PAOLO LANARO, POESIE DALLA SCALA C – L’OBLIQUO, BRESCIA 2012

Delle sei sezioni che compongono questo elegante volume di versi, pubblicato da una piccola casa editrice bresciana, le prime due – Qui Rebus – sembrano dare l’impronta più profonda e caratterizzante all’intero corpus delle composizioni.  Rebus in realtà è un capitoletto di una settantina di illuminazioni in prosa, brevissimi brani che tanto si avvicinano alla poesia nel delineare con tenerezza e pudore la figura del padre dell’autore, ragioniere ed ex prigioniero di guerra dotato di «un senso appropriato delle relazioni, una sorta di costruita politesse». Un uomo anziano, garbato, che si sorveglia nei rapporti col mondo e con il suo inarrestabile, crudele tramonto fisico («Cammina con difficoltà. Dice: tanto, dove vado?»), un piccolo-borghese che passa il tempo a guardare fuori dalla finestra o a risolvere i rebus, a collezionare francobolli, rassegnato a una sorta di non vita e alla fine che si avvicina («Scivoliamo via lentamente»), fine che il figlio scrittore chiosa con una domanda crudele e retorica insieme: «Dunque in che modo termina la bellezza?». Alla bellezza Paolo Lanaro, poeta schivo e delicato, dedica i suoi versi migliori : «Ho visto il ricordo tramutarsi / in un frammento di bellezza», e sembra assaporarla in sorsi brevi, quasi con timore di sciuparla. La trova nei gesti minuti quotidiani, nei pensieri che si affacciano timidi e balenanti, in memorie sfocate, negli incontri più banali. O in affetti ( la moglie, i figli, i vicini della scala C) che non diventano mai passioni, ma servono comunque per andare avanti. Così come ancore di salvezza sono le cose piccole che ci circondano, e a cui non si presta mai abbastanza attenzione: l’erba, i fiori sul balcone, i mobili consunti, gli animali: «C’è da chiedersi come si potrebbe / essere amici di un uccello. / Come si fa a incontrarsi a una certa ora, / prestarsi le cose, dirgli che l’erba ci piace?», «Un giorno la lampadina scoppia, / lasciando il ricordo della luce». Sono gli eventi miracolosi e quasi inavvertiti che riescono a dare il significato più vivo all’esistenza: ««Un sasso schizza sul parabrezza, / frantumando la luce in piccolissime / fibre cieche. C’è un esito / delle cose che nessuno si aspetta». Niente ha più valore che trascorrere la giornata in un rituale semplice di azioni ripetute, come nella struggente poesia : «Che c’è da dire?», scandita da successivi «dopo» che elencano i gesti più triti insieme al passare delle ore, al modificarsi dell’ambiente esterno, al succedersi di pensieri e sentimenti diversi nel proprio intimo. Dunque, la filosofia che sorregge la vita non ha più nulla di ideologico, non combatte più con speranze, illusioni o lotte: «Tra un po’ seminerò l’asteria e il rosmarino. / Ormai credo soltanto a questo: all’erba / che germoglia al chiaro di luna, / che cresce e non ha nessuno scopo / salvo il suo splendore». E questo lasciarsi vivere, osservando ciò che intorno ci rassicura della nostra stessa esistenza, diventa una dichiarazione di poetica e di fede: «Questo non è che l’inizio di una serie / di piccoli fatti sconosciuti. // Il tappeto con un angolo sdrucito, / il barometro stabile, il ronzio del frigo… // Quando infine si risolve tutto / ascoltando il fragore del vento, // tagliandosi la barba, spazzolando / le scarpe, facendo pulizia».

E ancora «Mi sono successe varie cose / nelle ultime ore. // Infine è sceso il silenzio. Il lungo, infaticabile / coro del silenzio delle nuvole e della luna». I poeti amati, soprattutto i classici  (Orazio, Virgilio, Persio) fanno compagnia, così come alcuni contemporanei per cui si scrivono omaggi: ma sembra comunque che anche questo non basti, perché «Tutto scorre. Noi e anche voi, naturalmente. / Anche adesso. Anche senza saperlo». E una presenza femminile che avrebbe potuto offrire salvezza se ne è andata insieme agli anni giovani («Ma quali guinzagli ci volevano / per impedirti di fuggire? / E adesso quale lingua parli nel buio?»). Per cui non resta che rassegnarsi all’attesa, in compagnia della pioggia, degli abiti che indossiamo, degli oggetti cui ci aggrappiamo, per raggiungere la sola meta concessa: «Una sfatta dolcezza della mente».

 

«Poesia» n. 277, dicembre 2012