MARIANELLO MARIANELLI, IL FANTASMA DI CHIANCIANO / UNA CASA DI PAROLE
GIARDINI, PISA 1987

Marianello Marianelli, germanista, direttore di istituti italiani di cultura in Germania, professore di letteratura tedesca all’Università di Pisa e collaboratore de La Nazione, ha mantenuto segreta, in tanti anni di fedele devozione alle lettere teutoniche, una sua seconda, robusta pelle di narratore in proprio: soffocando (per discrezione, per pudore, o in rispettoso omaggio al senso “alto” dello scrivere) una voce che – tra le tante spudorate pronte a gracchiare il loro niente – a ragione avrebbe potuto rivelare i suoi ricchi e diversi timbri. Recentemente, presso l’editore Giardini di Pisa, Marianelli ha raccolto in due volumi racconti e articoli scritti nell’arco di un quarantennio, e via via più assiduamente in quest’ultimo periodo, libero dall’attività accademica. Il fantasma di Chianciano raccoglie tredici storie, definite dall’autore stesso «disincantate», probabilmente perché non concedono alcuna residua illusione sul senso di questo nostro vivere, incapace di qualche riscatto che ne travalichi il puro accadere. Ma il disincanto appartiene anche allo stile, impersonale, fattuale, tendente a livellare in una indifferente intercambiabilità i personaggi e le loro vicende, e a personalizzare gli oggetti, a concretizzare immagini e pensieri. Così, sono le camicie esposte in un grande magazzino a scegliersi i clienti, e sono i numeri nati dalla mente di un matematico che gli scandiscono il tempo da dedicare all’amore, fino a impedirgli ogni abbandono; gli occhi di un radiologo vedono attraverso le cose, i corpi; il Mar Tirreno improvvisamente registra e diffonde amplificate tutte le voci e i discorsi che si sono sciolti tra le sue onde; un fantasma turba la villeggiatura degli ospiti di Chianciano, visualizzazione del loro represso collettivo; i fiori di Amburgo improvvisano un’insurrezione, ribellandosi all’ipocrisia di chi li vuole messaggeri d’amore in un mondo senza amore. Soprattutto nell’ultimo racconto, Una donna è una donna, Marianelli riesce a incantare disincantando, quando narra del trapianto del cervello di una popolana nel corpo di un’aristocratica, dello straniamento che ne deriva alla sopravvissuta e del tragico imbarazzo che la situazione suscita tra i parenti delle due donne: tutto ciò in uno stile asciutto e veloce, che molto offre alla dimensione visiva della narrazione, e poco o niente alla retorica di una lettura sentimentale. Il secondo volume, Una casa di parole, riunisce, per un immaginario album di famiglia e società, una quarantina di prose in cui Marianelli tratteggia «le parti che ha via via recitate dalla guerra a oggi», ripiegando – anziché sulle immagini – sulle parole, «le vere sconfitte del nostro tempo». Parole semplici e pesanti come mattoni, per costruire una casa più solida dell’investimento in muratura. Parole che ritraggono persone o cose «assai care, care nel solito doppio senso di amate e pagate care». Come la figlia Lia, presenza assidua e pungente in tutto il volume: la lunga e incrollabile fedeltà a Lia è testimoniata da dichiarazioni d’amore stupefatto e stupefacente nel memoriale dedicato alla figlia duenne; nelle pagine intenerite e amareggiate dalla crudeltà incosciente della ragazzina che nega al padre un ballo, preferendogli le attenzioni di insipidi giovanetti, o dalla spavalda contestazione della studentessa sessantottina; nell’ultimo Happy Day in cui la figlia ormai preside rende omaggio al genitore con un saggio canoro degli alunni. Questo destino di padre, amato e patito con un’adesione che si suppone addirittura maggiore di quella che accompagna qualsiasi altro ruolo, o dovere, si esalta nella prosa fino a raggiungere un lirismo da scandire in versi: «Ora che sei venuta, scalpita il cavallo rosso del mio sangue, ti tengo su una mano come il mio falcone impaziente dei miei paesi». La paternità si esprime attraverso la morbosità e l’ansia di possesso che siamo abituati a ritrovare nella consapevolezza di essere madre: «Io conosco tutto di te…sapevo il tuo viso prima di creartelo…in te si sazia la mia poca sete di eternità». Ma decine sono le “foto di famiglia” da appendere, da non lasciare ingiallite tra i ricordi privati e pubblici di scarsa comunicabilità. Marianelli figlio che assiste alla riesumazione delle ossa dei suoi genitori, e se li porta in braccio, così, in due cassette di alluminio, a fare un giro in macchina. Marianelli nonno che prepara un presepe al nipotino e osserva sconfitto e complice la trasformazione moderna dello scenario natalizio in un Parking-Center in miniatura. Marianelli scrittore civile che non si vergogna di essere tale, scabro nella commozione e alto nello sdegno: per una Sardegna amata-odiata in guerra, per una Germania compatita e detestata nel dopoguerra. Per parafrasare uno dei racconti più belli, in cui l’autore bambino inciampa in un invisibile filo d’acciaio, che lo ferisce a tradimento, potremmo definire i racconti di Una casa di parole come trame di fili che incidono, che lasciano un segno. Anche se il lettore che corre tra di loro, commosso, divertito, finge di non accorgersene.

 

«Agorà» (Svizzera), 3 marzo 1988