FLAVIO SANTI, MAPPE DEL GENERE UMANO – SCHEIWILLER, MILANO 2012

Il titolo di questo volume di Flavio Santi (1973) è senz’altro accattivante: «al confine tra la cartografia che uccide l’incanto dei mondi sconosciuti, e la genetica, che chissà cosa uccide», scrive nella sua generosa e ammirata prefazione Emanuele Trevi. Che definisce Santi «un pantografo in versi della nostra condizione di folli ridotti in cattività… stimolato da una dolente e sarcastica musa civile». Lo stesso autore poi esplicita la sua idea di poesia come «potenziale possibilità di mappare il genere umano, in un movimento dall’interno sempre più verso l’esterno, dall’Io all’Altro, in cerchi vorticosamente più concentrici». Con queste premesse, il lettore si avvicina alle pagine di Santi con trepidazione e grandi aspettative, sperando di venire folgorato da qualche metafora, soluzione stilistica, idea illuminante e rivelatrice che ci salvi dalle tenebre che ci sommergono. Ecco quindi il poemetto iniziale, dedicato a due icone nazionali di una generazione inquieta e travolta dalle sue stesse aspirazioni (Marco Simoncelli e Pietro Taricone) in cui il poeta si finge ironicamente clone di un grandissimo di due secoli fa: «mi sono ritrovato anch’io, / per chissà quale oscuro evento, / a nascere Giacomo Leopardi oggi, / che responsabilità, a culo scoperto in pratica». Quindi il dialogo-rispecchiamento-sbeffeggiamento con le figure, i temi, il mondo e la filosofia leopardiana diventa un irriverente e polemico scontro con la tradizione, la storia passata, i maestri celebrati che più nulla sembrano avere da insegnare alla disperazione attuale: «vaghe stelle e solitarie notti da masturbare, / e tu luna che fai tu luna? / Abbandonato, occulto / tutta la notte con in mano il rasoio / del proprio cazzo e con l’altra a cercare / buchi di talpa nella rete / quando davanti non passa / un concilio, un papa, un Pio benedicente, / nemmeno un’etica erotica o pornografica / ma solo il proprio stare qua, in questo / natio sito selvaggio, investito / dalla luce del video, / le mani umide / di chi si è appena fatto, / non mi sono ancora pulito ,/ qualche goccia sulle dita / naufragare il corpo…».

E ancora: «O Nerina, Nerina mia. / La prima della serie: gambe aperte. / Le braccia conserte sui seni, / niente ostensione ascellare. / Nerina, hai la figa slabbrata / ma io ti chiaverò di solo pensiero». Il percorso che il poeta traccia dall’Io all’Altro è quindi scandito nelle varie tappe della sua crescita fisica, culturale, professionale e sociale: dai primi turbamenti sessuali dell’adolescenza, (con un’ esibita ossessione onanistica), agli scontri con l’ambiente familiare ottuso e asfissiante («Odio questo / Papà / fatto di dialisi e di fernet / che ha un inferno nel ventre. / Papà, cacca.»), alla satira rabbiosa contro il sistema universitario, le sue umilianti trafile burocratiche, i compromessi accettati o subiti per arrivare alla cattedra. E il cerchio della denuncia civile si allarga via via fino a comprendere l’ufficialità culturale («borghesi illustri / pieni di letame, morite o vivete / siete sassi, tanto è uguale»), il sindacato («Il sindacato poi è stato / un imbarazzante equivoco, / visto che si sono comportati / come i peggiori fascisti ai ministeri / più inetti. Mandarini dallo stomaco / ostruito, gerarchi bavosi, / pieni di rogna e piegati / sul proprio piccolo cazzetto o / a grattarsi l’ano e soffiare scoregge / che divulgano per lotte di classe»), il mondo intero, corrotto e mefitico. A cui Flavio Santi propone qualche sua ricetta di filosofica analiticità, qualche suggerimento di riscatto: «la storia è fatta di strati / di merda e gemme d’onice», «Il cazzo è condiloma dell’anima, / sua antenna, escrescenza / e mucosa. Dialogare col cazzo / è dialogare con l’anima».
E impietoso è anche il giudizio su se stesso e i suoi imbelli coetanei: «Siamo la generazione perlana / offuscata dagli strapiombi, / dalle risse per vedere Moana», «scopro che ci siamo laureati, / ma non cresciuti, siamo uguali / ai nostri padri», «tuo figlio, guarda, ha il cuore spezzato / e il latte ai testicoli e tanto pantano / ma intanto -piccola normalità- / caga dall’ano».

Emulo probabilmente di un Pasolini ben più temprato di lui nella versificazione e nell’indignazione civile, Flavio Santi ci lascia con due versi che sono davvero e finalmente, i più riusciti del volume , in una poesia dedicata a un misero Bertolt Brecht (e non «Bertold»!) che non ha più niente da dire all’umanità: «vita assassina come farò / a chiamarti bellissima?». Da riflettere, allora, sulle parole del prefatore Emanuele Trevi: «Non credo di esagerare affermando che queste  ‘Mappe’  sono un’opera di altissima ispirazione, un risultato poetico che non assomiglia a nessun altro». Forse (forse) esagera.

 

«criticaletteraria», 2 aprile 14