OTTIERO OTTIERI, POEMETTI – EINAUDI, TORINO 2015
Einaudi ripubblica tre poemetti di Ottiero Ottieri (usciti nell’ 88, nel 91 e nel 93), con un’esauriente prefazione di Valerio Magrelli. Ottieri, nato a Roma nel 1924 da una nobile e ricca famiglia toscana, romanziere di successo, sceneggiatore e figura di spicco dell’editoria, sposò Silvana Mauri, nipote di Valentino Bompiani, da cui ebbe due figli: la scrittrice Maria Pace e Alberto, attuale presidente di IBS e Messaggerie Libri. Breve premessa per inquadrare il milieu intellettuale e sociale in cui si mosse, con tormentata inquietudine, l’autore di questo libro, vissuto tra Roma, Milano, Ivrea, Pozzuoli e la Versilia, con frequenti ed estemporanei soggiorni all’estero. Ideologicamente orientato a sinistra, pativa tuttavia una sua esclusione dal mondo del proletariato proprio a causa della sua elitaria appartenenza all’ ambiente alto-borghese, in qualche modo finendo per vantare narcisisticamente questo suo dualismo culturale e di classe. Tutti e tre i poemetti, composti in cinque anni di ossessivo scavo interiore, con soffocanti tentativi di ancoraggio morale e politico, ruotano esclusivamente e angosciosamente intorno alla sua biografia, con l’esibito desiderio di costruire un personaggio da celebrare e offendere, da straziare con uno scandaglio psicologico di implacabile severità, e da consolare con divertito ma orgoglioso autocompiacimento. Lo stile, che Ottieri stesso definì «scivolosa…prosa rimata» e «funambolismo verbale», è coerentemente narrativo, veloce, colloquiale, con frequenti inserti di locuzioni quotidiane e termini volgari, quasi logorroico e sempre autoreferenziale, talvolta ironicamente allusivo alla più collaudata tradizione letteraria.
La prima raccolta, Vi amo, consta di nove composizioni dedicate a vari amori: i figli («io vi amo non voluti figli…Terribili pubblici ministeri / voi siete…»); antiche amanti suicide; le spiagge tropicali; diversi personaggi principeschi; la passione per i cocktails e la vita mondana; la sua Milano odiosamata («città senza cielo / terrore d’ansia e di suoni»), con la seducente attrattiva dell’elegantissima Via Spiga.
Nella seconda sezione, L’infermiera di Pisa, Ottieri si confronta, servendosi di una spiazzante e vivace leggerezza, con il tema sofferto dei frequenti ricoveri in cliniche psichiatriche, dopo anni di sedute junghiane a Milano e a Zurigo, per cercare di vincere il suo male oscuro, non provocato solo da depressione e bipolarismo, ma soprattutto dalla dipendenza dal sesso e dall’alcol, e da un costante sentimento di inadeguatezza («Tra nevrosi e psicosi, / analisi e benzodiazepine, trascorsero decenni»; «Mantiene psichiatri, psicoanalisti, / psicologi, assistenti sociali, / infermieri, tassisti e baristi»). Preso da una senile e incontenibile passione erotica per un’infermiera pisana, il poeta sbeffeggia se stesso e il suo «sessuale delirio» («Voglio con atletico cazzo / penetrare una stupida fica»), duellando testardamente contro le imposizioni mediche dei luminari della casa di cura, che sfotte sarcasticamente chiamandoli per nome (Cassano, Perugi, Mignani….), convinto che l’unica sua possibile salvezza risieda nelle cure amorose della bella toscana in camice blu.
Il terzo e più esteso poemetto, Il palazzo e il pazzo, torna sui temi assillanti delle precedenti raccolte: il sesso («Il mio dongiovannismo sordido / e tremebondo») e la psicanalisi («Nella mania e nella malinconia / io sono implacabile»). Ma a queste ossessioni se ne affiancano insistentemente altre: l’alcol («Bevvi / dodici bottiglie di rosso di seguito; io non concepisco / le realtà senza birra») e la passione politica («Ho sempre sostenuto che la classe operaia / non deve fidarsi / degli intellettuali»). Prendendo a pretesto un solitario rientro nel palazzo di famiglia a Belverde, nel senese, motivato dalla decisione dei suoi figli di vendere la proprietà, Ottieri, allergico a qualsiasi aspetto pratico-amministrativo dell’esistenza, si misura con il presente e il passato suo personale e dell’ambiente che lo circonda. I «cari luoghi» della sua adolescenza gli appaiono dopo anni oltraggiati dal capitalismo nella natura, nel paesaggio e nel carattere degli abitanti, da cui il poeta si sente estraniato e osservato con sospetto e rancore («tutto il paese mi considera / un verme»). A chi scrive non resta ormai nessuna fede, né in Marx («L’orrido mito marxiano non termina / che con il termine della povertà mondiale. / Allora la televisione potrà tutto; Insomma, che fa / un ex comunista?»), né in Freud («Mentre si cercano / le terapie brevi, le si fanno / interminabili»). Rimane soltanto un’adesione sofferta a una corporeità vissuta come condanna, e la devozione a un IO «scorticato vivo», che spadroneggia imperioso e fragilissimo: unica verità cui ancorarsi. «Sono un uomo senza fantasia, / autobiografico perso».
© Riproduzione riservata www.sololibri.net/Poemetti-Ottiero-Ottieri.html; 19 settembre 2015