DOMENICO POMPILI, LA FEDE E IL TERREMOTO – EDB, BOLOGNA 2017
Quando, purtroppo molto spesso, le televisioni mondiali ci riportano immagini crudeli di un terremoto avvenuto in qualche parte del globo (ci ricordiamo ancora dei sessantamila morti dello scorso febbraio in Turchia?), mi torna in mente il poemetto che Voltaire compose all’indomani del cataclisma che distrusse Lisbona nel 1755, uccidendo la metà della sua popolazione. Con l’acutezza polemica che lo animava, il filosofo francese stigmatizzava il superficiale disinteresse di chi da quella tragedia non era stato direttamente coinvolto (“Lisbona è distrutta e a Parigi si balla”), ma soprattutto chiamava in causa la giustizia e la provvidenza divina: “Umilmente vorrei, senza offendere il Signore, / che questo abisso infiammato di zolfo e salnitro, / avesse acceso il fuoco in un deserto; / rispetto Dio, ma amo l’universo”.
Con ben altro spirito cristiano e più sincera empatia, Domenico Pompili ha dedicato un piccolo volume al terremoto che nel 2016 ha devastato il centro Italia, territorio che all’epoca lo vedeva occupare la carica di Vescovo di Rieti. In dieci interventi, pronunciati e scritti tra l’agosto 2016 e il gennaio 2017, ne La fede e il terremoto affrontava temi religiosi e laici, avvalendosi non solo di testimonianze di prima mano, ma anche di supporti teologici (i Profeti, gli Evangelisti, San Paolo, Madre Teresa di Calcutta), letterari (Pasolini, Borges, Pessoa, Rodari) e filosofici (Bonhoeffer, Ricoeur), per esprimere solidarietà e conforto alle popolazioni colpite, riflettendo sulla sofferenza e la morte, e prospettando ipotesi di risanamento morale e di ricostruzione materiale delle zone colpite.
Il 24 agosto 2016 Domenico Pompili si trovava a Lourdes: svegliato alle 4 di mattina dalla notizia del sisma che aveva sfigurato il Lazio, alle 16 era già ad Amatrice, imbattendosi in abitanti che sin dalla prima feroce scossa avevano visto crollare le case e finire sotto le macerie i propri familiari. Come consolare l’inconsolabile, dare una risposta a chi chiede il perché di una perdita tanto ingiusta e disumana? Bisogna umilmente lasciare spazio a rabbia sconforto disorientamento, condividere l’angoscia, ricucire la “faglia emotiva” aperta nelle anime, elaborare insieme il lutto, curare le ferite che lentamente si chiuderanno, lasciando comunque cicatrici incancellabili. Parafrasando Ungaretti, l’autore del testo afferma che è sempre il cuore delle persone a essere il paese più devastato. Ma Dio “non è mai altrove rispetto al dolore del suo popolo”, e non deve essere utilizzato come capro espiatorio di una tragedia le cui cause sono spesso da cercare nell’incuria e nei fallimenti umani.
L’amore del Pastore per la sua terra, già colpita da decenni di abbandono e spopolamento, si esprimeva in quell’occasione nell’invito a farne rivivere la bellezza, immaginando altri modelli di sviluppo, assecondando la vocazione verso forme economiche da potenziare: il turismo, l’agroalimentare, grandi potenzialità locali mai del tutto sfruttate. In una rifondazione collettiva si può dare forma a un mondo rinnovato, con l’impegno a “rendere di nuovo abitabile un piccolo paradiso diventato deserto”, consapevoli che “ri-costruire è un’opera prima che materiale, di carattere interiore”.
Un ammonimento prezioso a cui rifarsi, ogni volta che la nostra nazione, di cui purtroppo conosciamo la fragilità del suolo e la negligenza della custodia ambientale, viene messa a dura prova da violenti eventi naturali.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net 10 novembre 2023