BYUNG-CHUL HAN, LA SOCIETÀ SENZA DOLORE, EINAUDI – TORINO 2021

Byung-Chul Han (Seoul, 1959), pensatore coreano-tedesco tra i più letti al mondo, sapientemente critico nei riguardi del neoliberalismo economico e delle derive ideologiche e sociali contemporanee, in Italia ha pubblicato con l’editore Nottetempo numerosi saggi, stimolanti e di facile lettura.

Einaudi propone oggi nella collana Stile Libero una sua concisa riflessione sulle modalità con cui le culture mondiali affrontano il male, in pratica rimuovendolo da ogni orizzonte etico e comportamentale. Con il sottotitolo “Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite”, La società senza dolore indaga come elemento caratterizzante delle società moderne l’algofobia, la paura di soffrire, per cui si tende a evitare qualsiasi circostanza conflittuale che preveda una partecipazione angosciante ad avvenimenti personali, collettivi o politici.

Sette capitoli del libro sono dedicati a una vera e propria ermeneutica del dolore , di cui si enuclea l’insensatezza, l’astuzia, la verità, la poetica, la dialettica e l’ontologia. Byung-Chul Han  ne cerca tracce definitorie nella letteratura e nella filosofia universale: Valéry,  Freud, Santa Teresa d’Avila, Andersen, Benjamin, Jünger, Weizsäcker, Butor, Celan, Heidegger, Nietzsche, Pearce.

Nel mondo attuale il dolore sembra aver perso il significato di catarsi, di conoscenza interiore, di preghiera, di riscatto dalla colpa, di relazione con Dio, di possibilità di racconto, di vincolo o desiderio, di legame solidale con il prossimo, di disciplina, di sensibilità artistica, di contatto con la realtà: è diventato semplicemente inutile, privo di giustificazione, intollerabile, fallimentare. “Non disponiamo piú di nessi di senso, narrazioni, istanze superiori o scopi in grado di abbracciare il dolore e renderlo sopportabile… Viviamo in una società della positività che tenta di sbarazzarsi di tutto ciò che è negativo”, imponendo una sorta di dittatura del benessere, della felicità e dell’ottimismo permanente, da perseguire in ogni campo. Il dolore, interpretato come segno di debolezza e passività, va nascosto o eliminato in nome dell’ottimizzazione delle prestazioni, perché non compatibile con le performance pretese dalla società.

Il dover piacere diventa un imperativo, il like assurge a emblema dell’approvazione generale. In tale nuova “cultura della compiacenza”, anche l’arte e la politica sono obbligate a conformarsi al gusto generale che ostracizza e condanna qualunque dissidenza o dissonanza, incoraggiando il conformismo e l’adeguamento alle esigenze dell’economia e del mercato. Invece proprio l’espressione artistica, che Adorno definiva “estraneità al mondo” dovrebbe offrire una narrazione antagonista rispetto all’ordine vigente: dovrebbe inquietare, disturbare, dare voce al tormento, e non servire da anestetizzante o edulcorante dei contrasti. Oggi, invece, perpetua l’Uguale, si è disciplinizzata. Come, appunto, il dolore, divenuto felpato e afono, richiuso in luoghi deputati quali carceri, ospedali, istituti che canalizzano il sapere e il lavoro produttivo. Nell’attuale regime neoliberista, il potere ha perso la sua forma disciplinare repressiva, assumendo in maniera più subdola e sottile l’abito del convincimento seduttivo: il cittadino subordinato viene convinto a realizzarsi positivamente e individualmente, in una pseudo-liberazione del proprio io,  e a occuparsi solo delle proprie esigenze fisiche e psicologiche al fine di raggiungere la felicità personale, senza interrogarsi su questioni di rilievo sociale. La sofferenza è privatizzata e psicologizzata, per impedire il diffondersi del malcontento e della rabbia politica.

Si prescrivono in maniera massiccia analgesici per coprire le responsabilità sociali che conducono al dolore, riducendolo a un apatico torpore, spoliticizzandolo e impedendogli di rendersi arma critica. L’anestesia indotta attraverso la farmacologia o con la strumentalizzazione dei media (i social,  i videogiochi, la televisione) mette al riparo la società dalla contestazione: “Cosí, invece della rivoluzione, c’è la depressione”. Gli individui, egocentrici, infiacchiti e narcotizzati, imparano ad aspirare solamente alla propria confortevole sopravvivenza, che assume un rilievo assoluto, superiore alla stessa libertà personale.

La pandemia che stiamo vivendo ha reso evidente questo paradosso: si ha paura del dolore perché si ha paura della morte, fino ad ora rimossa e adesso diventata improvvisamente e minacciosamente visibile, concreta. L’unico valore riconosciuto e accettato, anche perché politicamente inoffensivo, è l’allungamento biologico della vita, aldilà di qualsiasi dimensione metafisica o puramente etica.

© Riproduzione riservata                   «Gli Stati Generali», 13 maggio 2021