PIERA MATTEI, DELL’INVIDIA DEGLI AMICI. DA FRANCESCO PETRARCA – GATTOMERLINO, ROMA 2024

Nel settimo centenario della nascita di Francesco Petrarca, Piera Mattei – fondatrice delle edizioni romane Gattomerlino – dedica al poeta aretino un monologo teatrale, che intitola Dell’invidia degli amici, a cui accompagna il breve saggio Quando i cieli cadranno, con la riproduzione dei testi latini di Libera me e Dies irae. La prima sezione del piccolo volume è dedicata quindi a un assemblaggio di vari scritti petrarcheschi: lettere in esametri e in prosa, l’epistola Posteritati e il De Ignorantia, confessioni e ricordi di momenti diversi della vita dell’illustre letterato, tutti accomunati da alcune costanti interpretative del suo carattere.

In primo luogo, la vanità, da lui stesso riconosciuta e ammessa come difetto; secondariamente l’invidia, pervicacemente negata e aborrita nel proprio sentire, e invece avvertita negli altri. Ossessionato dal timore di non essere amato e compreso dai contemporanei, Petrarca camuffava le sue debolezze utilizzando i criteri dell’eloquenza e dell’invenzione classicheggiante.

Piera Mattei introduce e conclude il monologo rielaborando i Psalmi Penitentiales, segnati da un’ansia di penitenza e da una funerea premonizione di morte, alleggerite in finale dal salmo in lode della Creazione, che con echi francescani glorifica la bellezza della natura e dell’essere umano.

Il senso della vanità dell’esistenza, reso più angosciante dalla consapevolezza delle proprie colpe, appare esplicito nelle reiterate affermazioni che aprono il monologo: “Ahimè! Vedo con fuga precipitosa trascorrere il tempo. Il mondo se ne va… Per te è già trascorsa gran parte del giorno. Hai vagato finora irrequieto. Ripiega adesso le vele! Raccogli le gomene, per morire infine in un porto”, “Sono furioso contro me stesso, odioso, pericoloso a me stesso”. Tuttavia, nel profondo, il poeta è ben consapevole del proprio valore, e non resiste alla tentazione di sottolinearne la grandezza, vantandosi dei tributi ricevuti in Italia e all’estero: “Sia gloria a Dio, tutta la mia vita è stata onorata dall’amicizia degli uomini più grandi, dei più dotti. Roberto, re di Sicilia, quando ero ancora giovanissimo mi onorò con il riconoscimento delle mie capacità e del mio sapere! Non ricordano forse costoro la mia incoronazione in Campidoglio?”

Ciò nonostante, il timore che la sua eccellenza artistica non venga compresa lo assedia, e accusa conoscenti e intellettuali di astiosa rivalità, di malevola gelosia: “L’invidia. Ancora non sono esonerato dall’invidia. Subisco gli attacchi non so se di un’invidiosa amicizia o di una falsa amicizia, invidiosa… La fama è cosa faticosa, difficile, soprattutto la fama letteraria. Contro di lei stanno tutti all’erta, armati. Anche quelli che non possono sperare d’averla si sforzano di strapparla a chi ce l’ha”. Riversa il suo rancore soprattutto sui soli quattro amici che lo frequentano: “emisero il verdetto di condanna, non verso di me che certamente amano, ma verso la mia fama, che odiano”. Ma ammette a fatica il proprio sentimento d’inferiorità nei riguardi di Dante, di cui non aveva voluto leggere l’opera, timoroso di un confronto umiliante.

La lode a Dio, comunque, innalza Petrarca al di sopra di ogni miseria umana, e si esprime in parole grate e celebrative: “Non ho dimenticato tutto ciò che mi hai dato, ottimo elargitore. Il cielo e le stelle, l’avvicendarsi delle stagioni creasti per me”.

L’omaggio di Piera Mattei al poeta del Canzoniere si conclude con l’esplorazione del canto gregoriano, nella seconda parte del libro intitolata Quando i cieli cadranno. Per canto gregoriano si intende un patrimonio di circa tremila preghiere cantate in latino, secondo un criterio modale, monodico, e privo di accompagnamento musicale, custodite nei monasteri medievali e nel corso dei secoli riproposte durante le cerimonie religiose. Di tali componimenti, solo il cantore e il coro conoscevano parole e musica, mentre la comunità dei fedeli seguiva a senso il suono, spesso storpiando il testo che non sapeva comprendere e tradurre. In tale repertorio occupavano un rilevo particolare i canti per i defunti, dove visioni drammatiche si ispiravano all’Apocalisse e al Giudizio Universale. Piera Mattei ripropone la prima pagina dello spartito, il testo latino e la traduzione italiana di Libera me e del Dies Irae

Con l’abolizione del latino dalla Messa, decisa dal Concilio Vaticano II del 1963, i canti gregoriani (molto amati dal popolo per la loro arcana, dolcissima e suggestiva armonia) sono quasi scomparsi dalla liturgia, poiché si è preferito sottolineare la benevolenza piuttosto che l’ira punitrice di Dio. Ricordiamo comunque gli incipit dei due citati, che mantengono una potenza conturbante e misteriosa: “Libera me, Domine, de morte aeterna, in die illa tremenda / Quando coeli movendi sunt et terra”, “Dies irae, dies illa, solvet saeculum in favilla”.

 

© Riproduzione riservata       «SoloLibri», 19 ottobre 2024