ISA MARI, NELLA CITTÀ L’INFERNO – READERFORBLIND, LADISPOLI 2023
Nella letteratura italiana del ’900, un posto di rilievo è stato occupato da Goliarda Sapienza, scrittrice di importanti romanzi, tra cui L’università di Rebibbia, in cui descriveva la sua reclusione in carcere per il furto di gioielli compiuto in casa di un’amica. Un’altra prigionia, durata otto mesi nella sezione femminile di Regina Coeli per motivi politici, è stata raccontata da Isa Mari, nel volume Roma, via delle Mantellate (Casa Editrice Libraria Corso, 1953). Isa Mari (1910-1992), pseudonimo di Luisa Rodriguez, era figlia dell’attore e regista Febo Mari e dell’attrice Piera Vestri. Fu attrice cinematografica e teatrale come i genitori, e inoltre sceneggiatrice e autrice di un secondo libro di successo oltre a quello citato: Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata, del 1972. Dai suoi romanzi sono stati tratti due film altrettanto famosi. Il primo, Nella città l’inferno, diretto da Renato Castellani nel 1959, aveva come protagoniste Anna Magnani e Giulietta Masina. Nel secondo, spesso riproposto dalle nostre emittenti televisive, un magistrale Alberto Sordi era affiancato da Claudia Cardinale per la regia di Luigi Zampa.
Il romanzo di Isa Mari, che le edizioni RFB ripropongono ora con il titolo del film di Castellani, Nella città l’inferno, si apre con la numerazione delle detenute in attesa di salire sul camioncino cellulare che le condurrà alle Mantellate: “Una… due… tre… quattro… cinque… La carne è caricata. Si parte”. La narratrice, compresa nel gruppo, elenca i vari stadi dell’ingresso in carcere, le reazioni delle arrestate e la crudele impassibilità delle guardie: consegna del denaro e degli oggetti preziosi, richiesta dei dati anagrafici, prelievo delle impronte digitali, perquisizione fisica, attraversamento del cortile. “Alzo la testa: finestre, finestre, finestre, piccole, una vicina all’altra, protette da sbarre… E visi fra i riquadri delle sbarre e bocche spalancate e capelli scompigliati di teste ammonticchiate una sull’altra dietro i ferri e mani che scuotono i ferri e voci rauche e frizzi osceni e risate grasse”.
Il racconto procede con la sinteticità di appunti diaristici, sia nella descrizione del susseguirsi degli avvenimenti, sia nel commento delle caratteristiche fisiche e morali dei personaggi che li animano. Dialoghi serrati, spesso in romanesco, in pagine che mantengono la struttura di un copione cinematografico neorealista.
Le donne che costituiscono il popolo di Regina Coeli hanno età diverse, sono poco più che adolescenti, madri di famiglia mature, vecchie avvizzite e malate: assassine, ladre, matricide, truffatrici, prostitute, strozzine, oppositrici politiche. Tra loro convivono malate psichiatriche, ragazze gravide, drogate in astinenza. Isa Mari le presenta senza retorica e senza falsi pietismi, con un’oggettività che non indulge né a toni accusatori o recriminatori, né a volontà di redenzione o consolazione, limitandosi a constatare che nella “tomba dei vivi” si respira un’aria di perpetua agonia, di miseria e violenza, di ignoranza e sporcizia diffusa: “qua dentro tutto sa di morte”. Le giornate si avvicendano tutte uguali, dal caffè sbobba col pane duro della mattina, all’ora d’aria in cortile, con pasti scarsi e insipidi, notti passate a rigirarsi su lettini di ferro, turpiloquio continuo. “Corpi bolsi, visi giallastri, fiato pesante. Anche le più giovani… Un’aria disfatta. Sempre spettinate, con quelle camicie corte che tagliano male le gambe, i piedi nudi… senza far nulla dalla mattina alla sera. Qualche passo su e giù per la cella e poi sdraiate, gambe all’aria, sigaretta in bocca. Quattro per cella, vicende diverse ma ugualmente trucide e infelici. L’autrice, passata presto all’ambito incarico di bibliotecaria, ricostruisce la storia familiare e il percorso giudiziario delle sue compagne di sventura, partendo dal loro apprendistato al crimine: l’ambiente sordido e violento che le ha viste nascere e crescere è di per sé causa e giustificazione del loro delinquere, e non necessita di alcuno scavo psicologico da parte di chi lo descrive. Donne marchiate per sempre, che non troveranno pace nemmeno una volta uscite di prigione.
Ma in quell’aria “putrida di ogni colpa” succede anche che una detenuta partorisca il suo primo figlio, accompagnata nelle doglie e poi nello sgravarsi dall’emozione di tutto le recluse: “Le donne, tutte, di tutte le celle, di tutte le sezioni, balzarono dal letto e si attaccarono alle sbarre delle porte, delle finestre, volgendo il capo in alto, su, dove la robusta contadina della campagna romana, aveva dato alla luce il suo primo nato… E da un’ala all’altra del fabbricato, da una finestra all’al tra, più argentine di un suono festoso di campane, cento, duecento, trecento voci, a due, a tre, a cinque squillarono: È un maschio!”.
Con il suo venire al mondo in un luogo di pena e sofferenza, il neonato reclama il diritto alla vita di ogni creatura, per quanto colpevole possa essere o sembrare, come commenta una delle condannate: “Che? Siam fatti Dio, noi, per giudicare?”
© Riproduzione riservata
SoloLibri.net › Recensioni di libri › Nella città l’inferno di Isa Mari 14 gennaio 2023