Parcheggio la Polo cercando di intuire alla meglio dove si trovino le strisce bianche per terra. È scuro, ormai, da più di un’ora, e l’aria brumosa della bassa confonde le poche luci dei lampioni coi fanali delle auto. Scendo dalla macchina per controllare se le ruote siano entro i limiti prescritti.
«Ciao» mi fa la voce del tunisino che ogni volta sbuca dal niente a offrirmi i suoi accendini. «Buon Natale» sorride con tutti i suoi candidissimi denti, scuote il berretto di lana rosso. «Anche a te» rispondo, e mi cerco nella tasca del cappotto le solite mille lire. «Non torni a casa per Natale?» gli chiedo, e mi sento subito cretina; chissà se festeggia il Natale in Tunisia e lui, cosa mai dovrebbe festeggiare, poi… «Dove casa? Dove casa?» ripete sorridendo. Gli faccio un cenno, che vorrebbe essere di scusa, non solo per la mia stupidità, ma per tutto. Capisce, sembra voglia suggerirmi che anch’io, forse, non sto tanto meglio di lui. Passo davanti alla cabina telefonica dove di notte va a dormire: a fianco, per terra, c’è la sua borsa e una coperta.
Attraverso il piazzale deserto, poche sono le automobili in sosta; è una sera particolare, molti malati, quelli meno gravi, sono stati dimessi. L’atrio dell’ospedale è un po’ più animato: una zingara s’è seduta proprio davanti al presepe e alla cassetta delle offerte, quasi a raddoppiare l’imbarazzo di chi volesse rendere omaggio alla Natività. Ha anche lei il suo Gesù Bambino in braccio, biondo come nei quadri delle chiese, sporco e addormentato. Una coppia giovanissima sta ritirando i soldi dal bancomat, forse per il cenone della vigilia, forse per la settimana bianca. Ridono, prendono in giro la loro ribadita ed eccessiva dimestichezza con la tastiera automatica. Vicino ai gabinetti c’è un paziente col pigiama azzurro sotto il loden, trascina la flebo appesa a un treppiede con le rotelle, e fuma la sua noia, la sua rabbia di recluso. Nel giardino che separa l’atrio dal corpo vero e proprio dell’edificio (un palazzone enorme di otto piani, cemento e vetro incombente sul selciato e sulle aiuole) hanno addobbato un pino altissimo, con bocce di vetro che si illuminano a intermittenza, e nastri colorati. Una famiglia si è raccolta lì sotto a commentarne la meraviglia: la bambina più piccola vorrebbe arrivare a sfiorare una fronda dell’albero, ma non ce la fa.
Spingo la porta a vetri e giro subito a sinistra, verso il corridoio degli ascensori. Minaccia un cartello: “Questo è un luogo di cura: è vietato fumare!”, ma i primi a non curarsene sono proprio i dottori. Uno di loro, barbuto e pallido, svolazza nel suo camice bianco davanti a me, preme il bottone della chiamata con insistenza. Ed ecco che l’ascensore arriva, si spalancano le porte di metallo sulla faccia di una malata dal sorriso ottuso. «Sempre qui, lei, eh?» l’apostrofa il dottore, burbero ma non ostile, quasi paterno. «Sempre su e giù, come alle giostre!» Mi lancia un’occhiata di intesa, e preme il bottone del settimo piano. «Al settimo, vero?» fa alla donna, che ride e accenna di sì, batte le mani e si sfrega la fronte: è ricoverata in neurologia. Lentissimo l’ascensore parte, il dottore mi chiede dove scendo. Rispondo all’ottavo, lui annuisce e tace. Se ne escono insieme, la donna si appende al braccio che lui le offre, mi fanno gli auguri e lei ride sempre, sulla faccia le rughe di una novantenne, e avrà gli anni miei.
All’ottavo piano mi sento ormai come a casa mia, conosco infermiere e pazienti, gli arredi e i cappotti dei parenti appesi all’attaccapanni. Non so chi sia di turno stasera, sono tutti gentili e competenti, sicuri della propria professionalità. Mi saluta Luisa, tocca a lei fare la notte vicino al fratello, scambieremo due chiacchiere e un cincin al tocco. Percorro il corridoio dell’isolamento, mi tolgo le scarpe e calzo gli zoccoli riposti nell’armadietto di metallo: “scarpe parenti”. Mi avvicino alla porta della camera ventuno, mi spoglio, indosso il grembiulone verde sterilizzato, la mascherina di garza che ripari naso e bocca, i guanti di lattice.
Busso, il solito segnale a mio padre. Lui esce, e compie il rituale inverso, si toglie il camicione verde, i guanti, butta via la mascherina. «Com’è andata?» gli chiedo. «Ha trentotto e sei. Dorme sempre» risponde. «Ricordati le gocce» aggiunge dopo un poco, e prima di andarsene: «Be’, auguri se non ci vediamo prima di domani». Nient’altro perché ha paura di commuoversi. Strofino le scarpe sul tappetino magnetico, entro in camera. Da quasi un mese lei non ci riconosce, ogni tanto parla, ma dice cose senza senso. È molto sudata, ha le labbra secche. Hanno detto i dottori che dovrebbe bere in continuazione, ma ha la bocca tutta ulcerata, dobbiamo infilarle la cannuccia tra i denti, sforzarla. Sul comodino, in fila, le creme da spalmarle sulle piaghe delle mani, sui piedi, l’occorrente per la toilette. Il quaderno degli appunti, con cui noi che l’assistiamo ci comunichiamo le notizie più importanti della giornata, rispecchia i nostri diversi stili e caratteri. Mio padre scrive l’essenziale, è sempre ordinato e inappuntabile. Una sorella gli assomiglia, ma ogni tanto aggiunge esortazioni e indicazioni utili a chi legge, l’altra è minuziosa e sovrabbondante, quasi che nello scrivere ogni dettaglio riuscisse a scaricare un po’ della tensione accumulata. Io scrivo caotica e discontinua, con un’emotività che traspare nel tremolio delle lettere.
