Mio padre è un uomo compito. Diversamente da me, che sono sempre un po’ arruffato, scomposto nel vestire e nel gestire, spavaldamente impetuoso nella parola, contorto nei pensieri: come tutti i timidi.

Lui no. Lui è sempre sobrio (anche se non ricercato) nell’abbigliamento, attento ad accostare con discrezione i colori: camicia e cravatta, pantaloni e calzini. È anche molto controllato nell’esprimersi, mai una bestemmia, una parolaccia. Riflessivo nei ragionamenti, gentile nel rapportarsi agli altri.

Un signore, insomma.

La cosa comica è che io insegno storia dell’arte nel liceo più glorioso della città, e lui ha sempre fatto il magazziniere in una fabbrica di calzature. Io posso vantarmi di una laurea e di un dottorato in estetica, lui ha il diploma di terza media. Io divoro libri di saggistica, sono appassionato di musica barocca, parlo correntemente inglese e tedesco. Lui è abbonato alla Settimana Enigmistica, ama i quiz televisivi e ascolta Radio Birikina.

Da quando mia moglie se ne è andata, lasciandomi le due bambine di tre e cinque anni, il mio buon papà ha generosamente deciso di trasferirsi nel nostro appartamento per aiutarmi nella cura della casa, e per occuparsi di Marta e Cecilia. Che lo adorano. Sospetto che vogliano più bene al nonno che a me.

Le mie figlie non chiedono mai della loro mamma, l’hanno cancellata da occhi bocca cuore. Con me si limitano a brevi comunicazioni di servizio, accendi spegni la luce, fa freddo fa caldo, ho fame ho sonno. Tutte le loro carezze, i baci, i gesti affettuosi sono per mio padre. “Nonnino nonnino”, lo chiamano. Cecilia, addirittura, è il suo ritratto, come se i suoi cromosomi avessero saltato una generazione. Stessi occhi azzurri, naso regolare, labbra un po’ piegate in giù, spalle strette.

Lui se ne compiace, gongola quando la osserva di nascosto e rivede sé stesso negli atteggiamenti composti e garbati di lei, per favore-permesso-grazie-scusa. Le accarezza i capelli biondi, e piano le sussurra “la mia bambina, la mia cara bambina”.

Quando torno da scuola, di pomeriggio, li vedo seduti sul divano. Complici, mano nella mano. Lui le legge un libro di fiabe, commentando le illustrazioni. Lei appoggia la sua testolina treenne al suo petto, e ascolta in silenzio, attenta. Spesso gli chiede di ripetere più volte la stessa frase, modulando la voce a seconda dei personaggi descritti. Lui obbedisce, paziente. “Nonnino nonnino”, irrompe in salotto la sorella più grande “Posso ascoltare anch’io?”. Spezza l’idillio, ma i due fidanzatini la accolgono comprensivi. Ecco edificato un allarmante triangolo, tra un maschio e due femmine rivali.

Io sono il quarto incomodo, l’escluso. Geloso? No di certo. Direi anzi, sollevato. Perché a essere sincero mi scoccerei proprio se ogni pomeriggio dovessi leggere una favola alle bimbe, dopo aver tentato di domare più classi di adolescenti, sciatti distratti arroganti.

“Nonnino nonnino”, già mi dà fastidio. “Papino papino”, non riuscirei a sopportarlo.

Loro lo sanno? Se ne accorgono? Ne soffrono? Non credo, troppo piccole, troppo occupate a succhiare ogni goccia di bene venga loro dispensata dall’avo.

Mio padre invece ha capito. Lo sa. E non gli dispiace avermi detronizzato. “Vuoi bene alle bambine?”, mi ha chiesto una sera, improvvisamente, senza preamboli. Preso di sprovvista, non ho risposto. “Volevi bene a tua moglie?”, ha continuato, implacabile pubblico ministero. “Certo”, ho risposto: deglutendo, sorpreso. dopo un’imbarazzata esitazione. Poi, sentendomi salire dentro una certa inquietudine, quasi una stizza, ho aggiunto in fretta: “Lei mi voleva bene? Loro mi vogliono bene?” Si è alzato dal divano, ha preso le parole crociate, e scandendo pacatamente “Vado a letto, buonanotte”, si è chiuso in camera.

