GIOVANNI PAPINI, CHIUDIAMO LE SCUOLE! – STAMPA ALTERNATIVA, TARQUINIA 2011
Che ricordo abbiamo, quasi tutti, di Giovanni Papini? Io personalmente, che da ragazza avevo letto con qualche entusiasmo Un uomo finito, mantengo una vaga impressione di lui come severo censore della mollezza letteraria, culturale, civile del popolo italiano: prima classicista, poi futurista, poi convinto interventista, quindi fascista, e infine intransigente cattolico.
Nato e morto a Firenze (1881-1956), Papini fu molto attivo nell’opera di svecchiamento della cultura e della società nel primo ventennio del ’900. Fondatore di due importanti riviste, Leonardo (1903) e Lacerba (1913), collaboratore de Il Regno e direttore de La voce (1912), collaborò intensamente con Corradini, Prezzolini e Soffici, concependo sempre la scrittura come terreno di lotta e azione, e scrivendo in uno stile declamatorio, fortemente polemico e dissacrante. Ebbe il grande merito di divulgare in Italia i maggiori movimenti filosofici stranieri, dall’intuizionismo francese di Bergson al pragmatismo anglo-americano di Peirce e di James. Quasi del tutto dimenticato e rimosso dalla scena culturale attuale, soprattutto per le sue scelte ideologiche e i suoi esaltati atteggiamenti reazionari, è stato recuperato editorialmente da Vallecchi e Mondadori, e oggi gode di un nuovo interesse anche da parte di alcuni movimenti di opposizione, non solo di destra. Stampa Alternativa, ad esempio, ha pubblicato in e-book un suo provocatorio e caustico pamphlet del 1914, Chiudiamo le scuole!, edito per la prima volta in volume da Vallecchi nel 1919, poi dalle edizioni Luni nel 1996 e nel 2013.
La proposta radicalmente rivoluzionaria di questo saggio si basa sulla convinzione non solo dell’inutilità dell’istituzione scolastica, ma addirittura sulla sua incontestabile nocività. Strumento di tortura mentale e fisica dei bambini, di livellamento culturale degli adolescenti, di indottrinamento ideologico degli universitari, l’istruzione statale affonda sistematicamente ogni personalità, originalità e iniziativa individuale attraverso l’imposizione di programmi uniformi, noiosi, formali e antiquati. Essa serve solo alle finalità pratiche della classe dirigente del paese: libera i genitori dall’impegno di seguire i figli per tutta la giornata, illudendoli inoltre sul futuro lavorativo della prole; mantiene una grande quantità di lavoratori (maestri, professori, ispettori, bidelli, editori, librai, cartolai) che altrimenti non avrebbero altra rendita economica; soprattutto forma cittadini ubbidienti e conformisti, incapaci di qualsiasi giudizio indipendente e personale. Non crea cultura, la trasmette solamente, e in maniera superficiale, pietrificata, massificante.
Il giudizio di Papini sulla classe insegnante è impietoso. Chi insegna esercita un potere sadico sulle sue vittime, annoiandole e mortificandole, nella convinzione pretenziosa e ingenua di appartenere a un ceto privilegiato, e di svolgere una funzione educativa indispensabile. In realtà, è molto spesso impreparato e privo di curiosità, svolge il suo lavoro solo per godere di tre mesi di vacanza e di uno stipendio garantito, si esercita a formare greggi ubbidienti di burattini, ripetendo per tutta la vita le stesse lezioni in maniera monotona, e anchilosandosi fisicamente in stanze polverose e malsane. L’unica possibile educazione è quella che si attua nel colloquio tra due persone, o nel commercio quotidiano con la vita e l’esperienza concreta, mentre il solo risultato della relazione tra maestri e scolari in una classe è un rapporto di servilismo, ipocrisia, reciproca diffidenza. Gli alunni sono sinceri solo quando imbrattano “la parete della latrina”.
Gli strali di Papini non sono diretti esclusivamente contro la didattica, ma si rivolgono anche alla costrizione materiale a cui vengono sottoposti i giovani, chiusi in “bianche galere per far patire il loro corpo e magagnare il loro cervello”, quando invece dovrebbero poter godere di tanto spazio per muoversi, e di “un po’ d’igienica anarchia”. Il suo grido di protesta ricorda il “Come vi permettete?” recentemente lanciato da Greta Thunberg all’ONU: “Con quali traditori pretesti vi permettete di scemare il loro piacere e la loro libertà nell’età più bella, e di compromettere per sempre la freschezza e la sanità della loro intelligenza?”
La sua opposizione a ogni tipo di reclusione forzata non si rivolge solo ai fabbricati scolastici, ma a qualsiasi edificio di segregazione, detenzione e isolamento: “Diffidiamo de’ casamenti di grande superficie, dove molti uomini si rinchiudono o vengon rinchiusi. Prigioni, Chiese, Ospedali, Parlamenti, Caserme, Manicomi, Scuole, Ministeri, Conventi. Codeste pubbliche architetture son di malaugurio: segni irrecusabili di malattie generali. Difesa contro il delitto – contro la morte – contro lo straniero – contro il disordine – contro la solitudine – contro tutto ciò che impaurisce l’uomo abbandonato a sé stesso: il vigliacco eterno che fabbrica leggi e società come bastioni e trincee alla sua tremebondaggine”. Mezzo secolo prima di Basaglia, di Illich, di Foucault, Giovanni Papini definiva gli istituti “sinistri magazzini di uomini cattivi”, dove milioni di esseri umani “son condannati al buio, alla fame, al suicidio, all’immobilità, all’abbrutimento, alla pazzia”. Le scuole, a differenza di altre istituzioni, rinchiudono maleficamente solo bambini e ragazzi sani, innocenti e tendenzialmente felici, privandoli della gioia di vivere, della voglia di crescere e imparare autonomamente, per renderli proni alle esigenze della classe dominante.
Cosa suggeriva quindi questo iconoclasta anarchico, per rendere ai giovani il loro diritto a un’esistenza salubre, libera e creativa? Di licenziare tutti i dipendenti del Ministero della pubblica istruzione, offrendo loro pensioni vitalizie purché lasciassero gli studenti “fuori dalle loro fabbriche privilegiate di cretini di stato”. Accidenti! Nemmeno il più esagitato dei Black bloc arriverebbe a proporre una soluzione così drastica e rivoluzionaria…
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 4 novembre 2019