LANGSTON HUGHES, QUEER NEGRO BLUES – MARCO SAYA EDITORE, MILANO 2023
Queer Negro Blues è il primo libro uscito in Italia interamente dedicato alle due raccolte giovanili di Langston Hughes, edite tra il 1926 e il 1927 (The Weary Blues e Fine Clothes to the Jews), accolte positivamente dal pubblico statunitense, ma criticate dalla stampa afroamericana a causa della eccessiva veridicità con cui affrontavano aspetti della cultura nera ritenuti censurabili.
Hughes, nato nel 1901 a Joplin, nel Missouri, trascorse l’infanzia nel Midwest e in Kansas con la madre e la nonna, trasferendosi dopo il diploma in Messico presso il padre, con cui ebbe sempre rapporti conflittuali. Scrittore precoce di poesie, reportage, saggi e romanzi, appassionato viaggiatore ed esploratore di paesi africani, asiatici ed europei, già negli anni’20 aveva stretto intensi rapporti con esponenti della Harlem Renaissance, mettendosi in luce per il suo impegno politico e sociale, vicino alle posizioni comuniste della International Labour Defense, soprattutto dopo i suoi soggiorni a Cuba e ad Haiti. Gli esordi letterari del poeta coincisero con il periodo d’oro del modernismo, aperto dalle opere fondamentali di Eliot, Pound, Marianne Moore, Crane, Wallace Stevens, William Carlos Williams: autori attenti soprattutto a una rivoluzione formale della scrittura in versi. Contemporaneamente però si imponeva, a New York e più specificamente ad Harlem, un movimento radicalmente rivoluzionario, deciso ad affrontare temi fino ad allora poco trattati in poesia, come il razzismo, i diritti civili, la libertà di espressione, l’uguaglianza sessuale, lo sfruttamento dei lavoratori, il rifiuto dei valori della middle-class bianca. La fiera assunzione della propria “negritudine”, come appartenenza a un popolo di ex-schiavi, lavoratori sfruttati, vittime di soprusi e torture, viene proclamata in diverse poesie, già dall’iniziale Proem (“I am a Negro: // Black as the night is black, / Black like the depths of my Africa”), e ancora in The Negro Speaks of Rivers, A Black Pierrot, e nella famosissima Epilogo (“Io, anche io, canto l’America. / Io sono il fratello, quello più scuro. / Mi mandano a mangiare in cucina / Quando viene gente, / Ma io rido, / Mangio bene, / E cresco forte”), o nell’accorata protesta rivolta a The White Ones (“O, potenti bianchi, / Perché mi torturate?). Ma giustamente non reprime l’indignazione verso i neri che sfruttano, picchiano e violentano le donne, le abbandonano gravide, inducendole alla prostituzione o al suicidio; offre loro la sua voce, pietosa e solidale, raccontandone in ballate d’amore il destino tragico e rassegnato.
Il curatore dell’antologia Alessandro Brusa si interroga sul modo più opportuno di tradurre il termine “nero”: coloured, black, negro, usati dal poeta in maniera intercambiabile. “Negro” è certamente il termine più storicamente attestato e utilizzato, ma anche il più legato a un’idea di razza pregna di luoghi comuni e pregiudizi. Hueghes se ne riappropria aggressivamente, per stigmatizzare ogni discriminazione basata sul colore della pelle. Negli anni ’70 il termine “black” assunse un significato più politicizzato, da parte degli attivisti che si battevano per i diritti degli afroamericani (il Black Panther Party, e gli slogan Black Power o Black is Beautiful). Parallelamente, la traduzione in italiano privilegiava la scelta della parola “nero”, pur mantenendosi fedele al termine “negro” nella volontà di denuncia e ribellione degli autori.
Hughes aveva un rapporto intenso e diretto con la cultura popolare di massa, e i suoi testi si orientavano preferibilmente verso la descrizione di vagabondi, marinai, prostitute, ballerine, lavapiatti, biscazzieri e serve. Lo stile da lui adottato aderiva strettamente ai nuovi contenuti proposti, inserendo termini lessicali desunti dallo slang della sua gente, dai dialoghi smozzicati dei bar e dei night club, con l’introduzione di ritmi musicali del tutto inediti, derivati dal jazz e dal blues. Se quest’ultimo si esprimeva vocalmente, con intonazioni malinconiche e di scoraggiamento, il jazz invece era strumentale e più aggressivo, e il poeta tendeva a imitarne nei versi il ritmo sincopato, veloce, attraverso una scrittura ruvida, improvvisata e spontanea. All’epoca, nei locali newyorkesi come il Cotton Club o il Savoy Ballroom, muovevano i primi passi Duke Ellington e Louis Armstrong, suscitando curiosità ed entusiasmo. Sono numerose le poesie presenti in questa antologia dedicate alla nuova musica di Harlem, agli scantinati e alle sale in cui si esibivano gli artisti neri: Blues stanco, Jazzonia, Negro Dancers, Young singer, Night Club ad Harlem, Fantasia Blues, Harlem Night Song, Po’ Boy Blues…
I versi tendono a riprodurne graficamente e cacofonicamente i moduli ritmici: “Fighi ragazzi neri in un cabaret. / Jazz-bad, jazz-band, / Suona, suONA, SUONA!”, “Il mio brav’uomo mi ha lasciato, / Babe, se n’è andato via. / Ora è quel blues triste che resta / Notte e giorno in quest’agonia. // Hey! Hey! / Stanco, Stanco, / Dolore, pena”, “Il ritmo della vita / È un ritmo jazz, / Tesoro. / Gli dei ridono di noi”, “Dai su, lanciamoci nel ballo! / Skee-de-dad! De-dad! / Doo-doo-doo!”.
La Harlem Renaissance in cui il giovane poeta e intellettuale Langston Hughes era immerso bruciava di rabbia black, musica, alcol e sesso non normativo. Sull’omosessualità del poeta si rincorrevano voci e illazioni, mai tuttavia confermate nelle sue autobiografie, anche se nel 1961 nel racconto Blessed Assurance veniva affrontato il difficile rapporto, in una famiglia di colore, tra un padre e il figlio gay. Molte composizioni sono dedicate a seni e gambe femminili, e quelle esplicitamente amorose sembrano riferirsi romanticamente a un oggetto indefinito, suggerendo possibili interpretazioni ambigue quanto al genere, nel tentativo di celare il desiderio omosessuale attraverso le figure dei loving comrades (amicizie affettuose): “Oh, tesoro mio lontano! / Ah, mia amata, lontana!”, “Amavo il mio amico. / Lui è andato via da me. / Non c’è nient’altro da dire”.
Altre, più esplicitamente, parlano di ragazzi amati o da amare, con esplicite dediche a ignoti: “Dai su, marinaio, / Uscito dal mare. / Andiamo, dolcezza! / Con me devi venire”.
Nella prefazione, Alessandro Brusa evidenzia come fosse problematico ammettere la propria omosessualità quando già il colore della pelle si prestava a bersaglio di discriminazioni e angherie. Ma nella Harlem degli anni ’20 i balli in drag erano eventi sociali di grande richiamo per i turisti, celebrati nelle cronache dei giornali: il Rockland Palace Casino, ogni anno a marzo, ospitava l’Hamilton Club Lodge Ball, un evento in cui uomini ballavano con altri uomini e donne con altre donne. Nonostante questa fama esplicita e generalizzata di trasgressione, la critica letteraria posteriore oscurò la queerness rispetto alla blackness, ritenuta argomento più dirompente e socialmente rilevante.
© Riproduzione riservata «Gli Stati Generali», 9 giugno 2023