TOMMASO LANDOLFI, A CASO – ADELPHI, MILANO 2018
Dei racconti di A caso, pubblicati da Tommaso Landolfi nel 1975 e vincitori del Premio Strega, Italo Calvino scrisse che avevano lo stesso effetto di “un’unghia che stride contro un vetro, o d’una carezza contropelo”. Si tratta di tredici storie urticanti, percorse da sentimenti aggressivi, irrisori o polemici, animate da personaggi sogghignanti e ostili, com’era nella consuetudine del loro autore, uno dei maggiori della nostra letteratura novecentesca, per quanto poco conosciuto a causa della sua algida riservatezza e della sua scrittura ricercata e di difficile presa sul pubblico. Stimato dai maggiori intellettuali contemporanei (Bo, Montale, Bassani, Soldati, e dallo stesso Calvino, che ne curò un’antologia per Adelphi, così inquadrandolo: “Il rapporto di Landolfi con la letteratura come con l’esistenza è sempre duplice: è il gesto di chi impegna tutto sé stesso in ciò che fa e nello stesso tempo il gesto di chi butta via”), Tommaso Landolfi nacque a Pico, nel Frusinate, nel 1908, da una nobile famiglia di proprietari terrieri, di cui mantenne sempre l’orgogliosa impronta aristocratica, conservatrice ed elitaria in politica e nella scelte culturali.
Laureatosi a Firenze in letteratura russa con una tesi su Anna Achmatova, iniziò presto a collaborare a diverse riviste, pubblicando poi volumi di racconti e romanzi in uno stile sospeso tra il fantastico e il grottesco, segnati da pessimismo esistenziale, corretto tuttavia dall’ironia, e spesso da un beffardo sarcasmo. Utilizzando un linguaggio sofisticato, in cui fondeva barocchismo e invenzione sperimentale, Landolfi descriveva un mondo abitato da individui singolari, segnati da difetti degradanti, da umori biliosi, da immodificabili malinconie che li allontanavano dalla comunità circostante e dai valori condivisi della modernità: in primo luogo dalla fiducia nel progresso, nella solidarietà umana, in qualsiasi fede salvifica. Questa disposizione d’animo, fortemente critica nei confronti dell’attualità, insieme all’invenzione linguistica giocosa, manipolatoria, lussureggiante, fece di lui un isolato nel mondo letterario: di tale emarginazione sembrava quasi compiacersi, consapevolmente fiero della propria eccentricità.
Nei racconti ora riproposti da Adelphi (che dal 1992 sta recuperando tutto il repertorio landolfiano), l’autore utilizza frequenti arcaismi (pel fatto, eziandio, sicché, mi avvidi, donde, codesto, ella…), termini desueti (lorco, vello, brumoso, ingrommato, gemino, agognamento, frusto…), quando addirittura interpretabili solo ricorrendo al Vocabolario dell’Accademia della Crusca (flebotomo, edule, sparnazzare, soprassello, mucido, vespertillo, mencio…), evidenziando così la sua decisa presa di posizione in favore di una letteratura esente da qualsiasi finalità didattica o di impegno, ma incentrata sull’eleganza formale, sulla cesellatura della parola, in una sfida esibita alla banalità lessicale, alla superficialità della costruzione sintattica, alla pesantezza realistica.
La maggior parte dei racconti assumono una struttura dialogica, secondo una tradizione che da Platone (attraverso Galilei e le Operette Morali di Leopardi) arriva a Calvino, privilegiando la configurazione del contrasto ideologico, del confronto pungente tra due posizioni eticamente avversarie. Quando i protagonisti sono una coppia eterosessuale, il duello verbale tra uomo e donna si risolve in una schermaglia da minuetto settecentesco (“se io non avessi avuto bisogno di te, a poco ti sarebbe servito l’aver bisogno di me”, “Tu, si tu, desideri sposare me? Desideri che io desideri sposarti?”), oppure in un assedio crudele e morboso, o in caustico divertissement.
Nel caso invece di una disputa ideologica, l’argomentazione si fa più acuta e penetrante, quasi da dissertazione sofistica. Allora ci troviamo davanti a piccoli gioielli di intelligenza corrosiva e irriverente, come in Le Maiuscole, in cui un personaggio si fa beffe della Storia italiana e universale, mescolando ironicamente vittorie e sconfitte militari, eroismi e vigliaccherie, da Zama a Garibaldi, da Caporetto alla Guerra delle Due Rose fino a Mussolini: “Maiuscolo tutto: maiuscole le Autorità Civili e soprattutto Religiose, maiuscoli i Bersaglieri, maiuscoli i Discendenti, maiuscolo il Papa, maiuscolo daccapo il Tricolore, maiuscolo la piena Coscienza civile e la piena Cognizione di Causa (e non già del dolore), maiuscolo… oh, per favore, aggiungi Qualcosa!”. Ancora, in Volpi scodate un vecchio disamorato della vita propone al giovane contraddittore una castrazione universale in modo da evitare la riproduzione di figli disperati: “Pensa: adesso sì possiamo essere liberi e felici, sapendo che un giorno o l’altro (presto, presto) tutta questa abominosa storia finirà, finirà pure, a marcio dispetto di Lui lassù, del Tiranno, del Massacratore! In breve, non c’è più un domani: che consolante certezza. Era in definitiva il domani che ci avvelenava, fosse speranza o terrore; adesso al contrario, esaurita questa residua carica vitale, potremo chiamarci fuori, e Lui avrà un bel fare!” Nel primo brano, che dà il titolo alla raccolta, uno scrittore famoso (“il personaggio dalle due voci”) viene invitato dal suo interlocutore a compiere un’azione violenta, A caso, uccidendo il nipotino dei vicini di casa, giusto per dimostrare una qualche vitalità e passione nell’insulsaggine della sua vita amorfa. Ma l’intellettuale, omicida in pectore, si perde in elucubrazioni astratte sul significato dei nomi di battesimo, incapace sia di agire nei confronti del bambino, sia di sedurne l’incantevole sorella maggiore. Nell’universo mentale di Landolfi, nemmeno l’eros offre piacere, ma sempre umiliazione, noia, insulso confronto di prestazioni sessuali, e va quindi trattato con grottesco umorismo, o con sconforto (terribile e impietoso, ma assolutamente da leggere Petto di donna).
Ateo, anticlericale, misantropo, Landolfi alleggeriva il suo pessimismo cosmico con l’eleganza divertita del gioco, che non solo rappresentava materialmente il suo demone privato e dilapidatore, ma indicava letterariamente una propensione alla burla, all’inganno, allo scherno verso qualsiasi borioso credo nelle magnifiche sorti e progressive: “il domani come postulazione o come rivelazione è una vasta e presuntuosa panzana… L’essenziale è passare il tempo, il Nemico…; … Sembra proprio che dobbiamo contentarci di gioie ambigue, torte e per giunta fuggevoli”.
Privo di complicità ed empatia verso il prossimo, sprezzatore del senso comune come di qualsiasi imposizione dispotica del potere, nella mordacità non risparmiava nemmeno sé stesso, definendosi “buio” come Milano: “Lo sono sempre stato e forse non potrei non esserlo: non c’è bisogno di guerre, per oscurare l’anima mia”. Plumbeo, estraneo al mondo, in questi racconti Tommaso Landolfi esprime una solidarietà alla tipologia umana che avverte più simile al suo carattere: a coloro che, feriti dall’incomprensibilità dell’esistere, dall’ “invalicabile stridore” che li separa dagli altri, scelgono l’avvilimento dei gesti e dei pensieri, il “buttarsi via” citato da Calvino.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 20 luglio 2018