ANTONELLA PALERMO, IL GIUNCO E LA STATUA – VYDIA, MONTECASSIANO (MC) 2024
Antonella Palermo, giornalista di origini molisane, vive e lavora a Roma, occupandosi di informazione culturale e attualità internazionale. La sua terza pubblicazione in versi, Il giunco e la statua, edita da Vydia, è introdotta da un’intensa, empatica e sapiente prefazione di Elena Santagata, che ne mette in luce non solo lo stile controllato e piano, fedele a “modulazioni anti-sperimentali”, ma anche l’equilibrato rapporto tra ambientazioni esterne e risonanze interiori, quale si evince dai contenuti della sua scrittura poetica.
Quindi ci imbattiamo in oggetti e persone che affollano le stanze o altrimenti le disertano, creando sospensioni, inquietudini e trasalimenti emotivi. Presenze e assenze, entrambe osservate analiticamente, descritte con attenzione partecipe, e vissute con il pathos di un’acuta sensibilità. La conclusione delle singole composizioni, ridotta a pochi o addirittura a un solo verso, esprime spesso una valenza gnomica e imperativa, rivolta più alla stessa autrice che ai lettori, quasi fosse motivata da un’ansia esplorativa che richiede di essere controllata razionalmente.
La raccolta, dedicata al padre morto dopo una sofferta malattia, si scandisce in tre capitoli.
Il primo è emblematicamente intitolato Il tavolo al centro, a indicare l’elemento dominante di un cenobio familiare non sempre affettuoso: “Ci si sbranava per minuzie // qui ora si gioca al minimo, / le voci attutite, / sentire il vuoto sotto / anche se poggiamo i piedi”. Letti, sedie, divani, mensole, valigie: l’abituale arredamento domestico “si specchia / in un cuore imploso / e smemorato”. L’interno, con l’odore di cavolo bollito, il torsolo di mela ossidato, la polvere che si accumula sui mobili, l’assedio di mosche e formiche, riacutizza un cocente senso di disillusione per le “antiche sicurezze” crollate. Ma anche il fuori, visualizzato in vetrine spoglie, mendicanti, campanelli di ottone sulle porte, suscita una gelida vertigine, derivante dal rapporto tormentoso con un’alterità ostile.
La seconda breve sezione, L’ammanto, è un tenero omaggio al padre contadino, ridotto dalla malattia a esile giunco, a statua di Giacometti, a reliquia fossile. L’uomo che aveva usato tutta la sua forza “per spostare zolle / costruire il pozzo, tirar su gli ulivi” ora, nel suo giaciglio di ospedale, ha perso la voce, respira con l’ossigeno, non controlla più i movimenti. Giustamente la prefatrice parla di un’adesione di Antonella Palermo a un canone di “poesia terminale” inaugurato dalla Serie ospedaliera di Amelia Ros selli, e recentemente frequentato da numerosi autori, con la rievocazione delle dolorose agonie dei genitori, la riflessione sulla memoria e sulla morte, e quindi la finale elaborazione del lutto.
Nell’ultima parte del volume, La parola si arrende, la scrittura si immerge invece nel brulicare della vita, tra paesaggi, situazioni, e frequentazioni personali diverse. I viaggi (Sicilia, Sardegna, trafficate metropoli) presentano l’opportunità di godere nello stesso tempo di “solennità e grazia”, di “Girasoli maestosi / su giacimenti di sterpaglie”, di prolungati silenzi infranti dai “clamori dei bambini”.
Ma nonostante questo vorticare di distrazioni, di incontri, di eventi e località da scoprire, “Non diluisce la piena del dolore”. La poeta esamina con severità il suo atteggiamento di fronte all’esistenza, interrogandosi: “Posso rigare dritto, con voracità, o / ricominciare a dubitare”. Al bivio tra scelte diverse, generose o egoistiche, vitali o deprimenti, prova uno slancio di solidale amicizia nei riguardi della realtà: “Vorrei rammendare gli scheletri del mondo”.
E la parola finale, quella che si arrende al proprio potere trasformatore, è infine rivolta all’altro da sé, che sia un amico, un amore, un fantasma implorante soccorso: “Appòggiati”, gli dice.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net 6 febbraio 2024