CLAUDIO LAGOMARSINI, AI SOPRAVVISSUTI SPAREREMO ANCORA – FAZI, ROMA 2020
Un incipit ungarettiano, quello con cui Claudio Lagomarsini apre il suo primo romanzo, pubblicato da Fazi, Ai sopravvissuti spareremo ancora: “Di tanti che eravamo siamo rimasti in pochi” (Di tanti / che mi corrispondevano / non è rimasto / neppure tanto, scriveva il poeta). Chi siano i sopravvissuti, e perché si debba loro sparare, il lettore verrà lentamente a scoprirlo, con qualche sorpresa.
La voce narrante del racconto è un giovane uomo incaricato dalla madre di vendere la vecchia casa di famiglia in Versilia: lui vive in un altro continente, avendo scelto di lasciarsi alle spalle il passato. Tra gli scatoloni preparati per il trasloco, trova l’abbozzo di un romanzo di suo fratello Marcello, da cui lo dividevano una piccola differenza d’età e una sostanziale estraneità di carattere. Legge gli appunti, “frastornato da una miscela di amarezza, angoscia e disincanto”, e leggendo recupera episodi avvenuti quindici anni prima e narrati con analitica severità, da cui nessun membro della famiglia sembra uscire bene. I cinque quaderni in cui Marcello aveva vergato la sua storia, con grafia minuta e quasi indecifrabile, prendono l’avvio da una rapina avvenuta nell’estate del 2002 nel villino di un vicino di casa ottantenne, chiamato “il Tordo”. Lentamente, attraverso le parole scritte, si delineano i caratteri dei familiari, le diverse ideologie e i rapporti faticosamente instaurati tra di loro.
Famiglia allargata, e piuttosto scombinata: una nonna ancora vivace, che nulla si nega e si è mai negata dal punto di vista sessuale; una madre separata dal marito, agronomo emigrato in Brasile quando i figli erano bambini; il nuovo compagno della mamma, rozzo negoziante (divorziato con due rampolli problematici), a cui è stato affibbiato il nomignolo di Wayne a motivo della sua passione per i film western e per le armi. Passione condivisa anche dal vecchio vicino derubato, che è l’ultimo amante della nonna, e coltiva a metà l’orto di casa insieme a Wayne, con i conseguenti e inevitabili litigi e reciproci dispetti, in una visione condivisa, e asfitticamente provinciale, del concetto di proprietà.
All’interno di questo variopinto universo adulto, ruota una costellazione giovanile altrettanto disarmonica. L’autore del romanzo in bozze, Marcello, è un liceale sensibile e colto, infelicemente innamorato della coetanea Sara, e orgogliosamente maldisposto nei confronti della fauna umana che lo circonda, ritenuta volgare, stupida, malvagia, violenta. Il fratello di lui, detto “il Salice” per la propensione alle lacrime, primo lettore del tragicomico diario: forse superficiale, forse indifferente, comunque deciso a non lasciarsi coinvolgere più di tanto dagli avvenimenti domestici. Un nipote gay del vecchio vicino, interessato esclusivamente alle mance del nonno e alle proprie volubili amicizie maschili. I due figli di Wayne, una insipida e impaurita Ramona, e un Diego modesto ladruncolo spacciatore di hashish.
Marcello registra nei quadernetti le sue emozioni di adolescente, una malinconica e rabbiosa ostilità nei riguardi del mondo ottuso da cui è oppresso, fantasie omicide e progetti di suicidio, (“Immagino com’è dolce, il non esistere più”), l’amarezza di un amore non corrisposto, i complessi causati da un leggero strabismo e dal fisico mingherlino, gli “accessi di disperazione e ira” che lo spingono al mutismo o a rabbie incontrollate, il fastidio intellettuale provocato dai programmi televisivi (Montalbano, Studio Aperto, Paperissima…), tanto apprezzati da chi gli è accanto. Insomma, la sua totale estraneità ai pregiudizi e alle isterie della piccola borghesia toscana in cui si trova a vivere, ne fa a tutti gli effetti la vittima predestinata, consapevolmente presago del destino che lo attende. A proposito del patrigno Wayne scrive: “Mi troverò seduto a tavola, col sorrisetto d’angelo a ridere delle battute volgari, delle trovate pecorecce e dei doppi sensi, degli aneddoti da spaccone che fanno ridere mamma. Lo guarderò trattarla come una serva e una badante, ordinarle il caffè con la distrazione sprezzante che non si riserva nemmeno a un aiuto-barista di un autogrill affollato. Lei come una cosa sua, ormai, che lui ha tolto a mio padre, e che mio padre, mansueto e remissivo, si è lasciato rubare zitto zitto, prima di scappare lontano a formattarsi la vita”.
Il lessico familiare forgiato da Lagomarsini è vivace e ironico, modulato sulla narrativa americana più recente, forse con qualche insistita e compiaciuta minuziosità nella parte centrale del romanzo, tuttavia riscattata dal finale imprevisto e drammaticamente risolutivo.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 23 gennaio 2020