EDOARDO SANT’ELIA, PULCINELLA A DONDOLO– GRIMALDI, NAPOLI 1998
Edoardo Sant’Elia è nato e vive a Napoli, città di contrasti stridenti, in bilico sempre tra pensiero speculativo ed effusione sentimentale, e tra canto e filosofia, tradizione e trasgressione. Della cultura partenopea Sant’Elia ha nutrito la sua produzione letteraria che spazia dalla saggistica alla poesia, ma soprattutto la sua visionarietà interiore, e un particolare gusto musicale, melodico, che permea – prima ancora di farsi voce – il flusso dei suoi pensieri, e li dirige.
Attivo da vent’anni nel panorama letterario italiano, fondatore e direttore del semestrale Il rosso e il nero, Sant’Elia ha pubblicato molto su riviste e in edizioni raffinate, a tiratura limitata, consapevole che la poesia è un’arte elitaria e di difficile accesso, ma insieme popolare e antica. Godono, infatti, i suoi versi di questa peculiarità che li rende atipici e affascinanti; usando termini bassi, di uso comune, e affrontando temi, situazioni e personaggi molto noti (dal cinema al fumetto alla fiaba), riescono tuttavia a creare un’atmosfera rarefatta ed elegante, percepibile nella sua raffinata ambivalenza solo da un pubblico ristretto.
Lo stridio appena avvertibile, ma concreto che consegue da questo gioco mimetico di aristocraticismo e tradizione popolare, offre alla produzione poetica di Sant’Elia uno straniamento ironico, e fa assumere alla sua figura di poeta-menestrello-cantore la maschera stupefatta di un Buster Keaton, dall’ininterpretabile, e insieme espressivissima, immobilità.
Appunto tra movimento e stasi, fiaba e cronaca, divertissement e tragedia, si situa la voce recitante di questo Pulcinella postmoderno perché disincantato, che sogna Posillipo avendo a che fare con Bagnoli, e suona delicato in un traffico assordante e indifferente un mandolino felice se a qualcuno arrivi almeno l’eco delle sue note.
Alla più tipica delle maschere napoletane, Sant’Elia ha dedicato il suo ultimo lavoro, Pulcinella a dondolo, un’elegante pubblicazione edita nel ’98 da Grimaldi, in 350 esemplari con tre disegni di Lello Esposito. In questo poemetto, Sant’Elia diventa narratore e regista di una favola che ha tutti gli ingredienti della tradizione folklorica: l’Angelo, il Demonio, la Morte. E ancora: lacrime e comete, luna e serenate, raccontate in una lingua che è mescolanza di dialetto da filastrocca popolare e italiano da girotondo infantile. Il protagonista, un assonnato e neghittoso (o forse consapevolmente recalcitrante?) Pulcinella, aggrappato a un cavalluccio di legno, in una corsa metafisica attraverso il firmamento, spronato da forze misteriose e da una voce (incalzante, assillante, imperiosa), viene spinto a correre dalla sera alla mattina verso un approdo non detto, ma facilmente intuibile e spaventoso.
«Corri, corri; chi t’aspetta / non c’è tempo, non c’è fretta». La corsa del cavalluccio appare disperata perché fuori del tempo e senza meta, una corsa dondolante e infinita, che si identifica con la stessa vita e ne segna il tempo, scandendola nella sua oscillazione: «Suonno, puortame luntano / ma con garbo, chiano chiano…». Pulcinella, stanco, incredulo, oppone resistenza passiva a chi lo incita senza sosta: e lo fa con i suoi modi miti, con il garbo che lo contraddistingue. Il sonno è il suo modo di dire no alla morte e alla vita, la sospensione del tempo e della sofferenza, l’unica possibilità di sognare uscendo dalla banalità del quotidiano. E il dondolio del cavalluccio è lo stesso della culla, del rollio della barca, del ninnare di braccia femminili: un Pulcinella che sente potente il richiamo alla regressione, alla scomparsa, all’innocenza della neonatalità. Ed è il ritorno alla voce materna, quella del canto e del dialetto, delle parole buone e semplici dell’infanzia, che Sant’Elia cerca di recuperare con una resistenza feroce nei riguardi di ciò che ci angoscia e ci sporca, turbandoci e spaventandoci: «Il Demonio adesso tace. / Il forcone è senza denti, / le sue corna due frammenti, / puoi contargli anche le ossa / mentre salta nella fossa». Chi sia che vince in questa lotta impari, se le tenebre o la luce, se la tenerezza del ricordo o la curiosità per l’ignoto, se la fiaba o il fumetto, è difficile dire. Ma i poeti hanno il dovere di credere più alla resistenza che alla resa.
«L’Immaginazione» n. 163, dicembre 1999