GIULIA MARTINI, TRESOR – INTERNO POESIA, LATIANO (BR) 2024
Il volume di versi Tresor di Giulia Martini (Pistoia 1993) si suddivide in quattro capitoli (Tabù, Corrente calmo, Corsa sul posto, Tresor), ed è aperto da un’estesa, approfondita, coltissima introduzione di Giulia Depoli, che rischia di mettere in imbarazzo qualsiasi volonteroso recensore, costretto per forza di cose ad attingere non solo alla dovizia di informazioni fornite sul testo, ma soprattutto all’appassionato e sapiente scavo interpretativo della prefatrice.
Seconda prova della poeta, dopo Coppie minime del 2018 (edito sempre da Interno Poesia), in cui già lavorava su concetti linguistici quali i fonemi, in questo volume è di nuovo il linguaggio il terreno operativo prediletto, attraverso l’utilizzo frenetico ed esasperato di citazioni, varianti lessicali, allotropie, distorsioni sintattiche, rimaneggiamenti diacronici, e soprattutto di prelievi da materiali letterari precedenti.
Il titolo stesso, Tresor, (con le varianti Tesoro, Tresoro, Teisoiro, e con l’anagramma Resort) è un evidente richiamo all’enciclopedia in volgare di Brunetto Latini, ampiamente saccheggiata nei testi medievali e nei loro commenti critici, documentanti il passaggio dal latino all’italiano – iscrizioni murali e funerarie, documenti notarili, atti di vendita, bilanci contabili. Altrettanto sfruttato è l’apporto della Divina Commedia, soprattutto a partire dal Canto XV dell’Inferno, i cui rimandi lessicali sono disseminati in tutto il volume, insieme a echi e recuperi di tutta la grande tradizione della nostra letteratura otto-novecentesca.
“Un libro fatto con le parole degli altri”, secondo la calzante enunciazione della prefatrice, nel quale emerge però – oltre all’assidua ricerca formale – una altrettanto fondamentale ricerca interiore, tramite l’imperiosa volontà di definizione dell’io, come si rileva già dai primi versi della sezione iniziale Tabù: “Io sono quella che bene non aio”, “Et eu so kosì davanti a vui”.
Il rapporto io/altro da me (io/natura, io/istituzioni, io/amanti, io/famiglia, io/luoghi) viene mimetizzato, calmierato e quasi neutralizzato attraverso lo schermo (giocoso a volte, più spesso violentemente polemico) dello sperimentalismo linguistico. Tuttavia affiora sempre, soprattutto laddove si intuisce una ferita che la poeta non ha potuto o voluto rimarginare. Con le varie città abitate, con il patrimonio familiare, con la legge, con l’amore, con il cibo, con la madre. Madre che non è unicamente quella che l’ha partorita, ma anche un’altra che l’ha adottata e amata, e una terza che l’ha nutrita: forse proprio la lingua, obbligandola a un’alimentazione imposta e canonica, maldeglutita, rifiutata: “La fame è un gesto naturale. E intanto / adocchiata da tutta la famiglia / finisci il piatto li riguardi e pensi / dove nascono la lingua e la madre”; “Mi chiami e la madre diventa un problema / che devo risolvere io, durante i pasti / i fieri pasti, gli splendenti pasti, / che non mi lasci di mangiarli in pace. // Mi dici che la madre ha l’oro in bocca, / ma che non parla mai, non le si vede”; “Ma vada terra una alla madre mia carnale. / Una alla nostra comune madre. / Un’altra a quell’altra madre mia”; “Seduta al buio, in cucina, la santa / la madre si riversa in fiumi d’oro”.
Nella sezione centrale del libro, Corrente calmo, l’io si camuffa nelle vesti di un notaio, che utilizzando termini tecnici traslati da antichi documenti del volgare italiano, assume il ruolo legiferante e oppressivo di chi imbroglia e raggira utilizzando la copertura dell’ufficialità legale, coprendo abusi di usurai, ecclesiastici e potentati vari: “Questo vaso sono io dicente / e più che dicente, contraddicente”, “Devi soltanto donare tutti i tuoi beni all’abbazia, cedere fino all’ultima sostanza, sapendo bene che non riceverai niente in cambio”. Le inserzioni prosastiche, spesso conclusive di singole composizioni, e rivolte a un lettore generalizzato e comune, rivestono la funzione – come nel caso qui riportato – di conferire autorità al testo, sottolineando in modo perentorio qualcosa di non contestabile.
Tresor è anche un canzoniere amoroso, e la relazione con la donna amata, intessuta di conflitti, passione erotica, dissidi economici, dedizione affettiva, attraversa l’intera raccolta: “Com’era bello quando rimanevi / e non sapevo più dove mi fossero / gli occhi, per guardarti. E le mani”. Fino alla sezione conclusiva che dà il titolo al volume, ed è un esplicito invito a lasciarsi coinvolgere nel rapporto con chi si ama, in un legame capace di oltrepassare l’individualità: “Datemi tutto, senza niente in cambio, / non perché lo chiedo, per entusiasmo”. Attraverso l’altro/altra Giulia Martini recupera la totalità dell’io, in un augurio programmatico coinvolgente il futuro: “Non puoi fallire, se segui la tua stella, / mancare l’appuntamento con te stessa”.
L’intera operazione messa in atto da Tresor, nella sua sovrabbondanza di segni e significati, ha la finalità di stimolare in chi legge un attivo interesse verso la comunicazione letteraria così come si è stratificata nei secoli, in un coinvolgimento nuovo, non scontato, con i testi e le loro sovrastrutture-sottostrutture.
© Riproduzione riservata «L’Indice dei Libri del Mese» n. XI, novembre 2024