SERENELLA IOVINO, GLI ANIMALI DI CALVINO, STORIE DALL’ANTROPOCENE TRECCANI, TORINO 202
Serenella Iovino (Torre Annunziata, 1971), saggista e studiosa di cultura ecologica, è professore ordinario alla University of North Carolina. I suoi libri Filosofie dell’ambiente (Carocci, 2004) ed Ecologia letteraria (Ed. Ambiente, 2006), più volte ristampati, hanno contribuito alla diffusione delle scienze umane ambientali in Italia. Con Ecocriticism and Italy: Ecology, Resistance, and Liberation (Bloomsbury, 2016), ha vinto il Book Prize dell’American Association for Italian Studies. Collabora a La Repubblica. Lo scorso anno ha pubblicato con le edizioni Treccani Gli animali di Calvino (uscito in inglese già nel 2021), un saggio che prende in esame il bestiario di cui Italo Calvino ha popolato i suoi romanzi, in particolare soffermandosi su cinque esemplari che, indagati nelle loro peculiarità, raccontano di sé e del problematico rapporto intrattenuto con la specie umana: formiche, gatti, un coniglio, una gallina, un gorilla.
In realtà, tutti i romanzi di Calvino sono popolati da animali, dai primi due (Il sentiero dei nidi di ragno,1947, e Ultimo viene il corvo, 1949) a Marcovaldo fino a Palomar, con un’attenzione che è interesse cognitivo ed emotivo all’ universo senziente e non parlante, vittima dell’incuria e dell’egoismo di noi bipedi. Già ventitreenne, in un articolo sull’Unità, scriveva: “Noi dobbiamo una spiegazione agli animali, dobbiamo chieder loro scusa se mettiamo a soqquadro questo mondo che è anche il loro, se li tiriamo in ballo in affari che non li riguardano”.
Serenella Iovino intreccia la sua voce a quella dello scrittore ligure con l’intenzione di far parlare i cinque protagonisti presi ad esempio, spostando il focus dal modo in cui noi li vediamo al modo in cui loro vivono, e insieme fornendo al lettore una ricca documentazione biologica, storica, ecologica delle loro caratteristiche, origini e diffusione nell’ambiente che occupiamo come fosse nostro dominio esclusivo. Donne e uomini dell’Antropocene, ci riconosciamo scissi tra un delirio di onnipotenza che vorrebbe asservire l’intero pianeta ai nostri bisogni, spesso indotti e superflui, e il consapevole e giustificato senso di colpa per come le nostre scriteriate attività hanno provocato dannosi e duraturi effetti sul clima, sui cicli biologici, chimico-fisici e geologici delle terre e dei mari, causando il collasso di molti ecosistemi.
Primo romanzo breve di Calvino a venire preso in considerazione dall’autrice è La formica argentina, del 1952, ambientato nella Riviera ligure di Ponente, dove una giovane coppia di operai, appena trasferitasi in cerca di una vita più salubre, trova inaspettatamente la casa invasa da una colonia di formiche resistenti a qualsiasi insetticida e a ogni severo decreto legge che ne imponga l’eliminazione. Calvino aveva definito questo racconto come il suo più realistico, e forse anche il più autobiografico, perché in effetti la Liguria tra gli anni 20 e 30 del secolo scorso era stata sommersa dall’occupazione degli artropodi sudamericani, che non aveva risparmiato neppure la sua casa di famiglia a Sanremo, insinuando nello scrittore il sospetto che proprio il padre, noto coltivatore e studioso botanico, potesse essere stato l’inconsapevole artefice dell’importazione di questi temibili clandestini, avendo trasferito nella regione esemplari di piante esotiche da Cuba, dove si era fermato a lavorare per alcuni anni e dove lo stesso Italo era nato. La Linepithema humile, nota per essere una delle cento specie aliene invasive più temibili al mondo, originaria della regione del Paraná, nell’arco di un secolo aveva fatto il giro dei continenti, modificandone il suolo attraverso l’azione di immense colonie coese tra loro da una particolare “eusocialità”, ovvero capacità di sviluppare un elevato grado di organizzazione comunitaria. L’espansione delle formiche sul nostro pianeta è cominciata oltre cento milioni di anni fa: la loro origine precede addirittura quella delle piante. Essendo insetti immuni all’azione dei pesticidi e capaci di adattarsi a veleni sempre più letali, hanno agito estesamente e in profondità sugli ecosistemi e lungo tutti gli anelli della catena biologica, al punto che viene da chiedersi chi siano stati i veri “invasori biologici” sulla terra, se gli insetti eusociali o gli esseri umani.
