NELLY SACHS, POESIE – EINAUDI, TORINO 2006
L’editore Einaudi pubblicò nel 1971, riproponendole poi nel 2006, le Poesie di Nelly Sachs (1891-1970), nata a Berlino da una famiglia ebrea colta e benestante, che la crebbe con austera severità, educandola all’arte e alla musica, e proteggendola amorevolmente dalle intemperie storiche e da ogni frequentazione sociale che potesse turbarne la sensibilità e la salute cagionevole. Legatissima ai genitori, ebbe un unico grande amore, sostanzialmente platonico, per un giovane ucciso dai nazisti nel 1933 in quanto oppositore del regime. Nel 1940 riuscì ad evitare l’internamento in un campo di lavoro rifugiandosi con la madre a Stoccolma, dove rimase esiliata per tutta la vita, soffrendo sia per le crescenti difficoltà economiche sia per le gravi crisi psicotiche che la portarono a frequenti internamenti in clinica.
La sua produzione poetica, iniziata con pubblicazioni stampate in privato già negli anni ’20, si intensificarono soprattutto dopo la guerra, procurandole un crescente successo di pubblico e la stima della critica, culminanti nell’assegnazione del premio Nobel nel 1966. Nutritasi culturalmente del romanticismo tedesco (Hölderlin, Novalis) e della mistica medievale e chassidica, fu considerata appartenente all’alveo dell’espressionismo tedesco, ma lontana da esplicite influenze contemporanee. Da una riflessione iniziale legata alle sue vicende biografiche di scampata allo sterminio, e da una seconda fase di scrittura intessuta di riferimenti biblici, più astrattamente spirituale, passò infine a una poesia indirizzata verso l’ermetismo e la condensazione linguistica sulle orme dell’amico Paul Celan, con cui ebbe un ricco e tormentato rapporto epistolare. Entrambi fortemente segnati dalla stessa origine ebraica, dalla tragica persecuzione nazista, dall’uso comune della lingua tedesca e da uguali angosce psichiche, i due poeti influenzarono e alimentarono reciprocamente la loro opera, similmente drammatica e sofferta.
Il volume, introdotto e curato con puntuale intelligenza da Ida Porena, antologizza versi ricavati da otto raccolte, pubblicate nel trentennio 1940-1970. I temi fondamentali e ricorrenti sono inizialmente quelli dell’innocenza calpestata, in cui le vittime della storia e della crudeltà dei carnefici (bambini, vecchi, sopravvissuti, nascituri, «voci solitarie», «creature di nebbia») non hanno nessuna possibilità di ribellarsi o difendersi: «Oh, i camini / sulle ingegnose dimore della morte, / quando il corpo di Israele si disperse in fumo / per l’aria», «Ma chi vi tolse la sabbia dalle scarpe, / quando doveste alzarvi per morire? / La sabbia che Israele ha riportato, / la sabbia del suo esilio?», «Noi superstiti, / ancora divorati dai vermi dell’angoscia – / la nostra stella è sepolta nella polvere. / Noi superstiti / vi preghiamo: / mostrateci lentamente il vostro sole. / Guidateci piano di stella in stella. / Fateci di nuovo imparare la vita». In un secondo momento prevale la riscoperta delle voci antiche e sapienziali dei profeti dell’Antico Testamento, della cabbala e dello Žohar, con un’adesione viscerale all’alchimia segreta che si situa alla base della parola poetica: «Se la voce dei profeti / soffiasse / nei flauti-ossa dei bambini uccisi, / espirasse / l’aria bruciata da grida di martirio – / se costruisse un ponte / con gli spenti sospiri dei vecchi – // Orecchio degli uomini / attento alle piccolezze, / sapresti ascoltare?», «E allora scrisse l’autore del Žohar / e aprì le vene del linguaggio / e attinse sangue dalle stelle / che invisibili ruotavano, accese / solo dalla nostalgia».
Ovviamente il tema della morte e della dissoluzione fisica aleggia incombente e desolato in ogni pagina («Il dolore abita queste liriche», commenta Ida Porena), ma quasi addolcito da una sorta di rassegnazione, di fatalismo che accomuna ogni fibra vivente: «Ci esercitiamo già alla morte di domani / quando ancora appassisce in noi l’antica morte – / Oh, angoscia insostenibile dell’uomo», «Morti adorati / un capello fatto di tenebra / significa già lontananza / cresce lieve per il tempo dischiuso». Questa cappa plumbea di angoscia viene alla fine riassorbita nella consapevolezza dello scorrere inarrestabile del tempo, è inglobata nel sentimento cosmogonico di uno spazio stellare infinito, attraverso una visionarietà che travalica e supera i mali e le ingiustizie della storia umana.: «Mari e crateri / colmi di pianto / in viaggio per stazioni stellari / oltre la polvere», «Notte / notte / la veste corporea / tende il suo vuoto / mentre cresce lo spazio / via dalla polvere senza canto», »Terra, vecchio pianeta, ventosa al piede / che vuol volare», «l’aria racconta di una luce! / La terra ruota e ruotano le stelle». Stelle e galassie, cieli e spazi cosmici riflettono dall’alto gli elementi terrestri che Nelly Sachs cita con più frequenza: polvere e sabbia, quasi a voler confrontare la caducità dell’elemento umano, con tutta la sua inconsolabile sofferenza, all’eternità luminosa di ciò che lo trascende, e a cui pure deve saper prestare voce la poesia.
«Il Pickwick», 2 febbraio 2018