SILVANO SCARUFFI, ROMANZO DI CRINALE – NEO, CASTEL DI SANGRO 2024, p. 160
Romanzo di crinale è l’ultima originale opera di uno scrittore altrettanto originale, Silvano Scaruffi, che vive a Ligonchio (RE) lavorando come guardiadiga, e ha pubblicato una quindicina di romanzi,
moltissimi racconti e pièce teatrali. Teatrale è in qualche modo anche l’impianto di questo testo, basato su un fitto intreccio di dialoghi diretti, in un linguaggio che mima l’arruffato, inconcludente, ripetitivo, talvolta scurrile e sempre immaginoso, cianciare in un italiano dalle forti cadenze dialettali di un’intera comunità strapaesana. Ambientato in un borgo dell’Appennino tosco-emiliano, località senza nome ai piedi di una minacciosa montagna, animata da fenomeni mostruosi e inspiegabili, la vicenda si snoda tra minime storie di uomini e donne senza storia, personaggi bizzarri legati da una consuetudine esistenziale che li rende fraternamente solidali anche nei dissidi e nei fallimenti.
Il loro paesino è una realtà logistica immobile ed eterna, definita fisicamente dai suoi confini esterni più che dalle caratteristiche interne: “C’è un gruppo di case, ammucchiato su un rivone, streminato lassù dalla mano di un seminatore distratto. E intorno, monti a raggiera. Un ghippo appenninico dove l’aria sa di frontiera, la terra di colonizzazione, le persone di deriva”.
Questo paese è però minacciato da un esproprio territoriale, imposto da una società edilizia chiamata SIO, che intende costruire il Parko, con finalità mai chiaramente definite, ma esposte in incomprensibili dépliant distribuiti periodicamente agli abitanti (“Allora, se ci fate poi caso… fanno ʼsti depliant, quelli lì, della SIO, li stampano e li danno in giro per reclamizzare il Parko, ma non ci si capisce mica una sega di quello che vogliono dire”). Gli indigeni reagiscono compattandosi in una resistenza sfiatata e parolaia, limitandosi a pretendere spiegazioni dal centralino telefonico sulle scosse che provengono dal sottosuolo, scrivendo sui muri Porko Parko, e a cacare provocatoriamente davanti ai cancelli dell’azienda.
In questo villaggio abbandonato da Dio e dalla civiltà, l’iniziativa dell’impresa immobiliare esprime la violenza di un arrembaggio capitalistico volto a stravolgere suolo e natura, calpestando i diritti di gente incapace di difendersi, che in realtà vorrebbe solo continuare a vivere la propria quotidianità senza essere disturbata da ingerenze esterne: “È inutile star lì a ridire che manca il lavoro, mancano le strade, mancano i servizi, manca questo e quello. Ormai l’abbiamo capita ʼsta fola: qua ci manca tutto. Ma a noi, può poi anche darsi che non ci serva niente”.
Chi sono le “persone di deriva” che animano il racconto, opponendosi a un progresso imposto dall’alto e non condiviso? Poveracci, gente stramba, che vive “di crinale”, raccogliendosi intorno all’unico posto in grado di accoglierli e ascoltarli: il bar, frequentato assiduamente dagli uomini di tutte le età, che bevono-fumano-bestemmiano-giocano a carte-litigano. Lo gestisce Brasco, che serve da bere ai rissosi Romma e Burasca, ascoltando le confidenze di Bunga (proprietario di una gatta, di un canarino e di un verme gelosamente conservato in un vaso di vetro: tutti e tre chiamati Bunga come lui) e le fantasie di Ginasio, allampanato boscaiolo in grado di predire il futuro ogni volta che si addormenta, mentre sua moglie Viola lo tormenta con rimproveri crudeli. C’è poi l’animalesco Bestio, che mangia uccellini vivi e beve olio dei motori, ossessionato da visioni horror scaturite dalla montagna che incombe terrifica, oppure dalle acque turbinose del lago: da lì sembra uscire nottetempo una figura mostruosa, un predatore gigantesco alto o due o venti metri: “Dicono scavi giorno e notte. Scavi e basta, tutto a picco e pala. E terra e pietre di risulta, le ammucchi qua e là, a secchiate”, mentre si susseguono spaventosi fenomeni atmosferici che terrorizzano l’intera comunità: “Qua va tutto a botaccio… Qua si sente crocchiare la terra sotto… Viene giù la casa. Presto o tardi, la casa verrà giù”.
Per esprimere paura e rabbia, la gente del paese conosce colorate imprecazioni e bestemmie (“Maledissa al diavle”, “Diavla impestada schiffa”, “Lurida vacca indemoniata”), intercalate a discorsi confusi e sgomenti, che fanno immaginare l’impossibilità di qualsiasi reazione contro il sopruso dei colonizzatori. Invece improvvisa e inaspettata scoppia una rivolta contro la Sio e il Parko, che né impiegati e funzionari dell’azienda, né le guardie della sicurezza riescono a sedare. “I rivoltosi scardinarono il cancello della sede del Parko, si ammucchiarono all’ingresso. Spinsero e scancherarono, finché il por tone si incrinò, poi crollò… Invasero corridoi, stanze e uffici, risalendo le scale, ululanti e fitti, come una colonia di formiche legionarie. A un punto, i vetri delle finestre all’ultimo piano esplosero, le fiamme slinguarono fuori soffiando nella notte. Cenere e lapilli rotearono in aria, sospinti dal vento come insetti di fuoco. Piovve roba dal piano di mezzo, volarono fuori anche gli infis si delle finestre, sedie, scrivanie, schedari, computer, uno scroscio d’ufficio, poi il fuoco ghermì tutto”. Feriti, arresti, cala la notte nel silenzio di un incendio a mala pena domato, e il Romanzo di crinale si chiude senza specificare se “el pueblo unido jamás será vencido”, ma il lettore spera sia successo proprio così.
© Riproduzione riservata «Gli Stati Generali», 22 marzo 2024