JEAN PORTANTE, VOGLIO DIRE – LA VITA FELICE, MILANO 2012

Inconsueta questa prova letteraria di Jean Portante proposta dalle edizioni La Vita Felice: l’autore, nato nel 1950 in un villaggio minerario del Lussemburgo, figlio di emigranti italiani, e vissuto nella condizione sradicata e arricchente del trilinguismo, offre qui ai suoi lettori cinquanta prose poetiche, in uno stile pianamente narrativo che tuttavia vibra dei soprassalti emotivi e lirici della più pura poesia. Presentate con testo francese a fronte, e con partecipi note critiche di Gabriela Fantato e Elio Pecora, queste composizioni hanno la labirintica temerarietà di una sfida visionaria al placido e composto senso comune di chi legge graniticamente, sospettoso di ogni coinvolgimento, timoroso di qualsiasi spiazzamento logico. In quasi ognuna di queste pagine ricorre la perifrasi «voglio dire», con l’intento dichiarato, ma poi non mantenuto, di esemplificare i concetti esposti, di spiegare e chiarire le immagini e le metafore: «Queste parole preferisco tacerle. / Se sono cadute con L’ULTIMA PIOGGIA è quasi come. / Da quattro mesi le aspettavo: voglio dire: aspettare è un modo di parlare: voglio dire: quel che aspettavo era il solco che di lassù chiamava prendendo il corpo delle nuvole per imitare la voce dell’umidità».

In realtà, dopo i due punti (che sono il segno di interpunzione più frequente), e dopo la ribadita volontà di dire, i sentieri polisemantici del discorso si infittiscono e accavallano, lo stile si fa più ansioso e quasi spaventato, nel tentativo di districare un pensiero sempre più intorbidito, confuso: «Voglio dire: quando la farina finisce non comincia necessariamente a mancare il pane dell’oscurità», «Voglio dire: a questo falso inizio che vuole e non vuole che tutto questo sia un fiume». Situazioni e azioni si presentano in una loro indifferente antinomia («Potrei abbassare lo sguardo o sollevarlo», «Tutto è vero e tutto è falso su queste cordate che portano alle parole intime»), in un relativismo ostentato e continuamente sottolineato da i “se”, “forse”, “chissà”, “supponiamo”. Perdura intorno, nelle cose e nelle parole, una sorta di mistero, di enigma che rende indecifrabile il procedere del tempo e dei gesti, sia di quelli quotidiani e minuti, sia di quelli ciclici e universali: e in continuazione il poeta passa dalla descrizione di fatti e sensazioni minime a meditazioni filosofiche più totalizzanti. In particolare la sua riflessione sembra ipnotizzata dallo scorrere devastante delle ere, dal trasformarsi perpetuo degli elementi, dal buio in cui si perde l’origine del cosmo. E di fronte agli interrogativi primordiali, mette in atto una sospensione del giudizio, arretra, sembra intimorito: allora, la sua richiesta di chiarezza, di svelamento, non è rivolta solo a se stesso, ma anche a un “tu” insieme nascosto e dichiarato, a cui ricorre cercando un supporto non solo sentimentale, bensì più propriamente esistenziale, che però non arriva a salvare, a mettere al sicuro: «Tu sollevavi lo sguardo ma dentro tutto si nascondeva». Il rapporto con l’amata ha le stigmate della casualità e di una sostanziale incomunicabilità, come di un ingranaggio fortuito destinato a incepparsi nello scorrere rigoroso e immutabile dei giorni. Se Elio Pecora nella sua appassionata postfazione individua il carattere fondamentale del libro in una specie di «diario amoroso, fitto di ammissioni e di sconfessioni, di estenuanti rivisitazioni e di stremanti addii», in realtà la cifra peculiare di queste composizioni sembra essere maggiormente quella del turbamento, non solamente affettivo, ma culturale: una specie di corpo a corpo con le ultime scoperte dell’astronomia, della fisica quantistica. «L’innocenza genetica», «gli assi elementari del sistema», «la meteorite dell’inizio», «la polvere cosmica» hanno agli occhi dell’autore la stessa, inspiegabile, impenetrabilità dei gesti d’amore: «Nessuna condensazione all’orizzonte tranne quella che segretamente faccio scivolare nella tua tasca», «voglio dire: quando il legame tra gli elementi mi sfugge faccio appello a questa seconda vita che non ci è dovuta». La banalità di un movimento qualsiasi assurge allora al più inquietante interrogativo filosofico, espresso sempre con l’intelligente mimesi del parlato: con le sue esitazioni, le ripetizioni, le incongruenze, le associazioni inconsce che qua e là creano però nel lettore il sospetto di un eccesso quasi manieristico di bravura, di uno sfoggio non sempre necessario di originalità.

 

«incroci on line»,  4 gennaio 2014