PAOLO LANARO, CONTRO I VENTI INVISIBILI – CIERRE, SOMMACAMPAGNA 2017
Un poeta rimane tale anche quando scrive in prosa. È il caso del vicentino Paolo Lanaro, alla terza prova narrativa pubblicata presso le edizioni Cierre: tre libri che circumnavigano la sua esperienza esistenziale, la sua realtà ambientale e culturale, la sua vita lavorativa. Nel più recente, Contro i venti invisibili, Lanaro esplora con pacata nostalgia e indulgente autoironia i percorsi – soprattutto mentali ed emotivi – che l’hanno portato a raggiungere l’età pensionabile, le impalpabili correnti aeree (brezze, folate, raffiche…) che hanno diretto e condizionato, più o meno consapevolmente, tutte le sue scelte. A partire dalla primissima infanzia, già segnata da una sensibilità particolare, da una disposizione del carattere alla riflessione e alla malinconia; passando poi per un’adolescenza e una giovinezza attraversate da utopie politiche e sogni di riscatto sociale, fino all’approdo scontato e disilluso alla professione di insegnante, a cui vengono dedicate le pagine più intense, accorate e disincantate del libro. Arrivando poi al severo bilancio con cui l’autore si giudica: «Appartengo a una schiatta che ha filtrato quasi tutto attraverso i libri, ignorando l’esperienza diretta», «ho consumato anni e anni a inseguire gloria, successo, denaro. Per essere precisi non ho ottenuto niente di tutto ciò. Lo sottolineo senza rimpianti», «Adesso mi domando con apprensione, ma anche con risolutezza: dove posso aver sbagliato?».
I rimpianti, certo. E i ricordi. Lanaro li ausculta e ce li comunica con puntigliosa e sorridente partecipazione. Le frequenti malattie, i ricoveri ospedalieri, le ipocondrie; le morti di parenti e amici; gli scrittori e i musicisti più amati; le passeggiate in una città imbruttita dallo scempio edilizio e sulle montagne sempre più invase da gitanti irrispettosi. Ma sono i quarant’anni trascorsi nelle aule scolastiche come insegnante di italiano e filosofia a monopolizzare la memoria dell’autore: dagli esordi nelle supplenze vaganti in paesini sperduti della campagna vicentina, alle cattedre vinte nei seriosi licei della buona borghesia; dai colleghi frustrati o sindacalmente rivendicativi ai genitori boriosi o reazionari; dagli alunni svogliati o aggressivi a quelli intimoriti e volonterosi. Bozzetti divertenti e amari (il figlio rachitico di contadini che a ogni interrogazione risponde “Cosa vùto che sai mi?”, la ragazzina saputella che corregge il professore su un’imprecisione lessicale, l’ex allievo disoccupato che implora aiuto, la collega aspirante seduttrice che si affida al chirurgo estetico, i bidelli scansafatiche e i presidi implacabili burocrati…). Ogni flashback induce a riflessioni amare: «le scuole per cui sono passato erano per lo più delle aziendine tristi e monotone. I pezzi prodotti tendevano ad assomigliarsi, certi colleghi si comportavano come dei capireparto, il ceo, cioè il preside, si occupava principalmente delle assenze per malattia. Verificava, controllava, puntualizzava, ammoniva», «gli studenti invece di essere, come sarebbe da aspettarsi, gli agenti del cambiamento, sono talvolta i manutengoli della rovina».
È comunque lo scorrere implacabile del tempo, con l’erosione crudele delle forze fisiche e il pensiero sempre più assillante della morte, il tema che emerge con maggiore evidenza nella scrittura pacata e meditativa di Lanaro («E dopo? È sempre il dopo il problema. Dopo finisce, anno più o anno meno»), e che gli detta le parole più commosse e malinconiche sull’irrecuperabilità del passato, sull’inevitabilità del distacco. Parole di poeta: «Il caldo del pavimento dove passano le tubature dell’acqua calda. Camminare per la casa in calzini. Posare il naso sul vetro e guardare la pioggia che scende. Agguantare un’antica felicità senza nome. Quando lei aveva vent’anni. Quando avevi quella bella maglietta blu. Quando c’erano i tuoi genitori che pensavano a tutto». Chiosate in appendice da una serie di aforismi sul vento, come questo, toccante, di Tahar Ben Jelloun: «Il vento soffia, sovrano e indifferente. Come sfuggire al tempo? Come renderlo meno pesante? Come non pensarci più?».
© Riproduzione riservata «Incroci» n. 36, dicembre 2017