Marcovaldo (1963) è forse il libro più letto nelle nostre scuole, ma sarebbe errato considerarlo un libro “facile”, perché in realtà deve essere interpretato e discusso come una grande metafora dell’estromissione sociale. Il protagonista fa il manovale in una fabbrica di una livida città industriale del nord, e non rassegnato allo squallore urbano va alla ricerca di angoli di poesia nascosti nel grigiore, con la speranza di scoprire qua e là pezzi di natura incontaminata, mentre si imbatte in un paesaggio desolatamente sporco, inquinato, crudele con gli uomini e gli animali. Iovino si interessa a un capitolo specifico di questo volume, Il giardino dei gatti ostinati, in cui una colonia di gatti inselvatichiti, “affamati di cibo e di spazio”, competono con gli umani per accaparrarsi elementari metodi di sopravvivenza. Nessuna alleanza è possibile tra loro e il mondo civilizzato, come non lo è per Marcovaldo: felini e protagonista risultano entrambi emarginati, esclusi, resi sospetti dalla loro inaffidabilità. Per secoli questa diffidenza ha accompagnato il destino dei gatti, ci spiega l’autrice, comparsi circa diecimila anni fa in Medioriente e subito utilizzati nei villaggi neolitici per la caccia ai roditori. Questo legame basato sulla vicinanza e sull’opportunismo reciproco ha favorito il processo di domesticazione dei gatti, che tuttavia continuano a mantenere un certo grado di indipendenza dal mondo degli umani. Nonostante oggi si siano conquistati il ruolo affettivo di animali da compagnia, la loro proliferazione in colonie nocive li rende tuttora oggetto di tecniche di rimozione progressiva (abbandono, castrazione, uccisione). Calvino consegna alla nostra riflessione una domanda sull’ecologia politica delle città moderne, che non lasciano spazio né alla natura né alla biodiversità sociale.
Se nei primi due capitoli formiche e gatti venivano presentati collettivamente, nelle successive tre sezioni vengono introdotti nella loro singolarità un coniglio da laboratorio ospedaliero, una gallina in un’officina meccanica e un gorilla albino nel giardino zoologico di Barcellona, in tre luoghi assurti a simbolo di oppressione e strutture di dominio (il laboratorio, lo zoo e la fabbrica) che hanno soggiogato specie diverse dalla nostra a partire dall’inizio dell’età industriale. Nell’epoca dell’Antropocene in cui viviamo, il destino degli animali finisce per convergere “con quello delle persone marginali e subalterne, vittime di un potere che dispone di loro in maniera capillare e totale”.
Il coniglio velenoso è un racconto compreso in Marcovaldo, intrecciato fisicamente ed emotivamente con la vita del protagonista: uomo e animale condividono la stessa esperienza in un reparto ospedaliero, in balia della medesima violenta reclusione e di una sperimentazione medica passivamente subita. Il manovale trafuga la bestiola dalla gabbia in cui è rinchiusa con l’intenzione di portarla a casa e di cibarsene con la famiglia. Messo in allarme dai medici per la pericolosità del coniglio cui era stato somministrato un virus letale, finisce nuovamente in clinica insieme all’animale, di nuovo entrambi prede di crudeli test scientifici.
Nel volume I racconti del 1958 troviamo La gallina di reparto, “combinazione di commedia agrodolce e apologo morale”, tentativo di conciliare narrativa di invenzione e realismo sociale su sfondo marxista. Adalberto, guardia giurata, porta in fabbrica una gallinella lasciandola libera di andarsene in giro a caccia di vermi, tra bulloni e viti arrugginite. Socievole e innocua, lei fa l’uovo regolarmente, illudendo il guardiano sulla possibile creazione di un intero pollaio. Presto la presenza della pennuta innesca però una competizione tra gli operai e provoca l’irritazione dei dirigenti, per cui alla fine si decide di sgozzarla, mettendo fine all’utopia di far coesistere fabbrica e campagna, in nome del nuovo ordine industriale capitalista. Ancora una volta, Calvino mette in scena il dissidio tra natura e cultura, tradizione e progresso, reso concreto nel rapporto tra l’ingenua spontaneità animale e le spietate esigenze produttive degli uomini.
Appartiene a Palomar (1983), suo ultimo romanzo, il racconto Il gorilla albino in cui il protagonista (alter ego dell’autore), visitando lo zoo di Barcellona, si sofferma a osservare, al di là di una vetrata assediata dai visitatori, l’attrazione principale: un grosso scimmione dal pelo bianco e dal “lento sguardo carico di desolazione e pazienza e noia”, abbracciato a un copertone di pneumatico d’auto, quasi fosse un giocattolo consolatorio per placare l’angoscia e aggrapparsi a un aiuto concreto, in una realtà da lui patita come spaesante e costrittiva. Serenella Iovino ricostruisce la vicenda del gorilla bianco dalla sua nascita in Guinea Equatoriale, fino alla sua cattura e deportazione in Spagna e alla reclusione in uno zoo che lo esibisce come un fenomeno della natura e un trofeo conquistato in una campagna coloniale, unico esemplare al mondo con un patrimonio genetico da conservare. Con le scimmie antropomorfe gli esseri umani hanno in comune il 98% del DNA, e su questa affinità e differenza si gioca il ruolo di dominio e sopraffazione che da millenni ha creato abissi “tra esseri che hanno la stessa radice evolutiva e a cui, fatalmente, è impedito di riconoscersi come soggetti fraterni”. Italo Calvino utilizzava la letteratura come chiave di lettura di una contemporaneità sempre più complessa, eleggendo gli animali a interpreti, precursori e vittime dei cambiamenti che avrebbero investito il nostro pianeta, accelerandone l’estinzione in atto nell’Antropocene. Gli effetti oggi ben visibili dall’esplosione delle attività industriali su atmosfera, litosfera, biosfera e sociosfera, oggi minacciano sia l’esistenza umana sia quella non umana: Serenella Iovino rilegge sapientemente le storie degli animali calviniani attraverso gli strumenti dell’ecologia, della biologia, della semiotica, della psicanalisi, convinta che calarsi nel loro mondo ci possa aiutare a capire di più il nostro, che non è l’unico meritevole di attenzione.
© Riproduzione riservata «Gli Stati Generali», 27 ottobre 2024