FLORA RUCHAT RONCATI, ARCHITETTO
- Non è del tutto scontato che una donna eserciti la professione di architetto arrivando a occupare una posizione di grande rilievo nel suo paese, proponendosi, quindi, come punto di riferimento. Che ruolo hanno avuto, nella sua formazione, se non nella sua vocazione, l’ambiente familiare e quello culturale in cui è cresciuta?
Tendo quasi istintivamente a smitizzare il concetto di “vocazione” nel senso di richiamo imperioso a esercitare una particolare funzione nella vita. Credo che molte delle esperienze che ci troviamo a vivere siano piuttosto frutto del caso, di una serie di circostanze spesso imprevedibili. Almeno, a me è capitato che le grosse scelte – quelle gravide di conseguenze anche esistenziali – si siano imposte quasi da sole: penso agli studi a Zurigo, ai primi lavori in Ticino, alla parentesi romana. Comunque, può anche aver avuto un suo peso il fatto che io sia nata da una famiglia di costruttori, e che quindi abbia respirato sin da piccola un certo tipo di problematiche (ma anche un vocabolario, una sensibilità) relative al mondo dell’edilizia. Intendiamoci, mio nonno era muratore, e ha vissuto tutto dall’interno il destino del ticinese emigrato costretto a mettere radici in vari paesi…
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Il Ticino, appunto, tradizionalmente considerato fucina di architetti, che importanza ha avuto nel plasmarla: prigione o trampolino?
Mi ha ovviamente condizionata, nel bene e nel male: gli anni del liceo a Lugano sono stati molto intensi, fondamentali soprattutto da un punto di vista affettivo. Ma già allora provavo prepotente la voglia, la spinta a evadere, a uscire dai suoi confini, a confrontarmi con una realtà più vasta…Zurigo è stata una scelta obbligata: era in pratica l’unico sbocco per chi – ticinese – volesse andare all’università, perché la guerra, ma in particolare il fascismo, avevano interrotto il rapporto con l’Italia che si è ricucito solo molti anni dopo. Ho vissuto Zurigo, all’inizio, con un senso di estraneità pressoché totale: la barriera della lingua costituiva una specie di diaframma tra noi e l’esterno, ancora oggi mi accorgo di non possedere il tedesco pienamente… Ma la città mi coinvolge sempre di più, tant’è vero che ogni volta che mi si è offerta l’occasione di tornarci l’ho colta al volo.
Ritornando al periodo degli studi, parecchi problemi hanno condizionato tutti quegli anni. Ricordo comunque con gratitudine e rispetto in particolare la figura di Tami, ma anche quelle di Roth e Waltenspühl, miei docenti all’ ETH. Un primo concorso pubblico, che poi ho vinto, ha segnato il mio inserimento forzato nella professione, e il ritorno in Ticino. Qui – ed è la seconda fase del rapporto con il mio cantone – per dodici anni ho lavorato a una serie di progetti nel campo dell’edilizia scolastica e residenziale, sia da sola sia in collaborazione con altri colleghi. Oggi torno spesso in Ticino, ma quasi essenzialmente per godere di quelle amicizie e di quegli affetti (persone e spazi) che durano una vita…
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Recentemente, in una conferenza all’ETH, ha esordito affermando che «parlare architettura» è più facile che «parlare di architettura». Premesso che sono convinta che lei sappia fare molto bene entrambe le cose, quali sono state le tappe più significative della sua attività?
