COSTANTINO KAVAFIS, LE POESIE – EINAUDI, TORINO 2015
Con un’esauriente ed empatica prefazione di Nicola Crocetti, escono da Einaudi tutte le poesie di Costantino Kavafis: le 154 canoniche, più una quarantina di inedite (le “nascoste” e le “rifiutate”) ed alcune prose. La prima edizione italiana del corpus poetico del poeta alessandrino risale al 1961, quando Filippo Maria Pontani presentò ai lettori italiani un’antologia di testi accompagnati da un’egregia traduzione. La versione di Crocetti appare parimenti fedele e attenta, tesa a rendere soprattutto l’eleganza musicale della lingua di colui che rimane, dopo circa un secolo, il più grande e conosciuto tra i poeti ellenici.
Il volume è suddiviso in cinque capitoli, che scandiscono cronologicamente la produzione in versi, parca e controllata, di Kavafis: dal 1905 alla morte. Costantino Kavafis nacque ad Alessandria d’Egitto nel 1863, e vi morì nel 1933, allontanandosene solo durante l’adolescenza, trascorsa in Inghilterra con la famiglia, o per brevi soggiorni all’estero: nella sua città condusse una vita ritirata e modesta, lavorando per trent’anni come impiegato part-time al ministero dei Lavori Pubblici. «Poeta vissuto ai margini di tutto», scrive il prefatore del volume: «dell’impero geografico e delle lettere, della vita sociale e professionale, dell’editoria e della critica». Eppure, i suoi versi (che in vita circolarono quasi clandestinamente tra pochi amici ed estimatori, o in riviste di scarsa diffusione) hanno mantenuto nei decenni un fascino e un richiamo costante per la loro nitida classicità, e per l’intensità delicata e sensuale con cui esplorano ogni aspetto dell’esistere. A partire proprio dall’amatissima città natale, raccontata nel suo mare e nei suoi vicoli, nei caffè e nei bordelli, negli odori e negli incontri fugaci. Alessandria inevitabile come un destino: «Ti verrà dietro la città. Per le stesse strade / girerai. Negli stessi quartieri invecchierai; / e in queste stesse case imbiancherai»,
Appunto, le case. Abitazioni povere, male arredate, in cui l’unica stanza di rilievo è sempre e solo la camera da letto, dove godere voraci amori: «La camera era povera e triviale, / nascosta sull’equivoca taverna. / Dalla finestra si vedeva il vicolo / sudicio e angusto. //…E lì, sull’infimo e sordido giaciglio, / ebbi il corpo d’amore…», «Se la conosco bene questa stanza. //…Ah, come mi è familiare questa stanza. //…Di fianco alla finestra c’era il letto / su cui ci amammo tante volte», «So che tutto è povero qui dentro, / che ben altri ornamenti meritavano / gli amici miei…».
E poi le strade (strette, buie, sporche, rumorose), i negozi, i mercati, i bar, gli alberghi equivoci («Andai nelle camere segrete / e su quei letti mi distesi e giacqui.»). E il mare, con la sua grandiosità luminosa: «Mare al mattino, cielo senza nubi/ d’un viola splendido, riva gialla; tutto/ grande e bello, fulgido nella luce». Kavafis, votato alla bellezza – da cui veniva sedotto e rapito in una sorta di estatica gratitudine – la cercava ansiosamente ovunque: negli oggetti, nella natura, nei volti («Che bel ragazzo; che meriggio divino / l’ha catturato per addormentarlo.- / Resto così a guardarlo a lungo.»), quasi però col timore di sciuparla, avvicinandosi troppo ad essa. Nello stesso modo anche gli amori, vissuti talvolta con vergognoso abbandono, più spesso erano vagheggiati da lontano, o recuperati solo nel ricordo: «Non ti ebbi, né mai ti avrò, suppongo. / Qualche frase, un accostamento / come l’altr’ieri al bar, nient’altro», «Ricordo appena gli occhi; erano azzurri, credo…/ Ah sì, azzurri, uno zaffiro azzurro», «S’è ancora vivo, si saranno imbruttiti gli occhi grigi, / si sarà sciupato il bel viso. // Serbali tu com’erano, memoria. / E, memoria, di quel mio amore tutto ciò che puoi, / quanto più puoi riportami stasera».
Il sentimento del trascorrere inarrestabile del tempo, della caducità dei sentimenti, del deterioramento fisico era avvertito con timore e ribrezzo: la vecchiaia temuta come uno spettro inevitabile, e descritta più negativamente della morte.
Tuttavia il passato non era solamente nostalgia, rimorso o rimpianto, per Kavafis: domina in tutta la sua produzione poetica una considerazione altissima, orgogliosa, esaltante della storia antica, dei personaggi (eccelsi anche quando appartengano ai ceti più umili e trascurati) che avevano resa celebre con le loro imprese o con l’arte la grandezza della civiltà ellenica. Persino la sua personale omosessualità andava alla ricerca di una nobile affinità e consacrazione nella cultura classica dedita agli amori efebici, e lì trovava la sua giustificazione, il suo riscatto.
Lari privati ed Erinni pubbliche, sovrani e tiranni, guerre e processi, vittorie e sconfitte: tutto torna, dal palcoscenico della storia, a riverberare nella coscienza ulcerata e pietosa di chi scrive. «Accadranno / le stesse cose, accadranno di nuovo -/ gli stessi istanti ci trovano e ci lasciano», uguali e comuni per tutti gli uomini, nei secoli e nei minuti, sebbene riconosciuti nella loro divina unicità dalla sensibilità di pochi: «Non credete solo a ciò che vedete. / E’ più acuto lo sguardo dei poeti».
«Lo Straniero» n.181, luglio 2015