TOMMASO LANDOLFI, IL TRADIMENTO, ADELPHI, MILANO 2014
Tommaso Landolfi nacque a Pico, nel Frusinate, nel 1908, da una nobile famiglia di proprietari terrieri, di cui mantenne sempre l’orgogliosa impronta aristocratica, conservatrice ed elitaria, sia in politica sia nelle scelte culturali. Laureatosi a Firenze in letteratura russa con una tesi su Anna Achmatova, iniziò presto a collaborare a diverse riviste, pubblicando poi volumi di narrativa in uno stile sospeso tra il fantastico e il grottesco, segnati da pessimismo esistenziale corretto da un beffardo sarcasmo. Utilizzando un linguaggio sofisticato, in cui fondeva barocchismo e invenzione sperimentale, Landolfi descriveva un mondo abitato da individui singolari, segnati da difetti degradanti, da umori biliosi, da immodificabili malinconie che li allontanavano dalla comunità circostante e dai valori condivisi della modernità: in primo luogo dalla fiducia nel progresso, nella solidarietà umana, in qualsiasi fede salvifica. Questa disposizione d’animo, fortemente critica nei confronti dell’attualità, insieme all’invenzione linguistica giocosa, manipolatoria, lussureggiante, e alla sua algida riservatezza, fecero di lui un isolato nel mondo letterario: di tale emarginazione sembrava quasi compiacersi, consapevolmente fiero della propria eccentricità. Nonostante, o grazie a ciò, rimane uno dei maggiori esponenti della nostra letteratura novecentesca, stimato dai più importanti intellettuali contemporanei (Bo, Montale, Bassani, Soldati e Calvino, che curò un’antologia delle sue “pagine più belle”, così inquadrandolo: “Il rapporto di Landolfi con la letteratura come con l’esistenza è sempre duplice: è il gesto di chi impegna tutto sé stesso in ciò che fa e nello stesso tempo il gesto di chi si butta via”).
Ateo, anticlericale, misantropo, Landolfi alleggeriva il suo scetticismo con l’eleganza divertita del gioco, che non solo rappresentava materialmente il suo demone privato e dilapidatore, ma indicava letterariamente una propensione alla burla, all’inganno, allo scherno verso qualsiasi borioso credo nelle magnifiche sorti e progressive.
L’editore Adelphi dal 1992 sta recuperando tutto il repertorio landolfiano (romanzi, racconti, saggi e poesie, pubblicati anche nelle collane minori). Da non perdere, per chi non li conoscesse, due veri gioielli quali A caso, premio Strega nel 1975, e Le due zittelle, prose narrative urticanti, attraversate da sentimenti aggressivi, irrisori e polemici, animate da personaggi sogghignanti e ostili, per cui sempre Calvino ebbe a dire che producevano lo stesso effetto di “un’unghia che stride contro un vetro, o d’una carezza contropelo”.
Le composizioni raccolte ne Il tradimento, uscite per la prima volta nel 1977 e premiate a Viareggio nello stesso anno, vengono definite in una sua nota “grave e terribile seguito” del diario in versi Viola di morte del 1972. Entrambe le raccolte hanno come tema centrale di riflessione la morte, che coglierà l’autore nel 1979, dopo una lunga e dolorosa malattia. Angosciate e rabbiose, le poesie di Tommaso Landolfi “Non volano mai, non cantano mai, non corteggiano mai le grazie dell’immagine e della musica”, secondo quanto scrisse Pietro Citati. Sono liriche filosofiche, intese ad aggredire i luoghi comuni, le facili consolazioni, le illusioni di riscatto morale, e rassegnate invece all’orizzonte nichilista della disperazione. Nella visione plumbea del poeta, il destino degli esseri umani viene manovrato da un demiurgo crudele e indifferente, a cui è impossibile opporre resistenza: “Ah, come non pensare ad un maligno / Fattore, a un bieco autore / Dei nostri giorni?”. La morte è quindi esito ineludibile, tradimento assoluto di ogni aspettativa di sopravvivenza individuale nell’eternità, e illusoria è persino la speranza del dissolvimento nella pace rasserenante del nulla: “O morte sempre amata / Ed in segreto sempre corteggiata, / Avvolgiti di nere bende il capo: / Tu non sei più speranza”. Anche della fine materiale si deve diffidare, perché non mette al sicuro dalla voracità del meccanicismo biologico: “È sempre più vivace / L’assalto della vita: non riparo / A tanta foga”, “Ahimè nell’universo / Non ha luogo la morte, ora ben vedo; / L’odiosa vita regna in ogni dove. / Vano è cercare scampo e refrigerio / Al gran barbaglio, travaglio e fragore / D’una maligna estate. /… All’esser nati non è più riparo”, “Nulla finisce, o nulla / Comincia, colla morte ormai: / La morte è solo un caso / D’una trama più vasta, un nodo appena / Del tramite che varca il tempo”; “Parto, e rinascere non voglio… / Io temo, è questo il vero, / Io temo di protrarre il mio pensiero”.