Leggo, dunque, l’andamento della giornata, poi mi sdraio sul divano a fianco del suo letto, e sto lì a occhi chiusi, ad aspettare che un suo mugolio, un lamento, un movimento più o meno volontario mi ricordi che nella stanza all’ottavo piano siamo in due, a soffrire in maniera diversa. Appena sarà finita la seconda flebo, dovrò chiamare l’infermiera per il plasma. La grande busta degli alimenti, invece, dura ventiquattr’ore, e non ha bisogno di un controllo così serrato. Bussano alla porta. Si affaccia il viso rotondo dell’inserviente della cucina. «La signora non cena neanche stasera?» «No, purtroppo». «Lascio qualcosa per lei?» «Un’arancia, magari. Ho già cenato a casa, ma senza frutta». Me la porge, poi mi chiede come va. «Così…» rispondo. «Vedrà, vedrà. Giorni brutti ne hanno tutti. Poi passano. Domani è Natale, faremo i ravioli al burro». La ringrazio. Sono tutti buoni, in questo reparto. Si fa fatica a credere agli episodi che si leggono sui giornali, di malati maltrattati o addirittura seviziati, altrove.
Torno a sedermi. Per un attimo mi sollevo la mascherina dalla bocca, e mangio uno spicchio d’arancia dopo l’altro. Lei respira pesante, ha una sbavatura di sangue all’angolo del labbro destro. Vorrei che domani si svegliasse da questo lungo letargo, ritrovasse la sua voce di sempre. Vorrei rivederla bella com’era, con i suoi capelli di prima, un miracolo per Natale. Recito mentalmente tutte le preghiere che ricordo, neanche fossero una ninnananna senza fede, per tranquillizzarmi. A guardarla da dove mi trovo, sembra completamente calva, invece i capelli stanno rispuntando, appena appena, però al tatto si sentono. Le faccio una carezza sulla testa. «Chi sei? – domanda improvvisa – Sei la mamma? Sei la mia mamma?» «No – le dico – sono tua figlia». Ma subito mi attanaglia una stretta alla gola; ho paura, non voglio che veda la nonna morta tanto tempo fa. Comincio a parlarle di tante cose, di chi ha scritto, di chi ha telefonato, delle mie bambine. Non mi sente, rimane immobile e inespressiva. Controllo la sacca dell’orina, quella del sangue, quella – gialla brillante – del cibo ridotto a minerali e vitamine varie.
Fra tre ore è mezzanotte. Ieri le ragazze di turno mi avevano detto che sarebbero passate in tutte le camere con lo spumante e il panettone. In reparto hanno preparato un alberello con tutti i regali dei pazienti per il personale. E questi sono gli unici segni che è una sera diversa dalle altre. Decido di scendere nel sotterraneo a prendermi un caffè dall’automatico. Le dico: «Esco un attimo» nel caso mi sentisse. Non risponde.
Mi devo di nuovo togliere grembiule, guanti e mascherina, infilarmi le scarpe e il giaccone, poi scendo. «Chissà se ritrovo la donna di prima, in ascensore», penso. Invece mi imbatto nel medico che ha in cura mia madre. È biondo, pallido, con un ciuffo di capelli sottili che gli ricadono sulla fronte: molto timido e discreto. «Va meglio, sa? – mi dice – Gli esami del sangue sono discreti». «Non me lo dice per rincuorarmi, perché è Natale?» Sorride. «Lo dico perché è vero. Natale c’entra solo perché mi permette di tornare a casa un po’ prima, stasera». Penso che ha scelto il lavoro più brutto e più bello del mondo; glielo dico, ma lui se ne è reso conto già da tanto.
Nel sotterraneo stanno pulendo i pavimenti, alcuni infermieri si avviano al garage. Ne saluto due che a braccetto camminano veloci verso l’esterno, felici di lasciarsi alle spalle tanta malinconia. Il caffè è fortissimo, forse cattivo, ma mi scotta felicemente lingua e palato, mi dà una sensazione intensa. Salgo di nuovo all’ottavo piano, ormai l’ospedale è deserto, sono quasi le dieci.
Dalla vetrata grande del corridoio guardo in basso, le luci delle altre stanze accese. Quanta vita e quanta morte, quanto spreco di tutto. “Com’è alto il dolore”, scrive un poeta che amo. E continua: “L’amore, com’è bestia!” Dolore, amore. In ospedale non si soffre soltanto, non si muore soltanto. Nascono bambini, iniziano nuove amicizie, si torna a vivere. Mi riavvicino all’armadietto di metallo, ripeto la vestizione di sempre. Grembiule verde, guanti, mascherina, scarpe.
Fra meno di due ore farò gli auguri a mia madre. Lei forse riuscirà ad aprire gli occhi, a dirmi «Buon Natale anche a te».
(1993)
In Fine dicembre, Le Onde, Chianciano Terme 2010, e in Inverni e primavere, (e-book) 2016
Su La poesia e lo Spirito, 24 dicembre 2023