GEORGE SAUNDERS, LINCOLN NEL BARDO – FELTRINELLI, MILANO 2017
George Saunders, texano nato nel 1958, ingegnere geofisico di formazione, in seguito scrittore e saggista di fama, ha espresso una sua originale vena di autore satirico attraverso la proposta di storie che utilizzando un tono tragicomico, rivelano una pungente critica alla società dei consumi e al ruolo manipolatorio dei media. In Lincoln nel Bardo (il primo romanzo dopo diversi volumi di racconti di successo) si misura con temi più profondi, e con le domande che da sempre si pone l’umanità intera: esiste una vita dopo la morte, rivedremo chi abbiamo amato in un ipotetico aldilà, come si può superare il dolore del distacco definitivo dai propri cari? Lo fa in maniera particolare, usando sia la leggerezza dell’invenzione fantastica, sia l’empatia che nasce dall’osservazione della sofferenza. La vicenda si svolge in una sola notte del 1862, quando l’America è impegnata nella guerra civile e il suo Presidente, il gigantesco – fisicamente e moralmente – Abramo Lincoln porta sulle spalle la responsabilità di guidare il paese nella tempesta, e contemporaneamente vive una sua privatissima e sconvolgente tragedia. Il figlio Willie, splendido e adorato undicenne, gentile d’animo e attaccatissimo al padre, muore per febbre tifoidea dopo una breve agonia. Saunders narra la disperazione dei genitori, il funerale gremito e straziante, le vicende politiche e belliche che continuano a sovrapporsi indifferenti.
L’invenzione dell’autore, che rende il romanzo assolutamente insolito e sorprendente, consiste nell’intercalare ogni momento narrativo con testimonianze cronachistiche dell’epoca (diari, articoli, memorie) e attraverso commenti pronunciati da un coro di trapassati, che osservano e giudicano dall’Aldilà ciò che succede nell’Aldiquà. Una sorta di popolosa e democratica Commedia dantesca, di vociante e confuso Spoon River in cui si radunano potenti e diseredati, nobildonne e ruffiani, sguattere e accademici di ogni età, rievocanti con nostalgia o rabbia, con rimpianto o sete di vendetta la loro esistenza terrena e i particolari del decesso che persistono a non accettare, ritenendosi imprigionati in uno stato onirico destinato a infrangersi magicamente, catapultandoli nuovamente nell’esistenza precedente. Questo affollato Eliso vede quindi arrivare l’ombra impaurita e disorientata del piccolo Willie Lincoln, quando il suo corpo fisico viene invece seppellito nel cimitero di Georgetown, accompagnato dal pianto angosciato dei parenti e dal cordoglio di tutta Washington. La notte stessa, il Presidente torna a visitare la sepoltura del figlio, solleva la pietra tombale, scardina la bara e stringe a sé il cadavere del piccolo, accarezzandolo, mormorandogli parole affettuose, in una delle scene più toccanti del libro, mentre il fantasma di Willie «sfrecciava avanti indietro lì accanto, in un evidente parossismo di frustrazione», stizzito perché il papà cullava la sua forma morta ignorando il suo spirito bisognoso di attenzione e conforto. Così l’anima del bambino decide di rientrare nel proprio corpicino irrigidito, per ritrovare nell’abbraccio paterno la calda intimità del tempo vissuto.
Dall’alto, i defunti stipati nel Bardo (riferimento al “Libro tibetano dei morti”, che indica con tale nome il momento del trapasso) osservano questa incredibile reincarnazione, sperando che lo stesso miracolo possa ripetersi per ognuno di loro. Infatti il limbo viene invaso da una valanga di parenti e amici urlanti, imploranti, recriminanti, furiosi, dando inizio a una sarabanda di scambi tra passato e presente, vita e non-vita, assurdo e razionale, finzione e verità, santità e demonismo che sottolineano come sia sottile il confine che separa la tragedia dalla farsa, la ragionevolezza dalla pazzia, l’eresia dalla fede. I trapassati fanno visita ai cimiteri terreni, i sepolti riprendono i contatti con i viventi, gli scheletri danzano, la vegetazione si anima, silenzi paurosi si alternano a urla assordanti, in un bailamme infernale e celeste in cui l’ultima drammatica domanda rimane quella sull’essere o il non essere.
Abramo Lincoln, nello stesso giorno del suo lutto privato, viene informato dell’eccidio in cui sono sati uccisi più di mille giovani soldati: altri genitori affranti, altro dolore inconsolabile, altri interrogativi senza risposta. «Signore, perché? Perché tutto questo camminare, provare, sorridere, fare inchini, scherzare? Sedersi a tavola, stirare camicie, annodare cravatte, lucidare scarpe, programmare gite, cantare canzoni al bagno? Se poi devo lasciarlo quaggiù?» Anche il lettore, affascinato e sconcertato, si interroga sull’effettiva finalità dello scrivere, quando l’abilità letteraria offre esibizione di sé scommettendo sulle carte del dolore e della disperazione, con il timore che (per dirla con Montale e con il Bardo britannico), “tutti siamo già morti senza saperlo” perché “fatti della stessa sostanza dei sogni”.
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www.sololibri.net/Lincoln-nel-Bardo-Saunders.html 31 ottobre 2017