot riscopre una dimensione riflessiva del pensiero, capace di coniugare teoria e prassi. Filosofare, come insegnava Platone, significa “esercitarsi a morire”, imparando a superare “l’io particolare e parziale”, staccandosi dalle preoccupazioni quotidiane per aprirsi a un respiro universale, quindi alla vita vera, accettata nella sua pienezza, con le delusioni e le paure, le malattie e le difficoltà economiche. Vivendo nel presente, senza rimpiangere il passato e senza tormentarsi per il futuro.
In un altro importante volume, Plotino o la semplicità dello sguardo, Hadot espone la dottrina del filosofo di Licopoli (205-270 d.C.), maestro spirituale “contemporaneamente presente a sé e agli altri”, che indicava la strada attraverso cui l’amore, la purezza interiore e la contemplazione conducono al Bene assoluto, fuggendo “da soli verso il Solo”, verso un divino infinito che non intenda svalutare il mondo sensibile, ma sappia renderlo più consapevole e luminoso. “Ritorna in te stesso e guarda: se non ti vedi ancora bello, comportati come l’autore di una statua che debba risultare bella: quegli toglie, raschia, leviga, ripulisce, fino a far apparire nella statua un bel viso. Anche tu togli il superfluo, raddrizza ciò che è storto; a furia di ripulire quanto è oscuro, fallo brillare e non smettere di ‘scolpire’ la tua propria ‘statua’, fino a che riluca per te il divino splendore della virtù, fino a vedere la Saggezza, alta sul suo sacro soglio”. Questo invito di Plotino, dolce maestro che a detta del suo allievo Porfirio “si vergognava di essere in un corpo”, fu uno degli insegnamenti fondamentali che Hadot assorbì dal pensiero greco. Scolpire la propria statua, rendersi migliori per rendere migliore il mondo intorno, indipendentemente da ogni ideologia o religione personale.
Tale percorso di conversione è ben esplicitato nel libro autobiografico La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con Jeannie Carlier e Arnold I. Davidson (uscito in Francia nel 2001 e da noi nel 2008): qui Pierre Hadot partendo dalla sua esperienza di vita, narra come la pratica filosofica abbia guidato e sostenuto ogni sua scelta esistenziale, anche nei momenti più difficili e tribolati. Nato in una famiglia umile, costretto dalla madre ad entrare in seminario a dieci anni, cresciuto “nell’acqua santa” e “sotto le sottane della Chiesa”, ebbe a tredici anni la rivelazione di quello che sarebbe stato il suo destino di filosofo. In una pagina molto toccante, racconta di come una sera, tornando a casa da scuola, la vista del cielo stellato avesse suscitato in lui quello che Romain Rolland definiva il “sentimento oceanico”: “Un’angoscia terribile e soave, provocata dal sentimento della presenza del mondo, o del tutto, e di me in questo mondo… Provavo un senso di estraneità, lo stupore e la meraviglia di esserci. Nello stesso tempo, percepivo di essere immerso nel mondo, di farne parte, e che il mondo si estendeva dal più piccolo filo d’erba fino alle stelle”. La consapevole e profonda adesione all’esistente, l’immersione nella vastità dell’universo, insieme ad una presa di distanza dalla considerazione egoistica e miope del proprio vissuto, lo segnò dall’adolescenza in ogni momento della quotidianità, indicandogli la strada intellettuale da percorrere.
Gli studi severi in seminario, l’educazione sessuofobica, l’evacuazione di Reims durante la guerra, la laurea, i voti consacrati, gli attriti ideologici con le autorità ecclesiastiche: una vita dedicata quasi esclusivamente al pensiero e all’approfondimento filologico dei classici (vent’anni di ricerca sull’ oscuro retore del 300 d.C. Mario Vittorino!), ma anche le faticose esperienze di lavoro operaio, gli stenti economici, l’allontanamento dalla chiesa, due matrimoni e le ripetute debilitanti malattie: Pierre Hadot afferma di essere riuscito a superare le gravi traversie della vita grazie al senso di meraviglia nutrito per la bellezza della natura, e alla costante auto-educazione trasmessagli dalla sapienza degli antichi. Del cristianesimo apprezzava l’insegnamento evangelico e la ricerca di un’unione mistica con il divino, non condividendone però l’impronta inquisitrice e dittatoriale poco rispettosa delle scelte personali e culturali dei fedeli.
La capacità di formare le coscienze era già patrimonio della filosofia greca secoli prima della nascita di Gesù: un invito alla conversione da attuarsi con la pratica di un ammaestramento morale e fisico, basato sulla meditazione e la contemplazione, sul dialogo con i maestri, sulla rinuncia ad ogni eccesso nell’alimentazione, nella sessualità e nelle abitudini familiari, sull’apprezzamento dell’istante presente. Lo proponevano epicurei e stoici, di cui Hadot ha commentato con entusiasmo e rigore gli scritti: un assiduo richiamo agli “esercizi spirituali” come terapia in Seneca, Epitteto, Marco Aurelio, Plotino, e alla conseguente disciplina di desideri, azioni, giudizi. Troviamo questi precetti di saggezza (il distacco da sé, la temperanza, l’imperturbabilità) anche nel taoismo, nel brahmanesimo, nel buddhismo, nella patristica cristiana, nella mistica tedesca, così come in Pascal, Cartesio, Montaigne, Schopenhauer, Nietzsche, Kierkegaard, Bergson, Husserl, fino all’insospettabile Wittgenstein. Già l’oracolo delfico raccomandava “γνῶθι σεαυτόν – conosci te stesso”, e poi Agostino scriveva: “Noli foras ire, in te redi, in interiore homine habitat veritas” (nell’appendice al volume di cui ci occupiamo, sono riportare molte massime sapienziali di diverse epoche e autori). La conoscenza di sé diventa presa di coscienza di un ego trascendentale, dilatazione e intensificazione dell’io: un invito a superare la contingenza che ci sommerge e ci limita, per approdare a una prospettiva più elevata della totalità, accogliendo con coraggio all’interno della nostra esperienza anche il misterioso e l’indicibile.
Non so se l’entusiasmo con cui ho letto tutti i libri di Pierre Hadot dipenda dal fatto che nel lontano 1977 mi sono laureata, sotto la guida di una bravissima docente, proprio in filosofia antica: ma ancora oggi bastano alcune righe delle Lettere a Lucilio di Seneca a rasserenarmi se mi sento turbata da qualche episodio particolare, o una riflessione di Marco Aurelio (a sostituzione dell’infantile esame di coscienza serale) per restituirmi “lo sguardo dall’alto” raccomandato dal filosofo francese. Come dare torto, infatti, all’imperatore romano quando scriveva: “Ferma questo agitarsi da marionetta… Presto tu avrai dimenticato tutto, presto tutti ti avranno dimenticato”.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 27 aprile 2018