I diciotto racconti di Michele Mari recentemente riproposti da Einaudi avevano già conosciuto un notevole successo nel 1993, al momento della prima edizione presso Bompiani. Mari è oggi considerato fra i maggiori scrittori italiani, tra i più originali e inventivi; forse addirittura il più sfrontatamente e polemicamente coraggioso. Il suo linguaggio arcaicizzante -al limite del manierismo-, imbevuto di letterarietà (colto, allusivo, spiazzante), lo situa nella scia di pochi altri grandi scrittori del nostro 900: Gadda, Landolfi, Manganelli. Il racconto che dà il titolo al volume (Euridice aveva un cane) è forse l’unico che si dipana in maniera più tradizionale, narrando delle vacanze estive del giovane protagonista nella casa dei nonni al paese di Scalna, e del suo perpetuo e tormentato rapporto con i vicini: chiassosi, spavaldamente ignoranti e lietamente burini, pertanto in soddisfatto connubio con l’ideologia dominante del tempo e dei luoghi. Michele invece, giovane intellettuale solitario e rabbioso, riesce a sopportare solo la frequentazione dell’anziana signora Flora, del suo cane Tabù e della loro vecchia casa («credo che tranne le lampadine non ci fosse un solo oggetto posteriore alla guerra»).
Questo rifiuto elitario del mondo adulto, ritenuto ottuso ed eticamente ingiustificabile, si ritrova in altri capitoli del libro, e si ripropone quasi come un topos in tutta la narrativa di Mari. Ad esempio, nel primo splendido racconto, I palloni del signor Kurz, in cui gli allievi di un collegio maschile combattono le loro velleitarie partite di calcio contro un diabolico vicino che puntualmente si impossessa dei loro palloni sconfinati nel suo giardino. Oppure ancora in Cicoria matta, dove un imbranato Giovannino è ossessionato dall’idea di scoprire quale misteriosa e affascinante «essa» si celi sotto la gonna della matta del paese. E ne Il volto delle cose troviamo un bambino obeso e sbeffeggiato che medita sul brutto voto impartitogli dal «maestro stizzito», e si incupisce osservando il volgare grigiore del mondo intorno a lui (due paginette di esibita maestria letteraria!).
C’è poi un altro tema che affiora continuamente dalla scrittura di Michele Mari: una sorta di corteggiamento della morte, un cupio dissolvi in atmosfere da incubo, l’angoscia del dissolvimento o dell’imputridimento di oggetti e corpi, tenuto a bada sempre con un’ironia sferzante, un sarcasmo acuto e doloroso. Ne sono esempio i racconti In virtù della mostruosa intensità, Tutto il dolore del mondo, Tutti vivemmo a stento, L’ora di Carrasco, La serietà della serie, La legnaia, in cui i personaggi lottano contro i loro fantasmi mentali o contro la prevaricazione violenta e meschina di chi li circonda. Il lettore rimane annichilito da alcune soluzioni finali inaspettate, imprevedibili, e perciò tanto più corrosive e divertenti, e legge ammirato la ricostruzione -tutta in esilarante dialetto romanesco-della leggenda di Romolo e Remo (Li fratelli mia); può sentirsi anche irritato dall’ostentata e tracotante misantropia dell’autore (di nuovo Gadda e Landolfi, ma anche Thomas Bernhard), che con supponenza definisce il weekend «il dittico festo ove starnazza sovrana la massa», o dal suo nevrotico personaggio che cerca affannosamente in un cinema l’unico posto che lo preservi da qualsiasi disturbante presenza umana. Ma come non riconoscere l’eccezionalità della scrittura di Mari in brani come questo: «vede un mondo sporco fatto di brutte facce presuntuose di persone ingrugnate, vede i luridi marciapiedi pieni di vomitevoli scaracchi giallastri e di volitanti cartigli e di cicche schiacciate intese sia come mozziconi fumati sia come chewing-gum salivosi sputati, vede il chiarore grigiastro del cielo piovoso, piovigginoso o piovorno specchiarsi nelle pozze fangose…»
Se si diceva che alcuni antichi rabbini amassero la Torah più di Dio, così potremmo dire che Michele Mari ami la letteratura più della realtà. Ma questo deve considerarsi un difetto in un grande scrittore?
«incroci on line», 8 maggio 2016