RICCARDO HELD, MISHKIN – EINAUDI, TORINO 2024

Mi piace iniziare il commento a quest’ultimo, originale libro di versi di Riccardo Held, Mishkin, prendendo in considerazione la toccante prosa finale, che il poeta dedica alla memoria del suo gatto Mishkin, intitolando a lui addirittura l’intera raccolta. Un gatto particolare, appartenente a “un altro ordine dell’essere”, “una concentrazione inspiegabile di bene incondizionato”, “creatura infinitamente più complessa, sorprendente, strana, significativa e più simile a una cosa che non so chiamare in altro modo se non bene assoluto”.

La stessa acuta sensibilità ed empatia nei riguardi di ciò che è altro da noi, e pure ci assomiglia, ritroviamo se dalla pagina conclusiva del volume si risale alla prima sezione, “Andata”, in cui un centinaio di brevissime composizioni – giocose, spiazzanti, ironiche e insieme provocatoriamente meditative –, hanno come protagonisti animali, vegetali, oggetti, idee continuamente mutanti e indefinibili.

Ereditando una tradizione minoritaria della nostra letteratura, ma  presente e vivace già nell’antichità e nel medioevo (da Giovenale a Cecco Angiolieri, Lorenzo de’ Medici e Francesco Berni), attraverso l’800 di Giusti e dei grandi dialettali (Porta, Belli, Pascarella, Trilussa), per arrivare al ’900 dei futuristi e di Palazzeschi, fino ai contemporanei Fosco Maraini, Giulia Niccolai, Toti Scialoja e Gianni Rodari, la poesia “che si diverte” e “fa divertire” scardina ogni pretesa rigidità del testo, mettendo in crisi l’orizzonte di attesa del lettore. L’esempio più calzante cui fare riferimento rimane comunque quello del limerick anglosassone, di cui fu rappresentante insigne Edward Lear: cinque versi severamente regolamentati improntati a un umorismo più o meno pungente.

Gli strumenti usati da Riccardo Held nella sua produzione sono i più vari: nonsense, satira, parodia, grottesco, paradosso, contraddizione, lapsus, calembour, incoerenza lessicale, scelti alternativamente per creare situazioni imprevedibili, incarnazioni ibride e fluttuanti, ruoli imposti che si vorrebbero sovvertire. Ecco quindi una candela che non vede l’ora di spegnersi, una coperta stanca di stare sopra il letto anziché sotto le lenzuola, un leggio desideroso di poter osservare dall’alto il libro che sostiene, un quadro astratto occhieggiante con invidia una natura morta cinquecentesca. E poi insetti, pesci, uccelli che involontariamente si trovano a fare coppia con animali molto dissimili. I titoli delle composizioni sembrano ideati a bella posta per depistare il lettore: (New economy) “La cicala non canta / Lavora e si affatica / E quando il freddo avanza / Soccorre la formica”. Troviamo capovolgimenti di situazioni: (Fiaba triste) Un principe bellissimo / Colpito da malocchio / Desidera moltissimo / Trasformarsi in ranocchio”; giochi di parole: (Nuove coppie) Ad Asti all’asta un istrice / Si aggiudica un Vermeer / – Lo appendo – dice all’astice / – Nel nostro pied-à- terre”; sarcasmo ideologico: (Atti del convegno di linguistica): “Se la lasci un po’ in pace / La lingua non si offende / Lo dice pure Chomsky / Che certo se ne intende”.

E poi filosofi, pittori, scienziati, divinità mitologiche, tartarughe parmenidee e libellule rivoluzionarie: un microcosmo di esseri intenti a riflettere le contraddizioni della storia e del pensiero umano, schiudendo “tesori sempre nuovi / di saggezza e virtù e conoscenza!”

Le altre due sezioni che compongono il volume (Pausa e Ritorno) appaiono più intimiste e tradizionali, sia nella strutturata eleganza dei sonetti sia nei ricalchi dai classici. Un ricomporsi non solo formale, recuperando echi gozzaniani e crepuscolari, ma soprattutto esistenziale quello che il poeta si propone di conquistare, dopo tanto tempo e tanto studio trascorso a sporgersi fuori di sé: un recupero di interiorità e di memoria (“Spostarsi appena, mettersi al riparo”), per ritrovare voci e immagini perdute: dell’infanzia, della madre, dell’ispirazione poetica. Alla ricerca delle proprie ombre, da rivalutare nella loro generosità protettiva (“Eccomi qui di nuovo / Nel mio luogo di sempre / Dentro la chiesa scura del mio cuore / Che stupido pensare / Di poterlo lasciare”), vincendo i demoni che oscurano la gioia di vivere, e bloccano in un egoismo smemorato della sofferenza altrui.

Riccardo Held (Venezia 1954) vive tra Venezia e Vienna, occupandosi di teatro, musica, traduzione, critica letteraria.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 14 settembre 2024