Lo stile utilizzato da Landolfi è evidentemente modulato su un classicismo di stampo ottocentesco, in cui Leopardi appare senz’altro come nume tutelare non solo formalmente, ma anche in quanto riferimento teorico: il suo “è funesto a chi nasce il dì natale” diventa il leitmotiv della riflessione landolfiana sulla negatività dell’esistere: “Un luttuoso cuore / È il retaggio dell’uomo /… Nasce l’uomo ai tormenti”.
La condizione metafisica delle creature è priva di qualsiasi aspettativa di bene e salvezza: quella politica e sociale appare altrettanto miserevole, e trova nella forma epigrammatica la sua più confacente sintesi espressiva: “L’uomo più libero del mondo / Passò la vita ad obbedire”, “Tutti, rio tempo sconoscente, / Tutti ci hai fatti servi della gleba”, “Nacque; / Fu sempre solo / Tra tanta gente / In molte parole / Tacque; / Indi morì, / s’accomiatò dal Sole”.
Nemmeno la poesia riesce a offrire conforto o certezze, e la pagina bianca a cui manca l’ispirazione diventa una condanna: “E baratro infernale questo foglio, / Bianco d’un impossibile messaggio”, “Non v’è più schermo, non più verso egregio / Che ci protegga dal nulla”, “Ma la pagina bianca è muta e cieca / E nulla ci rimanda / Se non la nostra voce e il nostro sangue. / Di pagine bianche / È impossibile vivere”.
Rimangono quindi gli affetti, come possibile appiglio cui aggrapparsi per continuare a vivere. Alla figlia Idolina (1958-2008), scrittrice, critica letteraria, traduttrice e principale curatrice delle opere paterne, Tommaso Landolfi dedicò una commovente lirica (“Idolina, ti conceda la sorte / Di tralignare sempre, / Di non perdere le tempre / A corteggiare la morte, / A vagheggiare le forme / Compite, cui fosse affidato / L’estremo compenso, il riscatto / Da tutte le infamie. // … E tu, vivi / Lungo aleatorie, provvisorie orme, / Libera, casuale ed imperfetta, / Sposa a tutti i cammini e a tutti i trivii… / Fa’, dico, tutto quanto è in tuo potere / Per non trovarti un dì tradita, / Anzi negletta dalla morte, quale / Il tuo misero padre”). A un’altra misteriosa giovane donna, probabilmente solo vagheggiata nella fantasia, rivolse parole tenere e appassionate: “Unica, t’ho invocata, / Ed ogni volta ti sei sottratta / All’appello…”, “E perdermi tra ignote nebulose. / Lontano certo, ma non tanto / Che non mi giunga la tua mano / E l’umida tua lingua”, “E se m’odi, una sola grazia chiedo / A te, compagna errante e casuale: / Di bestemmiare o di pregare un dio”. A questa enigmatica figura femminile, “eternamente bella”, dallo sguardo “altero e dolce”, regala parole di affettuoso rimpianto, consapevole della propria “vecchiezza lercia”: “È inutile, se non sei mia, / Che a ben mostrare la tua nuova gonna / Tu mi prilli dinanzi sul tappeto. /… (E sei tornata / In camicino azzurro e trasparente / A dar la buona notte)”.
Una poesia, questa de Il tradimento, che sembra voler duellare con la morte avvertita come prossima, rifiutando tuttavia le lusinghe della vita stessa, considerata eccessiva nella sua esibita vivacità.
Persino la scrittura, allora, abdica alla contemporaneità, rifiuta il presente e il contingente, scegliendo forme ridondanti e barocche, termini arcaici (guatare, fenduto, diruto, piovorno, ugne, tabe, ronchioso), desueti (dimora, favella, ciarliero, fallace, solingo, inanimito) o poco comuni (canizza, pirenaico, eringio, repleto, farnia), prendendo così posizione in favore di una letteratura esente da qualsiasi finalità didattica o di impegno, e invece incentrata sull’eleganza formale, sulla cesellatura della parola, in una sfida esibita alla banalità lessicale, alla superficialità, all’attualità conformante.
“Dalla nuda poesia, dalla ricciuta prosa, / Egualmente allettato / Ed egualmente da ambedue respinto”, Tommaso Landolfi in questo suo avvicinamento alla morte fa i conti con la vanità del tutto, della scienza e della teologia, della carne e dello spirito: “ Mentre non più il conoscere mi tenta / Né più l’intendere mi alletta, / Né a guardar dentro più s’accende il sangue. / Rapissi il fuoco della vita eterna / E sviscerassi l’universo, / A me che cosa ne verrebbe”.
Solo stanchezza, quindi: l’amara rassegnazione e l’iroso disappunto di chi si sente tradito.
© Riproduzione riservata «Gli Stati Generali», 27 gennaio 2022