Mio padre ha sempre avuto un modo irritante e insieme profondamente inattaccabile di farmi sentire non solo in difetto, ma anche in colpa. Già da quando ero bambino, e poi soprattutto negli anni tormentosi della prima giovinezza. Non alza la voce, non rimprovera, non condanna. Semplicemente, con ogni suo silenzioso e correttissimo atteggiamento, scava un baratro tra la mia banale mediocrità e il suo essere migliore. Probabilmente l’ho deluso dalla nascita, e lo deludo in continuazione. La cosa tragica è che non so perché. Credo di essere stato un bravo figlio, ubbidiente, studioso, educato. Mai abbastanza, forse.

La settimana scorsa, tornando dagli scrutini nel tardo pomeriggio, l’ho trovato in cucina intento a preparare un dolce di castagne, con Marta e Cecilia che eccitate e infarinate gli sfarfallavano intorno. “Stiamo impastando una torta, io e le mie bambine”, ha detto ammiccando trionfante, nonnino nonnino. “Non sono tue, le bambine”, ho avuto la temerarietà di rispondergli.

Si sono bloccati come statue bianche, loro tre. Lui mi ha rivolto uno sguardo interrogativo e disapprovante, al di sopra degli occhiali scivolati sul naso. Poi, come se niente fosse, il trio ha ripreso ad armeggiare intorno al tavolo, mentre lui intonava una canzoncina, tra le tante della sua infanzia che ha insegnato alle bimbe. “O quante belle figlie Madama Dorè”, e loro ripetevano “o quante belle figlie”, con le garrule vocette innocenti.

Mi sono ritirato nel mio studiolo, a rileggere gli appunti di un libro che da anni tento vanamente di portare a termine. Sul mecenatismo nell’arte seicentesca. Dalla cucina sentivo distintamente ogni parola del ritornello scemo, “Il re ne domanda una Madama Dorè, il re ne domanda una”. Sapevo che mi avrebbe tormentato il cervello fino a notte.

Ieri però è successa una cosa, strana, imprevedibile. Rientrando a casa, verso le cinque, mi ha accolto un’inquietante assenza di rumori. Ho chiamato, come faccio sempre, “Ceci, Marti…”. Poi, non ricevendo risposta, ho aggiunto “Papà?”.

Non c’erano. Ho passato in rassegna tutte le stanze, spaventosamente in ordine e zitte. Niente. Nessuna traccia del terzetto. Allora ho provato a cercare mio padre al cellulare, ma era spento.

Ho aspettato l’ora di cena, un po’ titubante, ma senza una vera e propria ansia. Mi sono riscaldato due sofficini e un po’ di verdura grigliata trovati nel freezer. Non mi succede mai di dover cucinare, ci pensa sempre nonnino. Ho acceso la tv per il telegiornale, e sono rimasto seduto in poltrona a guardare fino alle dieci una specie di quiz con tanti concorrenti esaltati dagli applausi di un pubblico gaudente. Dei miei tre cari nessuna traccia. Né un biglietto, né una telefonata.

Se ne erano andati.  Magari a prendere un gelato al bar del quartiere, o una pizza nella solita trattoria. Oppure al centro commerciale e poi al cinema. O avevano deciso di salire su un treno, di imbarcarsi su un aereo per una vacanza chissà dove. E se avessero invece programmato da tempo di trasferirsi altrove, in un nuovo appartamento, in una città diversa, all’estero?

Se ne erano andati. Forse per poco, forse per sempre.

Mi avvicinai alla finestra, guardai già in strada, poi in alto, nel cielo ormai buio. Le mie labbra si schiusero in maniera del tutto imprevista e involontaria. “Finalmente”, mi ascoltai sussurrare.

 

«Gli Stati Generali», 12 giugno 2020 e in «Gente normale», Eretica 2024.