Negli anni ’60 si viveva in un clima particolare, pieno di entusiasmi e di utopie. Lavorare nell’edilizia scolastica significava anche essere coinvolti in un grosso processo pedagogico, e quindi politico, che mediavamo attraverso la nostra unica arma: l’architettura, a cui allora attribuivamo un ruolo strutturale, convinti che anche attraverso il discorso architettonico si potesse cambiare il mondo. Ciò comportava prese di posizione, polemiche, spesso anche rischi economici. Di quel periodo vorrei menzionare i progetti dell’asilo di Chiasso, della scuola di Riva S.rVitale e dell’asilo di Viganello. Agli anni ’70 appartiene invece una realizzazione molto discussa, il bagno pubblico a Bellinzona, in collaborazione con Galfetti e Trümpy, che è stato in pratica il mio intervento conclusivo in Ticino. Nel ’75 mi sono trasferita a Roma, dove ho vissuto per un decennio, e questa esperienza ha soddisfatto una mia ansia di uscire dai confini della Svizzera, di confrontarmi con altre realtà che mi portavo dentro dall’adolescenza. Roma è una città che comunque non può lasciare indifferenti, incide a fondo. Vivere a fianco di tanti esempi di splendida armonia architettonica, stratificati in duemila anni di storia, è un continuo stimolo: e in confronto aiuta anche a ridimensionarsi, riducendo le ambizioni. Purtroppo a Roma, quando si tratta di produrre praticamente (mi occupavo soprattutto di progetti residenziali e di recupero nel meridione), il discorso si fa complesso, ci si scontra con difficoltà di ogni genere, dalle preesistenze archeologiche, ai vincoli normativi, alle pastoie politico-legali, a un’inerzia atavica che rende tutto più difficile, ma comunque sempre coinvolgente e in qualche modo possibile.
Nell’85 mi è stata offerta la cattedra di Progettazione all’ETH di Zurigo, e ho accettato con qualche titubanza ma soprattutto con curiosità. Una scommessa! L’impegno didattico mi assorbe moltissimo, più del previsto, ma cerco di non trascurare il mio lavoro più propriamente pratico, confrontandomi e verificandomi continuamente con esso. Solo così penso sia possibile travasare onestamente qualcosa di proprio nell’insegnamento quotidiano; è facile altrimenti farsi spremere come un limone, e rimanere a secco…
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Il lavoro di uno scrittore, di un pittore, è reso inconfondibile da stilemi personali, da segni di riconoscimento. Qual è il tratto che più caratterizza le sue opere?
Penso faccia stato la storia: gli infiniti esempi noti e meno noti che ci precedono costituiscono la linfa del nostro lavoro di «ricerca paziente». Evidentemente tra essi emergono figure che ci sono più consone e ci accompagnano costantemente allargando ( ma in qualche modo anche limitando, con le necessarie esclusioni) il repertorio di riferimento. È probabile che chi guarda un mio disegno, osserva una mia realizzazione, riesca a individuare una verità che mi appartiene. Anche se un architetto non è mai del tutto autonomo nel suo lavoro, deve rispondere delle sue scelte a un committente, ed è vincolato da precisi limiti e condizioni da rispettare… L’architettura è cambiata pochissimo, eppure è databile: ecco, il tentativo è quello di rispondere ai problemi di oggi con i mezzi di oggi, in un linguaggio attuale, vivo.
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Esiste una specificità femminile nell’architettura?
Ci credo poco. In ciò che risulta dal lavoro direi di no: alla fine il progetto è lì, «in carne e ossa», o sulla carta, e il suo valore o il suo livello si giudica in assoluto, senza distinzioni di sesso. Esiste, invece, un modo diverso di lavorare: la donna è più insicura, quindi più capace di recepire positivamente la critica e di rimettersi in discussione, proprio perché da poco è arrivata a questo stadio produttivo. In genere non pretende di lasciare la sua traccia, le basta lasciare una traccia, senza avere la pretesa di inventare nulla. Inoltre c’è una grossa differenza nel gestire il proprio privato, che è indubbiamente più complesso e dispersivo per una donna che per un uomo, soprattutto nei riguardi della famiglia, della routine domestica…
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Ci può illustrare la novità e il significato di questa mostra basilese che la vede tra i promotori?
La preparazione è stata un’esperienza piacevolissima per me – la prima di lavoro tra sole donne. Tre età, tre culture, tre stili, e nessun conflitto! Ci siamo poste l’obiettivo di comunicare, attraverso la manipolazione dello spazio concesso, alcuni aspetti indotti e/o congeniti della donna oggi, nei suoi ruoli diversi e compresenti, nel tentativo di lanciare al visitatore (senza distinzione di sesso) una provocazione a reagire, in bene o in male, forse a riflettere… La mostra è tutta lì da vedere, fino alla fine di giugno. È iniziata per caso il primo di aprile…Un pesce?
«Agorà» (Svizzera), 10 maggio 1989